Che il presidente americano Trump sia incline allo scontro, se non alle faide (così si sta etichettando ultimamente il suo duello personale con Musk, che ha avuto tra le altre forme anche quella del “battibecco” social), è un dato noto. Dagli scontri interni a quelli esterni, di portata nazionale o mondiale, fatti tanto di post su X quanto di provvedimenti concreti.
Uno degli strumenti di opposizione da lui utilizzati – secondo alcuni, di vera e propria sfida – è l’imposizione di sanzioni, e la Corte Penale Interazionale (CPI) ne ha subito gli effetti diverse volte negli ultimi mesi: la più recente la settimana scorsa, quando l’amministrazione USA ha predisposto nuove sanzioni direttamente nei confronti di quattro giudici della Corte. I provvedimenti riguardano le giudici Bossa (Uganda), Ibáñez Carranza (Perù), Alapini Gansou (Benin) e Hohler (Slovenia), e prevedono il blocco dei loro conti, il congelamento dei beni e il divieto, per loro e per i loro familiari, di ingresso nel Paese americano. Non è la prima volta che le sanzioni hanno questa forma: infatti, subito dopo il secondo insediamento di Trump, la Corte aveva esortato i propri membri a non mantenere attivi conti bancari negli Stati Uniti.
La motivazione per questi provvedimenti sarebbe, nelle parole del segretario di stato Rubio, un abuso di potere che la Corte avrebbe esercitato in due occasioni: con l’apertura nel 2020 di un’indagine su presunti crimini di guerra commessi da soldati americani in Afghanistan (nel caso delle giudici Bossa e Ibáñez), e con l’emissione nel 2024 dei mandati di arresto per il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu e l’ex ministro della difesa Yoav Gallant (per le giudici Alapini Gansou e Hohler).
Queste stesse sanzioni erano state imposte già a inizio febbraio a funzionari non precisamente identificati della CPI, quando il presidente americano aveva emanato un atto in cui affermava di ritenere che la Corte si fosse impegnata “in azioni illegittime e infondate contro l'America e il nostro stretto alleato Israele. La CPI ha, senza una base legittima, affermato la giurisdizione e aperto indagini preliminari riguardanti personale degli Stati Uniti e alcuni suoi alleati, incluso Israele […]”.
Le attuali sanzioni seguono direttamente questo atto presidenziale. Trump ha più volte sottolineato che gli Stati Uniti, così come Israele, non riconoscono la giurisdizione della Corte Penale Internazionale. Gli altri Paesi che non la riconoscono sono Cina, Russia, India, Iran, Egitto, Arabia Saudita, Turchia, Pakistan, Bielorussia, Iraq, Libia e Sudan; negli ultimi anni si sono ritirati Burundi (2017) e Filippine (2019), e quest’anno anche Afghanistan e Ungheria. Gli Stati Parte sono invece 124.
Sempre in quell’atto, Trump affermava: “La CPI non ha giurisdizione sugli Stati Uniti o su Israele, dato che nessuno dei due Paesi è parte dello Statuto di Roma o membro della Corte”. Tuttavia, l’art. 12 dello Statuto prevede che la CPI abbia competenza nei casi in cui i fatti siano avvenuti nel territorio di uno degli Stati Parte (si tratta della cosiddetta ratio loci): questo è appunto il caso dell’Afghanistan, membro fino al febbraio di quest’anno, e per l’art. 127 il ritiro non annulla la competenza della CPI per i crimini commessi prima della data del ritiro.
A febbraio la Corte aveva condannato il contenuto dell’atto presidenziale, e aveva rivolto un appello agli Stati Parte affinché non dimenticassero l’obiettivo unico della Corte: la giustizia e i diritti umani fondamentali. Allora si era espressa anche l’Unione Europea: la Presidente della Commissione Ursula von der Leyen difendeva il ruolo della Corte nel garantire la lotta all’impunità globale e sottolineava il suo supporto. In quella occasione però non tutti i Paesi europei si erano detti d’accordo: l’Ungheria aveva anzi annunciato di voler rivedere il suo riconoscimento della CPI, ed effettivamente il 29 aprile il Parlamento ungherese ha approvato il ritiro, effettivo a partire da un anno dopo la notifica (nonostante ciò, Netanyahu ha fatto visita all’Ungheria senza essere arrestato: come sottolinea Amnesty International, il ritiro futuro non avrebbe dovuto incidere sugli obblighi giuridici attuali del Paese). L’Italia, poi, non aveva sottoscritto la dichiarazione congiunta firmata da altri 79 Paesi membri della Corte.
Volker Türk, Alto Commissario delle Nazioni Unite, ha rilasciato una dichiarazione per chiedere esplicitamente e urgentemente una “rapida riconsiderazione ed il ritiro di queste misure”. Si è detto profondamente turbato dalla decisione degli USA, che va interamente contro il rispetto dello stato di diritto e la protezione della legge, valori che, ricorda, gli Stati Uniti hanno a lungo sostenuto.
Le parole dell’Alto Commissario hanno seguito la dura condanna espressa dalla CPI e dall’Assemblea degli Stati Parte, rilasciata tramite un comunicato in cui dichiarano il pieno sostegno alle giudici e denunciano la decisione trumpiana come un grave e chiaro tentativo di minacciare l’operato di un’istituzione giudiziaria internazionale: viene così ricordato l’impegno della Corte a rispettare i diritti tanto delle vittime quanto degli indagati, e si sottolinea che attaccare i suoi funzionari non aiuta in alcun modo le persone, ma soltanto “rende più forti coloro che credono di poter agire impunemente”.
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L'Autore
Emma Zurru
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