La caduta del regime di Bashar al Assad rappresenta una scossa tellurica all’equilibrio strategico della regione consolidatosi nell’ultima decade. Con l’uscita di scena dell’ultimo regime di ispirazione baathista si chiude definitivamente un’epoca. Inoltre, viene notevolmente fratturata la struttura di influenza geopolitica iraniana nella regione. Dalle ceneri del vecchio tripolarismo tra Iran, Israele e Turchia sorge un nuovo incerto e precario bipolarismo tra la Repubblica turca e lo Stato ebraico.
Vediamo quali sono le prospettive in uno scacchiere mutato e in evoluzione.
Il futuro scontro di potenza: la nuova lotta per l’egemonia tra Turchia e Israele
Nella politica internazionale non esistono né rimangono “spazi vuoti”. Nel momento più propizio, che viene determinato dalle condizioni interne e dagli input e opportunità dell’ambiente circostante, un attore dotato di una forza considerevole tende ad avvantaggiarsi a scapito dei potenziali competitor. Per circa due decadi, lo stesso Iran ha approfittato degli sconvolgimenti causati dagli occidentali in Iraq per aumentare la propria influenza, tentando di costruire la c.d. mezzaluna sciita da Beirut a Teheran. La repubblica islamica iraniana si è scontrata con le azioni di controbilanciamento verso i propri progetti egemonici condotte dalle altre due principali potenze regionali, Turchia e Israele. Nonostante le speranze e i tentativi, prevalentemente degli spettatori occidentali, di far rispettare le norme del diritto internazionale, in Medio Oriente hanno prevalso le dinamiche dello scontro e dell’equilibrio di potenza senza esclusione di colpi.
Da una parte, l’Iran non ha avuto remore a finanziare e sostenere una rete di organizzazioni terroristiche come Hamas ed Hezbollah. Contemporaneamente, Israele ha perseguito la propria politica di annessione nella West Bank e ha continuato a fare largo uso della propria forza militare in maniera indiscriminata. A sua volta, Ankara ha fatto ricorso all’utilizzo di spietati eserciti mercenari con i quali ha puntellato la propria influenza in Siria, in cui ha più volte compiuto vere e proprie campagne militari. Inoltre, ha stretto legami di cooperazione con i curdi iracheni affiliati al presidente della regione autonoma Mas'ud Barzani per sgominare le cellule del PKK nel vicino Iraq. Nel tentativo di insidiare le mire russe e iraniane sul Caucaso, ha stretto un’alleanza di ferro con il regime azero di Baku, responsabile della pulizia etnica de facto degli armeni dell’enclave separatista del Nagorno Karabakh.
Con la caduta del regime siriano, si spezza definitivamente la continuità territoriale dell’Asse della resistenza sostenuto e capeggiato da Teheran, che deve anche fare i conti con l’annichilimento dei propri alleati libanesi e palestinesi.
In questo scenario, si sono aperte nuove opportunità per Israele e Turchia, che infatti non hanno atteso un istante per fare le prime mosse e assicurarsi un vantaggio strategico. Mentre Ankara ha mobilitato il proprio esercito mercenario siriano per debellare definitivamente il PKK dal nord del Paese e pare trattare con Mosca un graduale ritiro russo dal Siria, Israele ha invaso porzioni di territorio a sud per assicurarsi posizioni vantaggiose dal punto di vista militare.
Ovviamente, la situazione rimane ancora fluida. Dopo l’euforia per la vittoria, lo stesso leader siriano, Aḥmad Ḥusayn al-Shara, noto con il nome di guerra di Abu Muḥammad al-Jawlani, sta tentando una machiavellica operazione di rebranding politico e istituzionale. Cerca il favore delle potenze occidentali e arabe per consolidare il potere e prova ad assicurarsi il sostegno o la tolleranza delle minoranze cristiane, druse, curde e alawite. Per il momento sembra contenere la critica nei confronti di Israele, probabilmente cosciente della propria debolezza davanti alla preponderanza militare dello Stato ebraico. La potenza madrina politica e protettrice del nuovo regime è Ankara, come dimostrano le doppie cittadinanze di alcuni membri del governo provvisorio e i continui contatti diplomatici tra la dirigenza siriana e quella turca.
Dunque, Israele vede praticamente collassati tre dei cinque pilastri della coalizione avversaria capeggiata dalla Repubblica islamica iraniana, che ora può contare solamente su un vicino debole come Baghdad e un alleato poco controllabile come i ribelli Huthi dello Yemen. Inoltre, gli Accordi di Abramo hanno retto nonostante il conflitto a Gaza e in Libano, segno evidente dell’interesse delle dirigenze arabe coinvolte a mantenere stretti legami con lo Stato ebraico. Ankara invece vede espandersi la propria influenza nella regione e si assicura un nuovo alleato ai propri confini meridionali.
La forza con cui entrambi questi attori perseguiranno i propri disegni egemonici dipenderà da una serie ampia di fattori. In primo luogo, sarà necessario valutare il grado di coesione politica interna, condizione necessaria ma non sufficiente per il perseguimento di una politica estera muscolare. Inoltre, è necessario comunque mantenere il livello di attenzione riguardo le personalità dei leader che guidano entrambi i Paesi. Erdogan e Netanyahu sono entrambi inclini al cinico calcolo pragmatico e difficilmente cercheranno lo scontro diretto, proseguendo sulla linea dell’ambiguità come fatto sino adesso. Si deve però considerare anche il milieu politico-strategico prevalente all’interno dei rispettivi establishment. Mentre in Turchia potrebbe trovare nuovo impulso la retorica e la narrazione del neottomanesimo, in Israele ormai fanno parte dell’esecutivo le frange più estreme del sionismo religioso, che promuove l’espansionismo esterno in maniera massimalista. Infine, non va dimenticato il fattore puramente economico: un’economia più forte e florida è un ottimo incentivo e aiuto per una politica estera assertiva. In questo momento, a differenza dello scenario tripolare precedente, le due potenze aspiranti egemoni si trovano alleate della stessa grande potenza, gli Stati Uniti. Il sostegno che questi concederanno a uno dei due nello sviluppo della propria politica egemonica potrebbe determinarne fortemente gli obiettivi e pure i risultati.
Tuttavia, è necessario ricordare che, nel corso della storia, praticamente tutte le potenze che hanno peccato di hybris hanno spesso visto i propri piani frantumarsi inesorabilmente a causa di quello che gli analisti e gli studiosi chiamano imperial overstretch.
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L'Autore
Michele Magistretti
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