Sebbene l’arresto di Mahsa Amini sia avvenuto, secondo le versioni ufficiali delle autorità iraniane, per aver violato la legge sulla maniera corretta di indossare l’hijab, senza alcuna correlazione con l’etnia di appartenenza, la reazione ha seguito la sua morte nella comunità di origine, diventato poi l’emblema del malcontento popolare contro il regime teocratico, si sta rivelando strumentale per Teheran nella lotta al movimento pancurdo.
L’epicentro delle proteste è stata proprio la città natale di Masha, Saqqez, nel Kurdistan iraniano -nord ovest del paese-. Rispetto agli altri focolai di protesta, la risposta delle autorità iraniane nelle aree del cosiddetto Rojhalat, dove si concentra la maggioranza della comunità curda d’Iran, si è contraddistinta in termini di risolutezza: secondo il Center for Human Rights in Iran (CHRI), per numero di vittime tra i manifestanti l’area del Kurdistan (40) è seconda solo alla provincia del Sistan e Baluchistan (123), quest’ultima soggetta da decenni a una violenta campagna di repressione contro i movimenti secessionisti di matrice sunnita.
Le incursioni degli ultimi mesi da parte di Teheran con l’impiego di droni e missili non si sono limitate all’area del Kurdistan iraniano, bensì si sono spinte oltre confine, nel Kurdistan iracheno, colpendo obiettivi ritenuti legati ai gruppi di opposizione curda. Quest’ultimi sono accusati di supportare, attraverso l’invio di armi, i movimenti separatisti nel nord-ovest: il Partito Komala e il Partito Democratico del Kurdistan dell’Iran (KDPI) - la più longeva organizzazione curda, dichiarata illegale in Iran - con i suoi membri costretti all’esilio in Iraq. Teheran sarebbe addirittura arrivata a minacciare un’operazione militare di terra in territorio iracheno qualora Baghdad non si mostrasse collaborativa nel contrasto a quelli che la Repubblica islamica considera terroristi legati a doppio filo ai rivali regionali.
Da un lato la morte di Mahsa ha ridato enfasi alle istanze indipendentiste curde, rianimando lo spirito identitario della comunità. Dall'altra ha riacceso il risentimento di matrice politica, per lo più spontaneo, per la morte di una ragazza figlia di quella dimensione culturale. E' questo risentimento che diventa l’appiglio funzionale al regime, da un lato per intensificare la stretta sui gruppi curdi e dall’altro per delegittimare le proteste. Laddove prenda forma il dissenso, è proprio della teocrazia iraniana ricorrere a quella narrazione che tende a rappresentare l’opposizione come un corpo estraneo al contesto nazionale, dove quest’ultimo non esprime alcun legame con gli strati della società. Nella retorica di Teheran, il dissenso non è espressione della profondità del territorio, bensì lo strumento di cui si servono i cosiddetti “nemici esterni della rivoluzione” per minare all’integrità della Repubblica islamica. In questa narrazione, le istanze curde fungono da mero capro espiatorio per la teocrazia iraniana, inquadrate come una “quinta colonna” alla mercé di forze esterne ostili.
I curdi rappresentano circa il 10% della composizione etnica dell’Iran (tra 6 e 8 milioni). La sfera culturale nella quale si identificano e interagiscono, dalla lingua alla matrice religiosa, costituisce una linea di demarcazione che contrasta con il modello di coesione nazionale perseguito dal regime iraniano, dove i provvedimenti adottati da quest’ultimo, in materia di istruzione, giustizia, politica economica, pari opportunità ecc. mirano a superare quelle sfumature che da sempre sono il tratto distintivo di una popolazione, che per il 40% è composta da minoranze etniche. Dalla svolta teocratica del 79’, e la fatwa dell’allora Guida Suprema Ruhollah Khomeyni, che legittimò, de jure, un uso indiscriminato della forza nei confronti della minoranza curda, la stessa è divenuta oggetto di un sistematico processo di discriminazione, in primis istituzionale: secondo i dati della ong norvegese Hengaw, nel 2021 più dell’8% dei condannati a morte a livello globale erano detenuti curdi in Iran; mentre in un rapporto ONU citato dall’Associazione per i diritti umani dei curdi, si stima che la metà dei prigionieri politici nelle carceri iraniane sia di origine curda.
Negli ultimi due decenni, in concomitanza con l’ascesa di forze politiche ultraconservatrici e l’acutizzarsi del dissenso che le loro politiche repressive hanno alimentato nella società iraniana, si è assistito a un intensificarsi della repressione nei confronti della minoranza curda.
Misure come la proposta nel 2018 dell’allora vice ministro dell’Istruzione, Rezwan Hakimzadeh, di introdurre un test di lingua farsi in età prescolare, associando un’insufficienza nel medesimo a un “difetto biologico”; così come l’incremento delle sentenze di condanna nei confronti di insegnanti e attivisti curdi, come il caso di Zara Mohammadi, delineano una traiettoria del potere centrale che va nella direzione del rifiuto di un modello di società eterogenea, dove quest'ultima è percepita dagli apparati come una minaccia all'integrità e alla sicurezza nazionale.
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Fonti consultate per il presente articolo:
https://www.hrw.org/news/2022/....
https://www.iranhr.net/en/arti...
https://www.reuters.com/world/...
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https://www.kmmk.info/en/2217/...
https://www.refworld.org/pdfid...
https://www.opendemocracy.net/...
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L'Autore
Davide Shahhosseini
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Iran Mahsa Amini Kurds