Si chiamano Dar al-Re’aya, dall’arabo ‘’case di cura’’: così vengono definiti questi centri dalle autorità.
Istituiti negli anni ‘60 e presentati dal regime come ‘’rifugi per ragazze accusate o condannate di vari reati’’, hanno lo scopo di riabilitarle con l’aiuto di psichiatri per poi ‘’restituirle alle loro famiglie’’. Accolgono donne e ragazze tra i 7 e i 30 anni, cacciate dalle loro famiglie o dai mariti per disobbedienza o relazioni extraconiugali. Ufficialmente, in queste strutture si trovano donne che necessitano di "correzione sociale” e “rafforzamento della fede religiosa” perché ritenuta deviata la "retta via", e spesso coloro che sono in attesa di indagine o processo.
Ma la realtà, come indicano molteplici testimonianze, è ben diversa.
L’esistenza di questi luoghi è nota da anni, ma se ne è tornato a parlare in seguito ad un’inchiesta pubblicata dal Guardian, che negli ultimi sei mesi ha raccolto le poche testimonianze di donne sopravvissute nei centri.
Da questa inchiesta sono emersi abusi fisici e psicologici, pratiche religiose imposte, isolamento forzato, fustigazioni, assenza di contatti con l’esterno, condizioni igieniche precarie e malnutrizione.
Un sistema che si configura a tutti gli effetti come uno strumento di controllo e punizione delle donne.
Le condizioni sono talmente drammatiche che ci sono stati negli anni casi di suicidio o tentato suicidio. Emblematico il caso del 2015, quando una donna venne trovata impiccata nella sua cella, con un biglietto che recitava: ‘’ho deciso di morire per sfuggire all’inferno’’.
Si parlò nuovamente di queste prigioni nel 2017 con la diffusione della foto di una donna vestita con un abaya nero, in bilico sul davanzale di una finestra al secondo piano di un edificio nel nord-ovest dell’Arabia Saudita. Pare stesse cercando di fuggire, ma venne successivamente catturata da un gruppo di uomini con l’aiuto di una gru.
Al momento non esistono dati ufficiali su queste strutture: nel 2016 erano 233 le donne che risultavano detenute nelle sette strutture del paese, ma nel 2018 il governo aveva annunciato l’intenzione di aprirne altre cinque.
Un’attivista saudita per i diritti delle donne afferma: ‘’L’unica alternativa per uscire da queste ‘’prigioni segrete’’ per ragazze ‘‘disobbedienti’’ è attraverso un tutore maschio, il matrimonio o buttarsi giù dall'edificio. Uomini anziani o ex detenuti che non trovavano moglie ne cercavano una in questi istituti. Alcune donne la vedevano come l'unica via d'uscita."
Le testimonianze delle sopravvissute
Le sopravvissute a questi centri, chiamate nazeelat, ora attiviste all'estero per i diritti delle donne, ne raccontano gli orrori.
In particolare, Sarah Al-Yahia, attualmente a Londra e portavoce della campagna per abolire le case di cura, ha raccolto molte delle loro voci. Le ragazze riferiscono di essere state identificate con numeri, sottoposte a perquisizioni corporali e test di verginità all’arrivo. Le frustate erano frequenti: per aver pronunciato il proprio cognome, per non aver pregato, o persino per essere trovate da sole con un’altra donna, sospettate di essere lesbiche.
In aggiunta, le celle erano sorvegliate 24 ore su 24 tramite videocamere. Altre testimonianze affermano che nel rifugio di Riyad, la capitale saudita, venisse registrato il ciclo mestruale delle donne in un diario. Ulteriori fonti riferiscono che venivano fatti entrare degli uomini nelle strutture per picchiare le detenute, e in alcuni casi, donne e bambine subivano molestie sessuali. Tuttavia, le denunce cadevano nel vuoto.
Inoltre, fin dall’adolescenza, molte ragazze vengono minacciate di essere mandate in queste strutture se non si sottomettono agli abusi sessuali di padri o fratelli. Alcune fuggono all’estero, altre si trovano di fronte a un tragico bivio: subire violenze in famiglia o vivere sotto tortura nei centri.
Grazie alle denunce di ex detenute, un video del 2022, condiviso dal sito inglese MailOnline, mostra agenti di polizia sauditi picchiare brutalmente, frustare con cinture, colpire con bastoni e trascinare per i capelli alcune donne nella struttura di Khamis Mushait, provincia di Asir.
Cosa succede dopo la detenzione?
Dato che molte detenute sono state denunciate, ripudiate o rinnegate dai familiari, è molto raro che al termine della detenzione vengano riaccolte. L’obiettivo delle ‘’case di cura’’ è trasferire la custodia della donna a un tutore nel giro di due mesi. Se il tutore o la famiglia si rifiutano di accettarla, l’istituzione le trova un pretendente per un futuro matrimonio.
Per le donne di età superiore a 30 anni, è previsto un altro tipo di struttura chiamata Dar al Theyafa, o “Casa dell’ospitalità”, sotto il controllo dello stesso ministero.
La risposta del regime
L’Arabia Saudita si promuove sulla scena internazionale come un Paese in fase di riforma, ma la realtà interna contraddice questa narrazione.
L’esistenza stessa dei centri Dar al-Re’aya è una contraddizione della volontà espressa negli ultimi anni dal principe ereditario Mohammed bin Salman, che promette una serie di riforme economiche e sociali chiamate ‘’Visione 2030’’, tra cui l'obiettivo di allentare progressivamente le restrizioni a cui il regime sottopone da decenni le donne nel paese.
Questa sua volontà ha fatto sì che nel 2024 l’Arabia Saudita abbia ottenuto senza alcuna opposizione la presidenza della Commission on the Status of Women (Csw), commissione delle Nazioni Unite incaricata di promuovere l’eguaglianza tra i sessi e rafforzare i diritti delle donne nel mondo. Nonostante ciò, l'Arabia Saudita rimane famosa per la sua visione dei diritti umani, venendo classificata nel 2024 dal Global Gender Gap Report del World Economic Forum al 126° posto su 146 paesi.
Come ha reagito la comunità internazionale?
Le organizzazioni per i diritti umani come Amnesty International e Human Rights Watch si battono da anni per la chiusura delle Dar al-Reaya, ma è essenziale che l’intera comunità internazionale intervenga affinché vengano adottate misure concrete per garantire la dignità e libertà alle donne in Arabia Saudita.
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