Recovery Fund, fra momento storico e compromesso

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  Redazione
  08 agosto 2020
  5 minuti, 58 secondi

A cura di Leonardo Cherici

DEAL!”. È con questo tweet che il Presidente del Consiglio Europeo Charles Michel annuncia al mondo che l'accordo sull’ormai famoso Recovery Fund. È sicuramente un passo importante per l’Unione Europea, non solo perché le risorse mobilitate saranno fondamentali per aiutare a mitigare le conseguenze della pandemia, ma anche per ridare vitalità alle economie di alcuni Paesi che, da troppi anni, annaspano a causa di poca crescita e poca produttività.

Quello che si è consumato a Bruxelles è stato uno scontro fra due diverse idee di Unione Europea che emergono soprattutto nei momenti di crisi. L’UE è infatti costantemente alle prese con il dilemma della sua doppia natura comunitaria e intergovernativa: è più di un’organizzazione internazionale, ma non ancora federale. Raggruppando 27 Stati con storie, economie e politiche estere differenti è normale che ci siano delle divergenze quando si arriva a dover decidere di dare una svolta al futuro del continente. Il dibattito pubblico è ancora molto indietro sotto quest’aspetto: quante volte abbiamo sentito parlare del Nord frugale ed egoista che non vuole impegnarsi in una maggiore integrazione, al contrario di un Sud più europeista? Questa semplificazione difficilmente aiuta a comprendere il complesso meccanismo di funzionamento dell’UE. Sarebbe più corretto parlare di un contrasto fra chi vorrebbe un’Unione a carattere fortemente intergovernativo e chi invece ritiene che sia giunto il momento di aumentare i poteri della Commissione e le materie di competenza di Bruxelles.

Come mai intorno al Recovery Fund si è creato questo baccano mediatico? Sicuramente il contesto non ha aiutato. Paesi come l’Italia navigano verso la più grande recessione dal dopoguerra ad oggi. Raggiungere un accordo sul Recovery Fund era quindi fondamentale per il Governo italiano sia da un punto di vista comunicativo sia a livello pratico perché le risorse mobilitate sono molte. La crisi economica innescata dalla pandemia ha portato i leader europei a riflettere seriamente sulla tenuta del mercato unico: uno degli scenari possibili è un’Europa con una forte diseguaglianza interna. I numerosi report pubblicati dal Fondo Monetario Internazionale, Istat, Corte dei Conti ed altri istituti ipotizzano la chiusura di una grossa fetta di aziende italiane con conseguenze pesantissime sull’occupazione. D'altra parte, Paesi come la Germania hanno potuto mobilitare una quantità di risorse superiori rispetto alla media europea e c’è stato un forte sostegno alle imprese. Si rischia così la creazione di squilibri che potrebbero falsare la concorrenza e il mercato unico. È per queste motivazioni che, durante il Consiglio Europeo, il Presidente Conte si è scontrato duramente con il Primo Ministro olandese Rutte, contrario all’accordo fino all’ultimo, additandolo come un possibile responsabile del fallimento del mercato unico.

L’accordo raggiunto[1] è sicuramente un buon segno per tutti coloro che speravano in un ruolo più attivo della Commissione Europea nella gestione della crisi economica. Per la prima volta, infatti, si parla di un piano da €750 miliardi, suddivisi fra prestiti (€360 miliardi) e sovvenzioni (€390 miliardi) che prende il nome di Next Generation EU. La Commissione contrarrà infatti dei prestiti che avranno come garanzia il bilancio europeo e che serviranno a finanziare la ripresa, ma non solo. Queste risorse dovrebbero avere lo scopo di ridisegnare l’Europa del futuro e dovranno essere investiti in quelle materie che Bruxelles reputa prioritarie. Il Recovery Fund è stato celebrato da molti come un momento storico e di svolta per l’Unione Europea. Se guardiamo all’opinione pubblica italiana, c’è stata una reazione trionfalistica che ha tralasciato diversi aspetti spinosi della questione. In particolar modo si è parlato molto di “vittoria” italiana e di sconfitta dei rigoristi: le conclusioni raggiunte dal Consiglio Europeo sono però frutto di un accordo internazionale e, com’è logico che sia, alla base c’è sempre un compromesso. In particolar modo diventa davvero difficile capire l’entusiasmo di chi, ad esempio, si è sempre opposto al MES per le sue condizionalità. I fondi del Next Generation EU non sono erogati direttamente ai singoli Stati, ma prima deve essere presentato un piano dettagliato alla Commissione di come queste risorse verranno utilizzate, seguendo i criteri di raccomandazione di Bruxelles. Questi piani, poi, dovranno essere approvati dal Consiglio Europeo a maggioranza qualificata. È stata scongiurata la drastica proposta olandese che richiedeva una specie di diritto di veto sull’utilizzo delle risorse, ma le condizionalità restano. Si apre dunque il secondo capitolo della partita: la capacità di spendere. Nel nostro caso, il Governo italiano deve essere in grado di utilizzare le risorse in modo produttivo e, visti i precedenti del nostro Paese, ciò è tutt’altro che facile. Qualora questi miliardi venissero spesi in modo non conforme agli obiettivi e ai target europei, uno Stato membro può sollevare la questione e portarla in seno al Consiglio dove verrà discussa sempre a maggioranza qualificata. L’argomento è dunque molto più complesso di ciò che appare e, per comprenderlo al meglio, dobbiamo evitare di lasciarci prendere da facili entusiasmi.

Il Parlamento Europeo si è subito mostrato critico verso l’accordo raggiunto dal Consiglio. In una proposta[2] di Risoluzione firmata dai principali gruppi politici europei non si accettano i tagli fatti ai programmi del Quadro Finanziario Pluriennale (QFP) in materia di sanità, istruzione, digitale e ambiente. Inoltre, ha criticato fortemente il non aver associato l’utilizzo delle risorse del Next Generation EU al rispetto dello Stato di diritto, principio cardine dell’Unione Europea. In effetti uno dei motivi per cui si è raggiunto un accordo nel Consiglio è stato quello di aver tagliato i programmi simbolo della Commissione Europea per il QFP 2021-2027, rinunciando ad una gestione più comunitaria del futuro europeo. Alle preoccupazioni del Parlamento Europeo, si è unita un’associazione giovanile belga che si occupa di ambiente. In una lettera[3] inviata al giornale online Politico si critica l’ipocrisia di chiamare il Recovery Fund Next Generation”, sostenendo che si siano abbandonati gli obiettivi ambiziosi in materia di contrasto al cambiamento climatico e che i giovani si ritroveranno con un enorme debito da ripagare.

Un’altra voce critica è arrivata dal filosofo Massimo Cacciari che, in un’intervista[4] al settimanale Espresso, non vede nell’accordo raggiunto dal Consiglio Europeo un cambio di passo sostanziale verso un’Europa più unita. Gli effetti della crisi economica, disoccupazione e impoverimento del ceto medio devono ancora manifestarsi e le risorse europee serviranno sicuramente per contenere i danni: non si può parlare però di Piano Marshall, perché manca un’idea comune di sviluppo e futuro visti anche i tagli sovracitati ai programmi comunitari.

Come sempre, dobbiamo cercare di mantenere uno sguardo critico sugli eventi che ci circondano. Lasciarsi prendere da facili entusiasmi o da opposizioni ideologiche non ci aiuta a comprendere la politica internazionale, frutto di compromessi e di lunghe trattative. Il Recovery Fund segna sicuramente un punto importante per l’Unione Europea, ma non per forza ci porterà ad una maggior integrazione in politica estera e fiscalità: questo, come sempre, dipende dagli Stati membri e da chi li governa.

[1] https://data.consilium.europa.eu/doc/document/ST-10-2020-INIT/it/pdf

[2] https://www.europarl.europa.eu/doceo/document/B-9-2020-0230_IT.html

[3] https://www.politico.eu/article/ursula-von-der-leyen-eu-coronavirus-recovery-plan-lets-down-the-young/

[4] https://video.espresso.repubblica.it/tutti-i-video/l-espresso-live-massimo-cacciari-nessun-piano-marshall-solo-risorse-per-evitare-il-collasso-dell-europa/14571/14668?fbclid=IwAR3CgVy6qMuqXtFTmXQ82O4qUWz_Eh69jGFyqRhuNK4svo6IPJxHctlZDyc

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