Per un'Unione Europea geopoliticamente determinante servono conferme

Lo stato di crisi potrebbe aver favorito il decisionismo ma non è detto che questo diventi la norma

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  Redazione
  05 settembre 2020
  5 minuti, 48 secondi

A cura di Marcello Alberizzi

Lo scorso 20 agosto un articolo di Max Bergmann pubblicato su Foreign Affairs sosteneva “con pochi dubbi” che la sfida imposta dalla pandemia permetterà all’Unione Europea di emergere più forte e più unificata (non unita). Sebbene non si spinga tanto in là da argomentare in favore di un secolo europeo, egli sostiene che Bruxelles contribuirà a determinare le sorti del liberalismo. Si tratta di un punto di vista auspicato e auspicabile, ma che pone diversi dubbi e quesiti: come riconosciuto dallo stesso Bergmann, durante gli ultimi trent’anni l’UE è stata una non-entità geopolitica. Oggi, nel 2020, viste le permanenti limitazioni politiche, istituzionali ed economiche osservate nel corso di questo lasso di tempo, risulta difficile credere che ciò possa cambiare tanto rapidamente da rendere Bruxelles un attore geopoliticamente determinante nel prossimo decennio.

La geopolitica è realista

A sostegno della sua tesi Bergmann cita l’assertività delle mosse europee in risposta al comportamento di Beijing vis à vis Hong Kong, alle interferenze cibernetiche di Russia, Cina e Corea del Nord e ai recenti sviluppi in Bielorussia. Tuttavia, attribuisce al recente accordo sul Next Generation EU il ruolo di chiave di volta per la costruzione di un attore più federale e unificato. Nei primi tre casi, o sono state imposte delle sanzioni o è stata espressa una comune posizione di condanna. Sebbene ciò debba essere accolto positivamente, si potrebbe opinare che si tratti di mosse necessarie e scontate da parte del principale sostenitore e promotore della democrazia liberale. Per quanto concerne l’accordo NGEU, esso rappresenta una novità dirompente che effettivamente potrebbe consentire all’Unione di avviare una nuova fase di federalismo fiscale. Ma non si possono dimenticare le difficoltà incontrate nel corso del negoziato, il più lungo nella storia del Consiglio europeo, e l’opposizione presentata da alcuni Stati membri. Si potranno effettuare supposizioni solamente quando il venire meno dello stato di crisi permetterà di capire quanto esso sia stato determinante nel raggiungimento di questo obiettivo e se si tratterà di una misura temporanea o meno. Inoltre, resta da capire quanto i passi in avanti in questo settore possano propagarsi positivamente in altri campi quale quello della politica estera. Infatti, un attore per essere geopoliticamente rilevante deve poter essere in grado di determinare il corso degli eventi quantomeno ad esso geograficamente più prossimi. Al contrario, evidenze mostrano che le dinamiche geopolitiche delle crisi di più interesse ai Paesi europei sono indirizzate da altri attori – anche con capacità inferiori ma una spregiudicatezza e/o una libertà decisionale sufficienti a ottenere dei dividendi politici. A sostegno di questa affermazione si può anche solamente guardare ad alcuni degli eventi internazionali di più recente avvenimento dove Bruxelles non è riuscita a imporsi nonostante le capacità diplomatiche che le vengono riconosciute (come da Bergmann nel suo articolo).

I fronti aperti

Attualmente vi sono numerosi fronti aperti dove l’UE non è stata in grado di mostrare la determinatezza appena accennata. La risposta di Bruxelles alle violenze seguite alle elezioni in Bielorussia ha portato all’applicazione di sanzioni agli alti funzionari del regime; sanzioni che seguono quelle già imposte nel 2011 a seguito dell’incarcerazione di politici dell’opposizione in occasione delle precedenti elezioni presidenziali (poi revocate nel 2016). L’avvio di discussioni diplomatiche con il Cremlino non si potrà considerare un successo se non porterà alle dimissioni di Lukashenko e all’organizzazione di elezioni democratiche trasparenti: due eventualità di difficile realizzazione. Potendo fare un discorso più ampio, è evidente la difficoltà dei leader europei di incidere anche nelle dinamiche mediterranee e mediorientali: il raggiungimento di una tregua in Libia e la normalizzazione dei rapporti tra Israele e gli Emirati Arabi portano la firma degli Stati Uniti; la disputa energetico-marittima tra Grecia e Turchia invece mette in luce tutta la spregiudicatezza di Recep Tayyip Erdogan e la difficoltà delle democrazie di competere con regimi autoritari in grado di minacciare il casus belli qualora venisse tirata eccessivamente la corda. In ciascuno dei casi l’UE si è mossa tardivamente e/o inefficacemente, seppure in alcuni di questi sia stata in grado di esprimersi con un’unica voce.

Via 12.000 truppe statunitensi

A ciò si aggiunge la recente proposta del Presidente statunitense Donald Trump di ridurre di 11.900 unità il contingente a stelle e strisce stanziato in Germania, il Paese europeo che ospita il maggior numero di truppe statunitensi dalla fine del secondo conflitto mondiale. Una parte di esse verrebbe dislocata in Italia e in Belgio, mentre la restante potrebbe tornare negli Stati Uniti ed essere adoperata a rotazione in altri paesi NATO, quali la Polonia e i Paesi Baltici. La presenza di truppe americane in Germania è da tempo fonte di dibattito per il ruolo (anche psicologico) che esse giocherebbero in merito alla famigerata “questione tedesca” e ai timori di egemonia del continente da parte di Berlino. Robert Kagan sostiene che nel corso del tempo la presenza americana abbia favorito la ricerca di unità da parte dei paesi europei e abbia sopito le preoccupazioni di alcuni diretti interessati come Francia e Polonia. La recente politica adottata da Trump potrebbe avere delle ripercussioni in tal senso, complicando la relazione tra Francia e Germania ai vertici della gerarchia europea.

L’Europa sarà forgiata dalle crisi

In conclusione, la citazione di Jean Monnet:

"l’Europa sarà forgiata dalle sue crisi e sarà la somma delle soluzioni trovate per risolvere tali crisi"

in questo caso pare essere veritiera. L’Unione Europea uscirà più consapevole e unita (e temporaneamente più unificata) da questa crisi; ma pare difficile credere che, in breve tempo, possa uscirne come un più forte e unificato (e politicamente più unito) attore globale. A maggior ragione dopo che i recenti sviluppi geopolitici hanno mostrato ancora una volta la difficoltà dell’Unione Europea di incidere nelle dinamiche ai propri confini. Le partite in Europa Orientale e nella regione MENA sono lungi dall’essere concluse: in Libia è stato raggiunto un cessate il fuoco ma non è stato siglato alcun accordo politico che possa effettivamente porre fine allo stato di crisi decennale; in Medio Oriente la strada percorsa dall’Amministrazione Trump si allontana dal tentativo di risolvere il conflitto Israelo-Palestinese per concentrarsi sull’emarginazione iraniana; la Turchia continuerà ad essere un attore determinante nelle crisi regionali ivi compresa quella migratoria. La risoluzione effettiva e di lungo termine delle presenti e future crisi costituisce un interesse solamente europeo, ecco perché è ancora in tempo per assumere un ruolo determinante. Dal momento che oggi si riconosce e si è sempre più convinti che il mondo viva in un perenne stato di crisi, quelle venture si auspica possano aiutarla a conseguire ciò che in tempo di pace non riesce a realizzare.

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