Moda e sostenibilità

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  Redazione
  25 settembre 2020
  3 minuti, 47 secondi

A cura di Valeriana Savino

Il complesso sistema moda si fonda da sempre su una logica manifatturiera che può definirsi lineare, dal momento che poggia sul consumo di materie prime vergini per la creazione dei filati con cui confezionare tessuti e capi d’abbigliamento, destinati da ultimo a finire in inceneritori o discariche (secondo l’ideale percorso concettuale ‘‘take-make-use-dispose’’, in italiano risorse-produzione-consumo-scarto).

Più di recente, alcuni tra i brand e gli stilisti emergenti (da sempre più sensibili a queste tematiche) già in fase di progettazione si stanno muovendo verso un modello di economia circolare, nel tentativo di arginare il consumo massivo di risorse naturali vergini per convergere verso il cosiddetto sistema rigenerativo.
Quest’ultimo prevede che i capi d’abbigliamento circolino fino a quando sono in grado di mantenere intatto il loro valore, per poi ritornare in sicurezza nella biosfera quando non più utilizzati. Per queste ragioni, i prodotti circolari devono essere progettati tenendo conto di fattori diversi: non tossicità, biodegradabilità, riciclabilità, ma anche un uso efficace delle risorse.

Non si tratta di un cambio di paradigma banale. Per raggiungere questi obiettivi – spesso non in linea con la ricerca del fatturato “a tutti i costi” –, il settore ha bisogno concretamente di innovare i suoi processi, se non altro per conquistare un rapporto di fiducia con consumatori, sempre più esigenti.

La circolarità è necessaria perché la moda, che ha per natura vita breve, è una delle industrie più impattanti: con un modello di consumo che propone sempre più prodotti che vengono sempre meno usati, occorre trovare il modo di chiudere i cicli al suo interno. Questo settore si sta riprogrammando in funzione del cradle-to-cradle, per ottimizzare non solo la materia ma tutte le risorse di energia, calore e acqua, senza trascurare packaging e logistica.

Si sta investendo molto sul riciclo post-industriale, dal momento che è qui che si generano i volumi più che nel post-consumo. Le tecnologie digitali giocheranno un ruolo fondamentale: rin-tracciabilità, misurazione e reporting. Si pensi alla chimica: nel 2011 Greenpeace lanciò una campagna dirompente chiamata Detox. Si cominciò a parlare con insistenza dei danni alla salute e all’ambiente provocati dalle sostanze chimiche tessili e in breve crollò un consolidato status quo, con una ripercussione totale sull’intero sistema moda, cambiandolo per sempre in meno di dieci anni.

Insomma, la gestione della chimica non è passata di moda, ma continua ad andare di pari passo con la circolarità: se non produci moda pulita, sei fuori mercato. La chimica sostenibile coinvolge trasversalmente tutte le filiere, ma in particolare quella del tessile: in quest'ultima l’attenzione è ancora molto alta, poiché nei prodotti sussistono reali possibilità di trovare sostanze pericolose per la salute dell’uomo e dell’ambiente. Purtroppo le sostanze da eliminare o sostituire sono molte e la globalizzazione ha spostato nei Paesi extra UE importanti quote di produzione tessili che non rispettano regole di sicurezza, tutela ambientale ed equità sociale. La produzione delle componenti chimiche di base è quasi completamente delocalizzata in Estremo Oriente e quindi difficile da controllare ed indirizzare. In Europa però negli ultimi dieci anni il controllo e l’eliminazione dal mercato dei composti chimici più pericolosi hanno dato ottimi risultati con numerose aziende, che stanno rispondendo in modo concreto alla richiesta di ridurre l’impronta ambientale con analisi sugli articoli, l’adozione di sistemi di gestione chimica e la redazione di rapporti di sostenibilità.

La sostenibilità chimica non può che essere legata alla qualità delle sostanze utilizzate, per cui il ruolo della ricerca e dell’innovazione diventa cruciale per individuare nuove sostanze che possano sostituire quelle più “pericolose”. Questo obiettivo per essere realizzabile deve risultare “tecnicamente fattibile e praticabile ma soprattutto economicamente sostenibile. Al di là della consapevolezza che applicazioni superficiali o scorrette della disciplina chimica possano determinare problemi, servono concrete e importanti motivazioni economiche per migliorare.
La valutazione di questi fattori tuttavia è molto legata alla zona geografica del mondo o al Paese in cui l’impresa opera. Le direzioni intraprese dall’Europa verso l’abbandono di processi industriali inquinanti e l’invenzione di nuovi processi produttivi con meno emissioni non sono state motivate da obblighi e costrizioni ma piuttosto da una coscienza ambientale orientata dalla legislazione esistente.
Occorre spingere verso una diffusione delle direttive inerenti la salute dei lavoratori e dell’ambiente dei diversi Paesi per garantire, non solo a una maggiore sostenibilità, ma anche l’incremento di una corretta concorrenza, su basi paritarie di reciprocità, fra le imprese e le economie degli Stati.

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