A cura del Dott. Pierpaolo Piras, membro del Comitato per lo Sviluppo di Mondo Internazionale APS
L’opinione pubblica inglese ha preso atto che i problemi della propria nazione non sono limitati alla sola fuoriuscita dalla Unione Europea (Brexit). Sempre più essa è cosciente che si percepisce la carenza di una leadership autorevole, incisiva nell’azione politica, specie in quella internazionale e con idee innovative e virtuose all’altezza delle sfide che deve quotidianamente affrontare.
Tuttavia, nell’attuale fase storica del Regno Unito, l’analisi politica ha necessità di partire dalle vicende che hanno determinato e costellato la vicenda della sua separazione dall’ Unione Europea (UE). Anche se i problemi non dipendono interamente da lì, né hanno esordito lì.
Infatti, la furente lotta politica intesa a realizzare la Brexit è nata nel 2016. Tutta all’insegna di uno splendido avvenire verso il quale, secondo la propaganda dei brexiters più accesi, sarebbe andata incontro la Gran Bretagna.
Strade, luoghi di lavoro e media risuonavano degli slogan pronunciati con una certa acrimonia verso l’UE : “Inviamo 350 milioni di sterline a settimana” e “Al posto della Unione Europea, finanziamo invece il Servizio Sanitario Nazionale (NHS)”, per citare solo quelli tra i più ricorrenti. In ogni caso ognuno con l’asprezza della critica e la lista dei danni che la nazione riceveva quotidianamente dalla sua appartenenza alla UE.
Sono due frasi che, però, da un lato non reggevano il confronto con un’analisi seria dei riscontri, mentre all’epoca contribuirono a raggiungere la maggioranza dei voti al referendum del 16 giugno 2016.
La situazione attuale racconta ben altro.
Ha fatto sensazione e avuto scarsa divulgazione il sondaggio effettuato dalla nota società di sondaggi e marketing, IPSO, pubblicato recentemente dal quotidiano “the Economist”, il quale evidenzia che solamente il 23% della popolazione dichiara il proprio favore alla brexit e che il 54% è disposta a riconoscere che abbia ottenuto risultati positivi.
Ancora, secondo l’autorevole “Center of European Reform” l'economia del Regno Unito è ridotta del 5,5% rispetto a quanto sarebbe se fosse rimasto in seno alla Unione Europea.
Non solo, il prodotto interno lordo (PIL) inglese si è ridotto del 5,5%, gli investimenti dell'11% e il commercio di generi merceologici di ben il 7%, se valutati nell’intero secondo trimestre del 2022.
Qualora questi dati fossero l’unica nota triste da impensierire il Regno Unito (UK) sarebbe già di notevole gravità per qualificare l’andamento tendenziale dell’economia. Ad aggravarla invece sortiscono gli elevati costi dovuti alle estese ed ingenti cure sanitarie necessarie per affrontare l’epidemia di Covid 19 e gli ingenti oneri per l’appoggio in intelligence ed armamenti vari all’Ucraina.
Non per ultimi, a questi conti vanno aggiunti gli aggravi ai bilanci delle famiglie britanniche. Per amor di verità bisogna ammettere che alcune problematiche esistevano già negli anni che hanno preceduto la brexit.
Il verdetto dell'OCSE
L' Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico (OCSE) è un istituto internazionale di studi economici ad uso dei paesi sviluppati, aventi in comune un sistema di governo di tipo democratico ed un'economia di mercato.
L’analisi dell’ OSCE pone in evidenza che Il Regno Unito (UK) ha speso meno per le infrastrutture rispetto ad altri paesi dell'OCSE negli ultimi tre decenni.
La qualità percepita degli asset infrastrutturali del Regno Unito è vicina alla media OCSE, ma inferiore a quella degli altri paesi del G7. Dalle analisi specifiche sono emersi vincoli di capacità in alcuni settori, come la produzione di elettricità, il trasporto aereo e le strade.
Questo giudizio non è un osservazione post-Brexit e/o post-pandemia. È stato emesso nel 2015. Non ci dice che un'economia sana è stata colpita improvvisamente da chissà quale male, ma che la Brexit ha paralizzato ulteriormente un'economia già indebolita in epoca precedente da altri fattori.
Un'ulteriore analisi a cura del Financial Times (FT), autorevole giornale britannico in materia finanziaria, ha recentemente commentato piuttosto negativamente l’andamento dell’economia negli ultimi 15 anni.
Il FT specifica che il reddito medio nel Regno Unito è ben al di sotto di quello della Norvegia, la Svizzera o gli Stati Uniti ed altri ancora tra i paesi più sviluppati.
Sono più urgenti le storie della Gran Bretagna che provengono dal Servizio Sanitario Nazionale (NHS), quella stessa istituzione che secondo i più accaniti sostenitori della brexit avrebbe dovuto beneficiarne. Oggi, di fatto, i tempi di attesa di una ambulanza sono più lunghi come mai è accaduto finora.
Ancora, i tempi di attesa per le operazioni ospedaliere sono ai massimi storici. Mentre parte di questa condizione è sicuramente dovuta alla pandemia, molti altri disservizi a danno della popolazione non lo sono.
Secondo l'OCSE, la Gran Bretagna ha meno letti ospedalieri di qualsiasi altro paese avanzato: 23 ogni 10.000 abitanti, rispetto, ad esempio, ai 57 in Francia e ai 78 della Germania. Negli ultimi dieci anni, la spesa del NHS (Servizio Sanitario Nazionale) è aumentata molto più lentamente rispetto al precedente mezzo secolo; come per il numero di letti ospedalieri, ora è molto indietro rispetto ai suoi diretti concorrenti come Francia e Germania.
I “cahiers de doleances” inglesi non terminano qua: anche altri servizi pubblici stanno soffrendo un calo della qualità e produttività generale.
Il tenore di vita soffre uno stallo prolungato.
Coloro tra noi contemporanei che hanno una certa età ricordano il 1970 con problemi economici di analoga gravità. In quegli anni, la Gran Bretagna era conosciuta in tutto il mondo con lo slogan del "malato d'Europa".
Poi è sopraggiunta un’epoca sostanzialmente differente: si è sviluppato un prolungato e intenso dibattito nazionale sulla natura e tipologia dei correttivi economici e sociali da praticare al riguardo, dalle condizioni negoziali occorrenti per aderire al Mercato Comune Europeo all'inizio del decennio sino all'arrivo provvidenziale di Margaret Thatcher come primo ministro.
Le persone e i partiti differivano nelle loro proposte; ma almeno c'era un ampio consenso sul fatto che la Gran Bretagna doveva affrontare grandi problemi che richiedevano dure ma proporzionate soluzioni con l’ausilio di tutte le forze politiche. Come è noto, il risultato è stato estremamente proficuo e durevolmente positivo.
Posti in termini comparativi con i dibattiti che si svolgono oggi, essi si aprono più che altro ai margini sia dei media che delle esigenze di politica nazionale.
Le argomentazioni sulle relazioni della Gran Bretagna con l'UE ne sono un esempio più che calzante: sono ben tre i primi ministri che si sono succeduti negli ultimi dodici mesi i quali non sono stati compiutamente in grado di alzare la testa al di sopra del ristretto, anche se spinoso, compito di risolvere il cruciale “protocollo dell'Irlanda del Nord”.
Placare una manciata di parlamentari conservatori di destra e il Partito Unionista Democratico, che è sostenuto solo da un elettore su cinque in Irlanda del Nord, ha avuto sinora la precedenza nella trattazione politica su qualsiasi soluzione concreta intesa a riempire questo angosciante buco nero nell'economia britannica che la Brexit ha causato.
Il Partito Laburista detiene una posizione diversa, ma non così differente come la maggior parte dei suoi sostenitori vorrebbe: prima della Brexit, Keir Starmer, leader del partito, ha fatto una appassionata campagna per mantenere la Gran Bretagna nell'UE.
In seguito ha sostenuto un nuovo referendum per cercare di ribaltare il risultato. Oggi vuole "far funzionare la Brexit". Non solo ha escluso di rientrare nell'UE, ma dice che anche i laburisti dovrebbero restare fuori dal mercato unico e dall'unione doganale.
Riconosce apertamente che la Brexit ha danneggiato l'economia britannica, in gran parte ponendo fine al commercio senza attriti né complicazioni tra il Regno Unito e l'UE, ma in alternativa propone una soluzione minimalista e troppo graduale – e pertanto deludente sotto il profilo propositivo e scarsamente credibile dal punto di vista delle relazioni internazionali - di reinserimento nella UE qualora diventasse primo ministro. Troppo futuribile e poco commerciale, insomma.
Il dissidio tra i vari leader laburisti
Il disaccordo è notevole nella visione ristretta dei vari leader laburisti di partito britannici di rimodellare virtuosamente il posizionamento della Gran Bretagna in Europa e nel mondo.
Quale cambiamento si può prevedere?
Mancano meno di due anni alle prossime elezioni in Gran Bretagna. Keir Rodney Starmer, attuale capo del Partito Laburista e leader dell’opposizione alla Camera dei Comuni, ha buone probabilità di ascendere alla carica di primo ministro.
Finora ha esercitato meritatamente il suo ruolo guadagnando la stima e rispetto come leader premuroso e attento verso i soggetti che vogliono lavorare in sinergia con le imprese e rilanciare i servizi pubblici britannici sia in qualità che in quantità.
Molti nel suo partito sperano che la sua cautela sia progettata per ridurre al minimo le polemiche in vista delle elezioni e che, una volta al potere, sarà molto più audace sul tema dei rapporti con l'UE e su molte altre cose.
Per il momento, tuttavia, e con la parziale eccezione del cambiamento climatico, i principali attori politici del dramma nazionale britannico sono impegnati in piccole, sgangherate ed inutili discussioni, in buona parte spaventati dalle grandi idee che circolano intorno alle nazioni europee in quest’epoca. E che anche il Regno Unito dovrà comunque affrontare.
A dirla tutta, ci sono forme anche peggiori di politica nazionale e internazionale.
I leader con grandi visioni non sono sempre buoni per la democrazia. E’ una sonora lezione che l'Europa del ventesimo secolo ha sofferto ed ha insegnato a tutti noi in termini, come sappiamo, oltremodo dolorosi.
Ma proprio ora in un frangente critico come quello attuale, la Gran Bretagna ha virato troppo nella direzione opposta.
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Redazione
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