Nel corso dell’ultima decade, tra il mondo degli analisti e dei giornalisti che si occupano di politica internazionale si sono fatte strada paure e dubbi riguardo l’incisività e la capacità di influenza dei paesi occidentali nel panorama strategico mediorientale e nordafricano. Non si possono negare un indebolimento dell’egemonia americana e la fatica con cui gli attori europei gestiscono i numerosi dossier regionali.
Vediamo quindi quale sono i rischi e le opportunità in un panorama strategico in evoluzione e sconvolto da un conflitto che rischia di precipitare in una più ampia guerra regionale.
La fine dell’egemonia: cambiamenti e rischi nella nuova multipolarità regionale
Con lo scoppio della Primavera Araba la regione è precipitata nel caos, con diversi rovesciamenti di governo, lo scoppio di guerre civili e la comparsa dello Stato Islamico. Non si può negare che a distanza di molti anni gli attori occidentali scontino una posizione indebolita e abbiano visto la propria influenza menomata dalla cascata di conseguenze dovute a tali sconvolgimenti.
Francia e Gran Bretagna sono gli attori la cui influenza è ormai solo un’ombra di quella passata. In Nordafrica, Parigi ha perso influenza nelle ex colonie come la Tunisia e non è migliorato il rapporto con l’Algeria. Algeri è anche il paese della regione in ottimi rapporti con Mosca, della quale è uno dei principali clienti nell’industria della difesa. Questi due paesi del Maghreb hanno instaurato un rapporto proficuo ma ambiguo con Roma, che però a sua volta non è in grado di lavorare ancora in maniera sistemica e deve riscattarsi nella matassa politico-militare libica. Nello “scatolone di sabbia” ormai i due grandi attori che influenzano le dinamiche interne sono principalmente Mosca e Ankara, madrine delle principali fazioni in competizione per il potere. Gli sforzi di mediazione onusiani, sostenuti dall’Occidente, ma non in maniera coerente e trasparente da Parigi, continuano a collezionare fallimenti, sembra quasi anche nel disinteresse statunitense. L’Egitto vive una crisi economica e risulta il classico “gigante dai piedi di argilla” e non desta preoccupazione tra i governi d’Europa ma si trova soffocato dai debiti e conta sul sostegno statunitense e saudita per bilanciare la sua precaria condizione finanziaria.
Spostandosi a oriente la situazione non si fa più rosea. La Turchia sotto il dominio del rais gioca ormai da battitore libero ed è il principale free rider dell’Alleanza Atlantica, perseguendo diverse direttrici di politica estera, non sempre in complementari con le agende delle cancellerie occidentali. Solo la pesante crisi economico-finanziaria impedisce ad Ankara di proiettare potenza oltre i propri confini come negli anni precedenti la pandemia, in cui si cimentava in operazioni militari in Siria e diplomazia del cannoniere nel Mediterraneo orientale. La Turchia continua a guardare all’Europa per le imprescindibili partnership economiche, ma il suo orientamento geostrategico è rivolto a est e a sud verso il mondo turcico in Asia e quello musulmano in Africa. Nonostante la presenza militare statunitense, Siria e Iraq sono pesantemente influenzate dal vicino Iran e da Mosca, di cui Damasco è il principale protetto nella regione.
I rapporti con le monarchie del Golfo rimangono stretti, anche perché queste non hanno ancora trovato un’alternativa credibile come security provider con cui possano sostituire gli USA. L’attacco iraniano ha mostrato come nel momento di crisi eccezionale le monarchie del Golfo preferiscano ancora la protezione di Washington per affrontare le eventuali accelerazioni dell’agenda egemonica iraniana. Nonostante la guerra tra Israele e Hamas, la tenuta degli Accordi di Abramo inaugurati da Trump, il cui ampliamento è stato perseguito dall’amministrazione Biden, mostra la volontà di questi attori di attuare un cambio di paradigma esplorando le possibilità di cooperazione con lo stato ebraico. Tuttavia, allo stesso tempo, sia i sauditi sia gli emiratini sembrano orientati a tentare la via della mediazione con la repubblica islamica, anche con l’aiuto di potenze esterne come la Cina. Gli Stati Uniti hanno conferito all’emirato di Doha il riconoscimento di “Major Non-NATO Ally” della regione, nonostante i rapporti di questo con il regime talebano e la protezione concessa alla dirigenza di Hamas. Anche gli emiratini hanno ormai abbandonato ogni ostracismo nei confronti dell’Emirato afghano accreditando il primo diplomatico talebano. Le agende tra queste potenze locali e i loro alleati esterni divergono anche riguardo lo Yemen. Mentre le monarchie arabe propendono per il modus vivendi con gli Huthi, per gli europei e lo statunitense è essenziale scoraggiare impedire la chiusura di un collo di bottiglia fondamentale per i commerci quale lo stretto di Bāb el-Mandeb.
Nel Caucaso la situazione è in continua evoluzione. I due alleati storici hanno anche loro ricalibrato le proprie priorità e le possibilità di azione. La Georgia è tormentata da tensioni interne tra l’anima più europeista e quella che cerca un’equidistanza tra i blocchi. Il regime azero ha notevolmente migliorato i rapporti con la Federazione Russa, che ha ormai abbandonato al proprio destino lo storico ma geopoliticamente irrilevante alleato armeno, le cui difficoltà non sembrano interessare né gli europei né i policy maker di peso a Washington. Entrambi continuano a voler mantenere un rapporto stretto con Baku per preservare le rotte di idrocarburi verso il continente e un bastione anti-iraniano nella regione.
Anche il rapporto con Israele non può essere definito ottimale. Alla prova dei fatti, gli europei non hanno alcuna possibilità di influenzare, consigliare o perlomeno contenere certe politiche dello stato ebraico. La potenza di riferimento sembra incapace di decidere e timorosa di agire nei confronti del vecchio alleato.
Come l’età unipolare, anche l’egemonia statunitense e quindi occidentale è tramontata. La regione è costellata da “vuoti critici” geopolitici, da stati sull’orlo dell’abisso e attori che hanno trovato nuova forza e volontà di perseguire proprie agende di dominio o influenza regionale. Le dirigenze europee in particolare dovranno quindi svegliarsi dal torpore strategico assicurato dalla precedente egemonia americana e trovare nuove modalità di collaborazione in un contesto regionale sempre più fluido.
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L'Autore
Michele Magistretti
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