Si parla di greenwashing quando un’azienda, un’organizzazione o un’istituzione fa credere di essere più “verde” di quello che è. Ma cosa vuol dire veramente essere più “verde”? Almeno in teoria dovrebbe essere un sinonimo di “sostenibile”, o “buono per l’ambiente”, ma spesso questi termini, come del resto aggettivi come “bio” “etico” vengono usati a sproposito dalle aziende per motivi di marketing.
Non sono poche, infatti, le imprese che cercano di cavalcare l’onda della crescente consapevolezza ambientale dei consumatori e della loro maggiore propensione ad acquistare prodotti che dichiarano di avere un impatto ambientale basso o nullo.
Ma in quanti di questi casi ciò che viene dichiarato ha effettivamente un riscontro nella realtà? I dati a nostra disposizione ci mostrano che quello del greenwashing è un problema dilagante in Europa: uno studio della Commissione Europea del 2020 ha rilevato che delle asserzioni ambientali esaminate il 53,3% erano vaghe, fuorvianti o infondate e che il 40% era del tutto infondato.
Purtroppo, al momento, la mancanza di norme comuni a cui attenersi facilita la diffusione di standard creati ad hoc dalle aziende per la propria merce e rende complicato per i consumatori distinguere chi implementa iniziative effettivamente ecologiche e chi mette in atto un ambientalismo di facciata.
Per far fronte a questo problema, lo scorso 22 marzo la Commissione Europea ha adottato la proposta di una nuova direttiva sui green claims, che nella direttiva sulla responsabilizzazione dei consumatori (pubblicata a marzo 2022) vengono definiti come <<qualsiasi messaggio o rappresentazione, non obbligatorio ai sensi del diritto dell'Unione o del diritto nazionale, [...] che afferma o implica che un prodotto o un operatore commerciale ha un impatto positivo o nullo sull'ambiente o è meno dannoso per l'ambiente rispetto ad altri prodotti o commercianti, rispettivamente, o ha migliorato il loro impatto nel tempo>>.
In cosa consiste la direttiva
Come
si intuisce dalla definizione di green claims, quindi, l’oggetto di
interesse della nuova direttiva sono
le dichiarazioni volontarie, e non quelle obbligatorie stabilite
dalla legislazione europea. Nel
primo caso, infatti,
le
aziende possono sfruttare la vaghezza delle loro
affermazioni per costruire una buona immagine pur non apportando
nessun cambiamento concreto, mentre
nel
secondo l’affidabilità è garantita dall’attenersi a uno
standard oggettivo prestabilito.
Ecco perché mediante la nuova direttiva, qualora essa diventasse legge, sarà proibito esibire dichiarazioni ambientali generiche e utilizzare termini come "rispettoso dell'ambiente", "ecologico" o "verde" se non previa dimostrazione di prestazioni ambientali compatibili con i criteri di base imposti dall’UE. Sarà inoltre vietato rilasciare una dichiarazione ambientale sull'intero prodotto quando invece è vera solamente per un solo aspetto, così come l’utilizzo di un punteggio aggregato dell'impatto ambientale complessivo del prodotto, a meno che non si utilizzino indicatori approvati dall’UE, poiché, come sottolineato nel testo diffuso da Bruxelles, <<I confronti tra prodotti o organizzazioni dovrebbero essere fondati su informazioni e dati equivalenti>>.
Verrà inoltre affrontata la questione della proliferazione dei marchi ambientali. Attualmente, si stima l’esistenza di almeno 230 marchi diversi, il che crea confusione e indebolisce le garanzie di qualità, dato che, almeno fino ad oggi, chi sperimenta un nuovo sistema di etichettatura non è obbligato a fissare obiettivi più ambiziosi rispetto ai marchi già esistenti; un vincolo che la direttiva mira ad aggiungere. I nuovi marchi dovranno inoltre ottenere un’autorizzazione per acquisire validità e, al fine di assicurare maggiore trasparenza, dovranno essere verificati in modo indipendente e consentire controlli periodici.
Saranno gli Stati a verificare che le aziende si attengano al nuovo regolamento e, in caso di infrazione, a stabilire delle sanzioni proporzionate.
L’impatto della proposta
Il
comunicato
stampa pubblicato giorno 22 marzo sul sito della Commissione Europea
sottolinea come dalle norme più stringenti imposte dalla direttiva
non trarranno beneficio solo i consumatori, ma anche le imprese,
poiché si eliminerà molta competizione sleale e sarà
maggiore il riconoscimento per le aziende che miglioreranno effettivamente
il loro impatto ambientale.
Limitare il greenwashing, inoltre, non servirebbe solo a ridurre la disinformazione, ma darebbe una vera e propria spinta alla transizione verde: si stima, infatti, che implementando questa direttiva, si eliminerebbero circa 7 milioni di tonnellate di CO2 nell’arco di quindici anni, e si compierebbero passi importanti per il raggiungimento della neutralità climatica, prevista dall’UE entro il 2050.
Non mancano però le critiche alla proposta, la quale inizialmente avrebbe dovuto includere il Product Environmental Footprint (PEF), un indicatore per la stima della sostenibilità dei prodotti. Tuttavia, il PEF è stato eliminato prima dell’approvazione del testo, rendendo così la direttiva meno chiara riguardo quali saranno effettivamente gli standard da rispettare; da definire piuttosto in un futuro testo integrativo.
Un altro elemento di dibattito è il trattamento delle dichiarazioni riguardo la rimozione di carbonio. Nonostante la proposta evidenzi che una particolare attenzione sarà dedicata a questa categoria di dichiarazioni per via della loro natura facilmente ambigua, sarà solo il grado di trasparenza ad essere preso in considerazione e non la loro legittimità.
Difatti, diverse organizzazioni, tra cui l’European Environmental Bureau (EEB), affermano che tali dichiarazioni non andrebbero controllate ma vietate, poiché inducono i consumatori a pensare che il prodotto non abbia alcun impatto sul clima, cosa scientificamente impossibile. Per ottenere miglioramenti concreti le aziende dovrebbero effettivamente ridurre le proprie emissioni, anziché lasciarle invariate o facendo affidamento su progetti che le compensino, molti dei quali sono spesso inefficaci o svantaggiosi per via dell’elevato rischio di ricaduta negativa.
Ad ogni modo la proposta della direttiva, per diventare legge a livello europeo, deve essere approvata dal Parlamento europeo e dal Consiglio, un processo la cui durata potrebbe estendersi per circa 18 mesi. Durante questo periodo di tempo è probabile che la direttiva in questione venga emendata nuovamente, quindi è importante ricordare che ancora molto potrebbe cambiare prima della sua effettiva implementazione a livello nazionale.
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Fonti consultate per il presente articolo:
https://unsplash.com/it/foto/0NRkVddA2fw
https://environment.ec.europa.eu/topics/circular-economy/green-claims_en
https://eur-lex.europa.eu/legal-content/EN/TXT/PDF/?uri=CELEX:52023PC0166&from=EN
https://environment.ec.europa.eu/publications/proposal-directive-green-claims_en
https://economiacircolare.com/greenwashing-direttiva-green-claim/
https://eeb.org/eu-commission-prepares-to-crack-down-on-greenwashing-with-new-green-claims-law/
https://eeb.org/protecting-consumers-new-eu-laws-set-to-curtail-greenwashing-and-boost-repair/
https://www.youtube.com/watch?v=6p8zAbFKpW0&t=1219s&ab_channel=LastWeekTonight
https://ec.europa.eu/commission/presscorner/detail/en/ip_22_2098
https://btlaw.com/insights/alerts/2023/the-eus-new-green-claims-directive-its-not-easy-being-green
https://ec.europa.eu/commission/presscorner/detail/en/qanda_23_1693
https://www.lifegate.it/frans-timmermans-commissione-europea
https://www.foodpackagingforum.org/news/european-commission-proposes-green-claims-directive
https://ec.europa.eu/commission/presscorner/detail/en/ip_23_1692