Trattato ONU sull'alto mare

Genesi di un accordo storico

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  Matteo Gabutti
  19 marzo 2023
  12 minuti, 22 secondi

Good evening – …-ish –, ladies and gentlemen. The ship has reached the shore.

[Buonasera – circa… –, signore e signori. La nave ha raggiunto la riva.]

– Rena Lee, Presidente della Conferenza Intergovernativa, 4 marzo 2023

Non era più sera, ormai, quando Rena Lee prendeva il microfono nella sede delle Nazioni Unite a New York. Il limite per redigere la cornice per un Trattato sulle acque internazionali era già stato ampiamente superato. Nonostante molti fossero svegli da trentasei ore, i delegati dei 193 Paesi Membri dell’ONU ancora presenti avevano tenuto duro, per altri trenta estenuanti minuti, ottenuti in extremis dalla Presidente. Poi, Lee è tornata sul podio, per pronunciare quelle poche e semplici parole con cui ha consegnato alla storia un accordo potenzialmente rivoluzionario. Un annuncio accolto da un liberatorio scroscio di applausi, mentre la diplomatica di Singapore si copriva il volto sorridente ma rigato da lacrime di gioia e stanchezza.

È fumata bianca, dunque, al termine del quinto (bis) incontro della Conferenza Intergovernativa sulla Biodiversità Marina di Aree al di là della Giurisdizione Nazionale, meglio conosciuta con l’acronimo BBNJ. Dopo quasi vent’anni di discussioni sotto l’egida delle Nazioni Unite, è stata finalmente redatta la bozza di un testo che, una volta vagliato e tradotto, potrà essere formalmente adottato come quello che già oggi chiamano il “Trattato sull’alto mare” (High Seas Treaty). Un accordo internazionale che andrebbe a regolamentare un’area finora ignorata, con conseguenze potenzialmente significative sul piano economico e soprattutto ambientale. In questo articolo, pertanto, tenteremo di fare chiarezza sull’iter travagliato del prodotto della BBNJ, per poi dedicare il prossimo al suo contenuto e approfondirne l’impatto ecologico.



Una genesi decennale

È dal 2004 che l’ONU auspica la regolamentazione di una delle ultime frontiere del Wild West del diritto internazionale. A dispetto della loro estensione, infatti, le acque extraterritoriali occupano uno spazio marginale nella Convenzione delle Nazioni Unite sul diritto del mare (UNCLOS), ove vengono essenzialmente dichiarate come aperte a ogni Stato per l’esercizio di una serie di libertà, tra cui navigazione, pesca e ricerca scientifica (Art. 87). Poco o nulla, invece, viene detto riguardo alla conservazione e alla gestione delle risorse viventi e non viventi, cosicché il mare aperto risulta esposto alla “tragedia dei beni comuni” che, essendo teoricamente di tutti, di fatto non vengono curati da nessuno.

In tal senso, fin dal 2006 un Gruppo di lavoro ad hoc dell’ONU aveva raccomandato di instaurare un regime legale esauriente e vincolante per la salvaguardia e l’uso sostenibile della diversità biologica marina oltre le acque sotto la giurisdizione dei Paesi litorali – estesa fino a 200 miglia nautiche dalla costa, ed ulteriormente ampliabile in presenza di una più vasta piattaforma continentale. Una prima risposta concreta arrivò solo con la pubblicazione del Report del 2017 di un Comitato Preparatorio istituito due anni prima dall’Assemblea Generale dell’ONU. Quindi, alla Viglia di Natale dello stesso anno, quest’ultima convocò una Conferenza Intergovernativa, la BBNJ, che dal 2018 al 2022 ha tenuto ben cinque sessioni bisettimanali, di cui l’ultima lo scorso agosto, poi sospesa fino all’intervallo tra il 20 febbraio e il 3 marzo 2023. Ci vorrà un giorno in più, ma infine si riuscirà ad approdare a quello che il portavoce del Segretario Generale dell’ONU António Guterres ha definito come un’autentica “svolta” (breakthrough).



Perché tanto tempo?

Stando a Gabriele Crescente, editor di ambiente di Internazionale, fin dagli albori del diritto del mare “le acque internazionali sono rimaste fuori da qualunque tutela”. Un primo motivo sarebbe dovuto al fatto che, banalmente, di loro si sa ben poco e, fino a tempi relativamente recenti, sono risultate largamente inaccessibili. D’altro canto – anche in luce dei progressi tecnologici per l’estrazione delle risorse dei fondali –, oggi il mare aperto rappresenta un campo di attività economica di proporzioni letteralmente oceaniche, nonché arena di interessi spesso divergenti.

La prima controversia riguarda senz’altro la pesca, libera dalle limitazioni delle acque territoriali. A tal proposito, uno studio dell’Università della California ha rivelato come annualmente “sussidi nocivi” miliardari (harmful subsidies) permettano a una stretta cerchia di Nazioni di sfruttare oltremisura le risorse ittiche nelle acque internazionali. Combinati, ogni anno i cinque governi coi maggiori sforzi di pesca a distanza vi spenderebbero più di US$ 3,5 Mrd, e i loro pescherecci d’altura opererebbero per più di cinque milioni di ore complessive – l’equivalente di 624 anni. A guidare la classifica c’è la Cina (US$ 1,7 Mrd), seguita a debita distanza da Giappone, Taiwan, Corea del Sud e la stessa Unione Europea (US$ 240 Mio). E non è inverosimile pensare tutte e cinque traggano vantaggio dall’attuale situazione di anomia e sregolatezza.

Un’altra disputa concerne inoltre lo sfruttamento delle risorse genetiche degli oceani per il settore farmaceutico, cosmetico o alimentare. Finora la possibilità di trarne profitto è stata appannaggio dei Paesi sviluppati, poco disposti a fare concessioni a quelli in via di sviluppo che ne chiedono una più equa spartizione. Più in generale, questo ventennio di negoziazioni si è articolato di fronte allo sfondo di uno scontro tra i cosiddetti Nord e Sud del mondo (Global North & South). Così, uno dei compromessi più ardui raggiunti dall’accordo è quello di aver affiancato il principio di “libertà del mare aperto” sostenuto dalle nazioni industrializzate – a sostegno di uno status quo in cui ognuno si comporta secondo i propri interessi e possibilità – a quello proposto dai Paesi in via di sviluppo che guarda agli oceani come “patrimonio dell’umanità” – e dunque soggetti a proprietà comune e interessi collettivi.

Infine, vi è l’acceso dibattito sulle finanze, evidenziato dalle tensioni e astensioni di alcuni Paesi del Sud globale dalla Cop15 a Montreal dello scorso dicembre. Il pomo della discordia è presto detto: queste nazioni pretendono di ricevere più finanziamenti per i propri sforzi ecologici da parte degli Stati più ricchi, mentre questi ultimi non sono entusiasti di elargire ulteriori donazioni a Paesi ancora catalogati come in via di sviluppo nonostante la loro crescita economica, come Cina, Brasile e India. In tal senso, la Conferenza di New York si è distinta dalla presa di responsabilità da parte del Nord del mondo, verso le richieste del Sud. Per sciogliere il nodo, infatti, l’UE ha promesso €40 Mio per facilitare ratifica e implementazione del trattato sull’alto mare, e più di €800 Mio entro la fine dell’anno per la protezione degli oceani in generale. Inoltre, il summit avrebbe prodotto 341 nuovi impegni per un valore di circa €18 Mrd, di cui quasi 5 provenienti dai soli Stati Uniti. In questo modo, salda sui pilastri di universalità e “implementabilità” posti da Rena Lee, la BBNJ è riuscita nell’impresa di riunire 193 Paesi intorno ad un unico testo. Il contenuto e la portata di quest’ultimo, tuttavia, meritano di essere approfonditi nel dettaglio nel prossimo articolo.


A cura di Matteo Gabutti e Alessia Pagano



Fonti consultate per il presente articolo

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L'Autore

Matteo Gabutti

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Matteo Gabutti è uno studente classe 2000 originario della provincia di Torino. Nel capoluogo piemontese ha frequentato il Liceo classico Massimo D'Azeglio, per poi conseguire anche il diploma di scuola superiore statunitense presso la prestigiosa Phillips Academy di Andover (Massachusetts). Dopo aver conseguito la laurea in International Relations and Diplomatic Affairs presso l'Università di Bologna, al momento sta conseguendo il master in International Governance and Diplomacy offerto alla Paris School of International Affairs di SciencesPo. All'interno di Mondo Internazionale ricopre il ruolo di autore per l'area tematica Legge e Società, oltre a contribuire frequentemente alla stesura di articoli per il periodico geopolitico Kosmos.

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Matteo Gabutti is a graduate student born in 2000 in the province of Turin. In the Piedmont capital he has attended Liceo Massimo D'Azeglio, a secondary school specializing in classical studies, after which he also graduated from Phillips Academy Andover (MA), one of the most prestigious preparatory schools in the U.S. After his bachelor's in International Relations and Diplomatic Affairs at the University of Bologna, he is currently pursuing a master's in International Governance and Diplomacy at SciencesPo's Paris School of International Affaris. He works with Mondo Internazionale as an author for the thematic area of Law and Society, and he is a frequent contributor for the geopolitical journal Kosmos.

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