La necessaria rivoluzione della moda per maggiori diritti

I lati nascosti della fast fashion: sfruttamento e impatto ambientale

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  Arianna Amodio
  14 dicembre 2022
  6 minuti, 15 secondi

Impatto ambientale e inquinamento sopra ai massimi livelli sono i due elementi più spesso accompagnati alla questione della fast fashion. L’industria tessile infatti, risulta produrre una delle quantità maggiori di CO2, in combinato con l’uso spropositato di acqua, sia nella fase di produzione che nella fase di smaltimento dell’abbigliamento. Le enormi quantità di vestiti che ogni giorno ed ogni anno vengono buttate via dai consumatori sono solo in minima parte riciclabili. Molti di essi infatti o sono prodotti in fibre sintetiche e micro-plastiche, mai totalmente degradabili, o di materiali misti, impossibili da recuperare.

Poche sono le industrie e i brand ad esse associati che hanno sviluppato delle politiche innovative e sostenibili, andando a ricavare i loro capi da materiali riciclati o utilizzando fibre e tessuti a basso impatto ambientale. Poche sono le industrie che rendono note le loro iniziative e i loro metodi di produzione, rendendo ancora più difficoltoso per i consumatori attuare scelte consapevoli e sostenibili.

Purtroppo però, la fast fashion non impatta solo sull’ambiente ma anche sulla società, aspetto che spesso si dimentica o si lascia in secondo piano. Molti dei brand che offrono capi a prezzi accessibili a tutti, di qualità conseguentemente medio-bassa, destinati a durare nel tempo quanto lo fanno le mode e i desideri dei consumatori, non lo fanno per solidarietà ed hanno strategie compensative che gli permettono di mantenere alti i profitti, producendo risultati drammatici.

I bassi prezzi infatti, non indicano solo una qualità scarsa, e quindi spesso anche un maggior inquinamento, ma diventano purtroppo anche indici alti di sfruttamento umano. Un prodotto per essere creato non ha solo bisogno di una macchina automatica, ma anche di persone che lo perfezionino nei dettagli, che ne controllino il risultato finale, che provvedano alla manutenzione e alla eventuale riparazione. Servono poi i fattorini che garantiscano il trasporto dei prodotti nei negozi o grandi magazzini, o direttamente al domicilio dei compratori che preferiscono acquistare online. Tutte queste persone spesso, lavorano secondo orari disumani, in condizioni altrettanto degradanti, per una paga irrisoria, al di sotto del minimo legale, senza alcuna tutela o diritto.

Si pensi a tutti gli autisti che arrivano anche la domenica mattina o nelle pause pranzo, per recapitare i vestiti ordinati solo qualche ora prima, spesso senza ottenere alcun ringraziamento per il servizio veloce ed efficiente, ma solo lamentele per aver interrotto il pasto o il riposo pomeridiano, momenti a loro negati. Invettive contro coloro che stanno semplicemente facendo il loro lavoro, o meglio che si stanno lasciando sfruttare, direttamente dai loro datori di lavoro, indirettamente dai consumatori. Allo stesso modo, affinché la crescente domanda di capi di abbigliamento che siano al passo con i tempi e rispondano alle ultime tendenze provenienti da tutto il mondo, milioni di persone lavorano nelle industrie tessili, senza sosta, in modo da produrre il massimo numero di capi. I negozi non possono rimanere troppo tempo sprovvisti di vestiti o di taglie. Tutti devono avere la stessa possibilità di accedere e possedere lo stesso paio di scarpe, la stessa giacca o pantalone che spopola sui social e tra gli influencer. Apparire simili al gruppo è considerata ormai, una cosa positiva, simbolo di inclusione. La diversità e l’unicità nello stile di vestire non è più guardata come un punto di forza, di emancipazione.

Si preferisce spendere poco per vestiti che durano poco, ma che sono presentati come alla moda. Si stima che oggi vengano acquistati il 60% in più di vestiti, di cui il 73% finisce quasi direttamente in discarica, venendo usato poco o mai. Il report del 2021 di Changing Markets Foundation "Fossil Fashion. The Hidden reliance of fast fashion on fossil fuels", ha infatti dimostrato come il consumo incontrollato di vestiti si traduca in inquinamento ambientale, e soprattutto in sfruttamento.

Anche WWF ha varie volte richiamato i vari paesi ad una collaborazione internazionale in modo da varare legislazione più stringenti e controlli maggiori e più incisivi nei confronti delle industrie tessili. L’associazione chiede maggior trasparenza circa i metodi di produzione, maggior impulso e investimento per metodi più sostenibili, così come maggior ricerca nell’ambito dei prodotti naturali e sostenibili. Allo stesso modo, si chiede ai consumatori di ricercare ed informarsi circa la provenienza dei capi da loro acquistati. Laddove infatti si matura dal basso la consapevolezza che dietro ad ogni scelta vi sono delle conseguenze, sebbene indirette, che possono avere impatti negativi non solo sull’ambiente che ci circonda ma anche su altri esseri umani, si spera che le cose possano progressivamente cambiare.

Una rivoluzione della moda che chiede la fine del ragionamento solito del “business as usual”, cioè del lavorare secondo la prassi solita, che sarebbe una scelta insostenibile nel lungo periodo, sia per il pianeta che per il lavoratore. Sono necessarie delle misure a tutela di coloro che accettano di prestarsi allo sfruttamento in tale ambito, per disperazione, necessità e spesso anche scarsa conoscenza dei propri diritti. Per questo WWF, cosi come la campagna “Labour Behind the Label”, chiedono sindacati a tutela dei diritti umani e fondamentali di queste persone, soprattutto donne e minori, affinché gli siano garantiti salari equi, contratti a tempo indeterminato, ferie pagate, orari fissi e protezione da ogni tipo abuso. Sono cambiamenti che si rendono necessari, perché le necessità e i desideri legati al possesso di abiti e vestiti “trendy” non possono andare a danno o a svantaggio di altri. Il bilanciamento tra diritti e libertà, che viene considerato nell’applicazione di misure e leggi, in questo caso, deve andare a netto favore dei secondi.

Molti brand hanno già iniziato a modificare le loro tecniche e procedure di produzione, usando i dati e gli obiettivi raggiunti come un’ottima pubblicità agli occhi dei consumatori. Sostenibilità e trasparenza stanno progressivamente diventando la nuova moda che, diversamente da altre, può fare del bene. Purtroppo però, ancora molte, troppe industrie faticano ad attuare la stessa rivoluzione soprattutto nei confronti dei loro lavoratori. Preferiscono mantenere i salari bassi, cosi da non dover alzare considerevolmente i prezzi dei capi. Come mostra Labour Behind the Label, in molti paesi, quali Cambogia, India, Ungheria, Romania e Sri Lanka i salari sono mantenuti troppo bassi rispetto al costo della vita.

Si rende quindi necessario anche un cambio di mentalità, essendo impossibile pensare di sostenere tale rivoluzione mantenendo inalterata la domanda. Così come si accetta di aspettare 15/20 minuti al ristorante per la portata ordinata, apprezzandone i tempi di preparazione e di lavorazione come segno di qualità e di artigianalità, allo stesso modo si dovranno attendere tempi maggiori di produzione e quantità limitate di capi.

La diversità e l’unicità di un capo fatto a mano, con materiali naturali e più sostenibili, che rendono ogni abito leggermente diseguale dall’altro, che sia per il colore, per il taglio o per una cucitura, dovranno essere motivo di vanto e non di esclusione. L’uso di fibre e tessuti di qualità, permetteranno anche una maggiore durata nel tempo del prodotto, evitando quindi gli enormi sprechi e il conseguente inquinamento del riciclaggio e dello smaltimento.


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Le fonti impiegate per la stesura della presente pubblicazione sono liberamente consultabili:

https://labourbehindthelabel.org/living-wage/

https://www.wwf.ch/it/i-nostri-obiettivi/rating-wwf-industria-tessile-e-dellabbigliamento

http://changingmarkets.org/ 

http://changingmarkets.org/wp-... 

Fonte immagine:

https://pixabay.com/it/photos/...

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L'Autore

Arianna Amodio

Arianna Amodio, classe 2001, iscritta al terzo anno della Triennale di Scienze delle Relazioni Internazionali dell'Università Statale di Milano, é autrice per la sezione di Diritti Umani del MIPost. Interessata a questioni inerenti in particolare alla tutela dei diritti umani e a progetti di peace building, aspira ad una carriera giornalistica.

Categorie

Diritti Umani

Tag

fashion inquinamento sfruttamento