Una risorsa rinnovabile ma non inesauribile

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  Redazione
  10 marzo 2018
  35 minuti, 27 secondi

A cura di Stefano Sartorio

Questo percorso, che si comporrà di diversi articoli pubblicati periodicamente, è frutto di una ricerca che ho avuto l'occasione di svolgere e grazie alla quale, penso, sono riuscito a comprendere le caratteristiche di un altro fattore fondamentale che oggi e domani condizionerà le Relazioni Internazionali.

La geopolitica e le risorse naturali

La continua ricerca di risorse da parte delle entità internazionali, definibili per la maggior parte all'interno della categoria degli Stati-Nazione, da forza e vigore a quel fenomeno che più volte è stato definito come una “Fame energetica”. Le due rivoluzioni industriali del ‘700 e ‘800 hanno impresso una notevole spinta nei confronti del processo di sviluppo per quanto riguarda lo sfruttamento di determinate risorse naturali per fornire energia. Dal carbone, utilizzato soprattutto per alimentare macchinari a vapore, al petrolio, sostanza altamente infiammabile, scoperta nelle profondità della terra già dagli antichi greci che fungerà però, dal XX secolo in avanti, da risorsa di base per lo sviluppo della modernità tecnologica.

Quello a cui si assiste oggi è senz'altro un aumento della domanda del bene, trainata soprattutto dai paesi in via di sviluppo (tra cui i “Giganti Asiatici” come Cina ed India) e una relativa diminuzione dell’offerta dello stesso. La discrepanza tra quantità disponibile e quantità richiesta dalle diverse economie mondiali, rende questa risorsa di fondamentale importanza. Osservando il fenomeno più da lontano, notiamo che l’acquisizione di risorse per sostenere la crescita di uno Stato diventa un imperativo, tanto da essere inserita all'interno delle prerogative di sicurezza nazionale.

Proprio la così forte incidenza delle risorse naturali sul futuro degli Stati, causando in loro un sentimento di vulnerabilità e di pericolo, dovuto all'eventuale possibilità di trovarsi senza un approvvigionamento di queste ultime, ha reso essenziale lo sviluppo e l’implementazione di una serie di studi sulla loro reperibilità e protezione. Nasce in questo senso la concezione di Geopolitica delle Risorse Energetiche, che studia le relazioni tra la geografia delle risorse naturali ed energetiche con l’azione politica. Origina da queste considerazioni una Geostrategia, che si basa sulle conclusioni degli studi geopolitici per assurgere a dei risultati strategici che possano soddisfare, in questo frangente di analisi, la Sicurezza Energetica. Essa è definibile come la possibilità di un approvvigionamento di risorse che possa essere stabile, abbondante e dal prezzo contenuto.

Questo concetto ha assunto notevole importanza soprattutto successivamente alla crisi energetica degli anni ’70, successiva allo scoppio della guerra del Kippur tra Israele ed Egitto, Siria, i quali questi ultimi furono sostenuti dai paesi membri dell'OPEC (Oil and Petrol Exporting Countries) che fecero lievitare il prezzo del greggio. Oggi la questione della Sicurezza Energetica comprende soprattutto quattro problematiche che si identificano nella sopracitata scarsità crescente delle risorse energetiche collegate all'aumento cospicuo della domanda: i rischi dovuti ad una possibile interruzione dell’offerta, dovuta a questioni climatiche, disastri o guerre; l’utilizzo politico delle risorse energetiche, come accadde appunto nel ’73; la volatilità dei prezzi dovuta alle condizioni appena citate.

La Cina costituisce un altro interessante esempio di geo strategia indirizzata verso la Sicurezza Energetica, ad esempio attraverso le sue azioni in Africa (mediante l’ottenimento dei diritti di sfruttamento) e all'interno del mar cinese meridionale (la Nine Dash Line e la ricerca del petrolio e del gas naturale).
Per identificare una risorsa come tale, è si necessaria la sua utilità alla sopravvivenza dell’essere umano, ma anche la sua disponibilità e reperibilità. Accanto quindi al Metano, Petrolio e altri gas naturali utilizzati per la produzione energetica e il sostentamento del sistema economico odierno troviamo un altro elemento che potrebbe scatenare conflitti e instabilità forse ben peggiori rispetto a quelle causabili da un’improvvisa assenza di risorse minerarie

L’acqua come risorsa

Formata da due molecole di idrogeno e una di ossigeno, l’acqua risulta essere la componente fondamentale per la vita sulla terra. Basti pensare alle civiltà più antiche della storia e al loro rapporto causale con l’acqua; i Babilonesi e la Mesopotamia, la quale prende il nome dalla sua locazione tra i due fiumi principali della regione della Mezzaluna fertile, il Tigri e l’Eufrate; l’Egitto e la venerazione che questo popolo aveva ed ha tutt'oggi nei confronti del fiume Nilo, che ha permesso la colonizzazione umana di un tratto di terra che altrimenti sarebbe rimasto deserto. La civiltà cinese poi, ha avuto origine anch'essa tra due fiumi, il Fiume Giallo (Huang hé) e il Fiume Azzurro (Yangtzè o Chang Jiang).

All'interno di un discorso improntato sulla carenza di risorse energetiche, l’acqua sembra avere poco a che fare se non fosse che la scarsità di una risorsa, energetica o non, pone in essere svariate problematiche. Questo avviene soprattutto dal momento in cui su questa risorsa si basa l’intera popolazione globale. A differenza del petrolio, o dei gas naturali, l’acqua è sostanza prima e assoluta in termini di importanza per la continuazione delle attività umane sulla terra. La consapevolezza della sua caratteristica di rinnovabilità l’ha, per molti secoli, se non fino a qualche anno fa, portata ad essere considerata solo marginalmente. Sempre più frequenti episodi di siccità e contaminazione di questo elemento però hanno allarmato l’opinione pubblica ed i governi che hanno cominciato ad interrogarsi sul suo futuro in termini di disponibilità.

La Geopolitica dell’Acqua, nasce anche da queste considerazioni. Seguendo un percorso molto simile rispetto a quella delle Risorse Energetiche, essa analizza il rapporto tra la geografia e la distribuzione della risorsa all'interno del panorama globale.

Prima di addentrarci all'interno di questo complesso universo, è necessario porre in essere alcune premesse: la Terra è molto ricca di acqua, contando che la quantità in essa presente non diminuisce mai. Essa è sempre la stessa. Attraverso il ciclo solare e la gravità, l’acqua evapora dal mare, e ricade sulla terra sotto forma di pioggia o neve.

Il 71% della superficie terrestre è coperto da acqua, di cui il 97% è salata, il rimanente 3% è acqua dolce proveniente da ghiacciai e nevi perenni (68,9%), falde sotterranee (29,9%) e acque superficiali (1,2%); solo l’1% è acqua accessibile per uso umano.

La risorsa idrica è quindi fondamentalmente dipendente dalle condizioni ed ineguaglianze climatiche che caratterizzano le diverse parti della terra. Le zone polari, ad esempio, sono caratterizzate da bassissime temperature e scarsissime precipitazioni, mentre le zone sotto l’equatore sono caratterizzate da forti piogge e fiumi giganteschi, come il Congo o il Rio delle Amazzoni. Altri luoghi, come in quelli tropicali, i deserti (Sahara, Kalahari) sperimentano altissime temperature e modeste precipitazioni, con un grande fenomeno di evaporazione, che impedisce alla vegetazione di crescere.

La risorsa idrica dipende altresì dai venti, in quanto le precipitazioni sono molto legate ad essi. Il vento soffia sempre da zone di alta pressione a zone di bassa pressione. La circolazione atmosferica è caratterizzata da anticicloni (cellule di alta pressione) che si formano ai tropici e spingono masse d’aria verso destra nell’emisfero Nord e verso sinistra nell’emisfero Sud. Tali movimenti si trasformano in Alisei che si caricano di umidità sugli oceani portando piogge sui litorali alle latitudini temperate e nella zona orientale dei tropici. Sull’equatore gli alisei si incontrano e lo sviluppo impetuoso di aria si traduce in un fenomeno di condensazione, dando vita alle piogge equatoriali.

Oltre a questo, le piogge aumentano con l’altitudine, dando luogo ad immensi ghiacciai quando le temperature raggiungono una certa gradazione sotto lo zero, assumendo un ruolo regolatore per le stagioni più calde. Non per nulla le montagne vengono definite anche “Castelli d’acqua”, intesi come fortezze e serbatoi per contenere e proteggere questa risorsa fondamentale.

Il riscaldamento climatico ha sulla distribuzione dell’acqua un’importanza fondamentale, in quanto la modifica delle temperature ha effetto su ognuno di questi passaggi; con l’aumentare della temperatura, dell’evaporazione e il conseguente aumento del vapore acqueo nell’atmosfera il ciclo dell’acqua potrebbe diventare più dinamico. Le precipitazioni complessive potrebbero aumentare ma con uno spostamento di queste verso le zone più umide poste sotto l’equatore o nell’Asia monsonica, ma sempre meno nell’Africa del Nord, Australe, il Sud ovest degli USA e l’Australia. A breve termine si valuta una desertificazione cospicua nelle aree del mediterraneo e altre aree sub tropicali. Oltre a queste conseguenze dirette sulle precipitazioni, l’aumento delle temperature sarà caratterizzato anche dall’aumento delle tempeste e degli uragani. L’aumento delle temperature potrà dare vita anche a situazioni paradossali: l’Europa Nord-Occidentale potrà sperimentare infatti, in contraddizione con il fenomeno del riscaldamento globale, un crollo delle temperature, dovuto allo scioglimento dei ghiacci della calotta polare che fungono da termoregolatori per la Corrente del Golfo.

L’aumento del livello dell’acqua degli oceani è un altro problema collegabile al riscaldamento climatico: il calore dilata l’acqua causando un’espansione termica. In più lo scioglimento dei ghiacci continentali, di quelli montani e delle calotte polari giocheranno un ruolo senza dubbio importantissimo.

Attraverso le considerazioni precedenti, possiamo capire quale sia l'importanza di una risorsa come l'acqua e come essa possa modificare le relazioni tra Stati e potenze. Partendo dalle premesse già messe in luce nel precedente articolo, capiamo ora cosa significhi avere potere sull'approvvigionamento idrico e sul suo corso.

In questa situazione di stress climatico l’acqua risulta il bene o la risorsa che più viene influenzata. Lo stress idrico (1700 m3/ab/annui) e la penuria idrica (1000 m3/ab/annui) riguardano oggi il 30% della popolazione mondiale e si prevede un aumento di questa percentuale al 40% della popolazione mondiale entro il 2050 (2500 m3/ab/annui è la soglia ottimale). I paesi più colpiti da questa sorgente di instabilità sono quelli contenuti all'interno del così detto “triangolo della sete” che vede costruirsi i suoi angoli attraverso i paesi della Mongolia, Yemen e Marocco. Alcune zone del mondo sono costrette a vivere con meno di 100 m3/ab/annui, come in Kuwait. In paesi così minacciati da una totale scarsità di risorse idriche, si deve obbligatoriamente ricorrere a metodi non convenzionali per il reperimento delle risorse, come ad esempio la desalinizzazione dell’acqua marina oppure lo sfruttamento delle falde sotterranee. Questo ultimo punto risulta molto interessante all'interno della geopolitica idrica, in quanto esistono due tipologie differenti di falde con un valore relativo molto differente: le falde freatiche, sono serbatoi naturali di acqua potabile che filtra nel sottosuolo e forma dei vasti laghi sotterranei. Esse sono facilmente accessibili, anche a pochi metri di profondità e sono rinnovabili, in quanto l’acqua che si infiltra a causa delle precipitazioni va a riempirne il bacino. Le falde fossili invece non sono rinnovabili. Esse sono molto profonde e del tutto separate dal ciclo di rinnovamento di cui le falde freatiche godono. Risalgono a 10-12 mila anni fa e sono oggi divise in vari paesi. Gli spazi tra il Sahara e la Penisola Arabica ne nascondono moltissime. Basti pensare poi alla falda del Sahara Settentrionale, lunga più di un milione di km2 che si estende sotto Tunisia, Algeria e Libia. Oppure in America Latina, del Guaranì, che misura 1.2 milioni di km2 a cento metri di profondità, condivisa tra Brasile, Argentina, Uruguay e Paraguay. Senza pensare alla difficoltà che incorre nella delimitazione delle aree di sfruttamento marittimo, pensiamo a quanto potrà e quanto è complessa la gestione delle falde sotterranee che contengono la risorsa più importante per il genere umano.

La situazione di precarietà idrica porta gli Stati ad utilizzare queste risorse per sopperire alla mancanza di ulteriori corsi di superficie consumando acqua pura e "sprecandola" per utilizzi agricoli: un’ipoteca sulle spalle delle generazioni future. L’agricoltura è infatti l’attività umana che utilizza più acqua in assoluto, per un 70/80% del totale (e più della metà di questa evapora).
L’importanza dei corsi d’acqua allora si riscopre come primaria per l’autosufficienza idrica. Quello che però complica ulteriormente le cose è la suddivisione di questi ultimi all’interno del globo: ad oggi si contano 263 corsi d’acqua divisi tra più Stati. Dal punto di vista geopolitico, si viene qui a creare una discrepanza tra gli stati per quanto riguarda il loro potenziale di potere; infatti, gli Stati possono essere distinti in “A valle” (Downstream) oppure “A monte” (Upstream). Quelli che si trovano in cima ai corsi d’acqua godono senz'altro di un grande potere, per lo meno materiale, sui corsi d’acqua. Nonostante le norme di diritto internazionale siano per l’equa divisione delle acque, come stabilito dalla convenzione Onu del 1997 sulle norme per corsi d’acqua internazionali per usi diversi dalla navigazione, molti Stati sono ancorati a considerazioni di stampo storico o di preminenza nazionale.

La Turchia (paese a monte), ad esempio, ha sempre considerato l’acqua come una carta strategica e una leva di potere nei rapporti con i vicini (Siria e Iraq). Questo perché dalla Turchia nascono i due fiumi Tigri ed Eufrate, fondamentali per l’approvvigionamento idrico dei paesi a valle. Il progetto turco del GAP su entrambi i fiumi prevede la costruzione di 22 dighe e 19 centrali elettriche e farebbe diventare il paese uno dei più grandi cantieri mondiali ingegneristici, idraulici ed idrotecnici. Le preoccupazioni dei paesi rivieraschi però rischiano di minare i già precari equilibri tra le potenze e all’interno delle stesse popolazioni. Inoltre, gran parte del progetto si sviluppa in zone curde, che vengono evacuate continuamente. La costruzione delle dighe servirà oltre a controllare le acque anche a irrigare la piana del Diyarbakir, distruggendo però oltre 4000 villaggi. L’agricoltura ivi praticata però potrebbe correre il rischio di inquinare le acque del Tigri e potrebbe spingere verso l’aumento delle malattie legate all’acqua come la malaria o la lesmaniosi. La Siria ha poi bisogno delle acque dell’Eufrate per il suo sviluppo futuro e per mantenere a livello il Lago Assad per la produzione idroelettrica. Si stima che una volta terminato il progetto, ci sarà una riduzione del flusso d’acqua del 40% in Siria e del 90% in Iraq. I problemi relativi alla scarsità di acqua si rifletteranno in gravi crisi alimentari e di sviluppo. La Turchia in tutto questo sostiene che i fiumi nascano nel suo territorio e che invece lo stoccaggio delle risorse idriche a monte potrebbe essere solo un beneficio per i paesi a valle.

In un sistema dove le conflittualità sono imprevedibili diventa necessario sostenere un dialogo comune alla ricerca di accordi per la divisione delle acque. In questo frangente viene a inserirsi l’Idrodiplomazia. Essa gioca un ruolo fondamentale all'interno del teatro asiatico, soprattutto fra i giganti di Cina e India. Entrambi gli stati sono dipendenti da una duplice crescita; economica e demografica. Esse richiederanno nel tempo ulteriori consumi di acqua che potrà causare non poche problematiche con i propri vicini. La Cina ad esempio possiede il 7% della totale quantità delle risorse idriche del pianeta, per una popolazione che ammonta al 21% di quella mondiale. Questo equivale ad oggi a 2000 m3/ab/annui, poco superiore ai 1700 m3/ab/annui per la soglia dello stress idrico. Oltre all'aumento della popolazione e alla relativa richiesta di risorsa, anche il miglioramento delle condizioni di vita inciderà prepotentemente sulla quantità consumata, fornendo un moltiplicatore impressionante. Questo è dimostrato dal fatto che in un secolo i prelievi di acqua si sono moltiplicati per 7, il consumo per 6 mentre la popolazione mondiale per 3.

In Cina l’espansione urbana ingoia le campagne, la desertificazione e l’erosione caratterizzano il suo nord (carente della risorsa) mentre al sud il sovra sfruttamento idrico e l’inquinamento dell’acqua riducono le superfici irrigate dell’1% ogni anno. Così spiegata la crescente importazione di derrate alimentari e agricole. In più, il mancato trattamento delle acque (1/3 quelli industriali e 2/3 di quelli domestici) corrisponde ad un inquinamento di quest’ultime in maniera terribilmente progressiva. Tutti questi motivi preoccupano i vicini dei cinesi, che vedono con sospetto anche la continua costruzione di dighe. La Shanghai Cooperation Organization, che ha per scopo lo sviluppo di relazioni pacifiche tra gli Stati membri (Cina, Russia, Kazhakistan, Uzbekistan, Kirghizistan e Tagikistan con paesi associati come India, Mongolia e Pakistan), dovrà quindi essere in grado di gestire con diplomazia le sfide alla stabilità della regione. Attraverso la lente idrica, possiamo comprendere l’importanza che il paese da alla regione autonoma del Tibet. Questa regione è il Castello d’acqua asiatico, da cui originano dieci grandi fiumi tra cui l’Indo, il Brahmaputra, il Mekong e il Saluen da cui dipendono a valle i delta risicoltori di 1,5 miliardi di persone.

Le relazioni tra Cina e India, separate dalla barriera fisica dell’Himalaya, sono tese anche per la suddivisione delle acque. Nuova Delhi è preoccupata per la scarsità del flusso idrico del fiume Yangtzè Yang le cui acque vengono trasportate a nord dai cinesi e quindi ricaricate con l’acqua del Brahmaputra, fiume sacro per gli Indù. Teme altresì che la Cina possa dare seguito agli innumerevoli progetti di costruzione di dighe sul fiume nell’area del Tibet (per contribuire ad un suo sviluppo) che potrebbero limitare il flusso idrico. L’India, come la Cina, è in una situazione idrica difficile: 16% della popolazione mondiale ma solo con il 4% della risorsa idrica. La disponibilità per abitante è calata notevolmente, diminuendo da 5.000 m3/ab/annui nel 1951 a 1550 m3/ab/annui nel 2010 dovuto al sovra sfruttamento idrico e all’aumento della popolazione.

Questi dati sono particolarmente impressionanti se paragonati a zone come il Brasile che possiede in linea teorica circa 40.000 m3/ab/annui. In India poi le problematiche sono differenti; le irregolarità climatiche (economia monsonica rurale, e quello del 2009 è stato il più debole dal 1972) tanto che nel 2010 è stata costretta ad importare derrate alimentari dall'estero. L’urbanizzazione e la mancata previsione di meccanismi tecnologici per il trattamento delle acque e il loro uso inefficiente rende, poi, la risorsa idrica in grave pericolo. L’India poi ha relazioni complesse con il Pakistan e il Bangladesh; Il primo è una regione che non può beneficiare eccessivamente dei monsoni in quanto arrivano già secchi. La situazione è compensata dai corsi d’acqua che originano nel Kashmir, alimentati da precipitazioni e dai ghiacci. L’Indo è poi di fatto un’arteria vitale che attraversa lo Stato. Altri fiumi permettono una irrigazione capillare del territorio Pakistano, affluenti dell’Indo, lo Jhelum, e il Chenab che hanno la fonte nel paese, mentre il Ravi e lo Setley la hanno a monte, in India. L’utilizzo di quest’acqua è millenario. Con la partizione del mondo indiano nel 1948 tra l’India e il Pakistan stesso, i terreni irrigati vennero sconnessi dalle loro fonti di approvvigionamento per via delle nuove frontiere. Da questo momento si diede vita ad una gestione delle acque unilaterale, senza concertazione. L’India, che controlla i corsi superiori fluviali, sottopone il Pakistan ad una condizione di inferiorità idrica. Anche il Bangladesh, nato dall'indipendenza dallo Stato del Pakistan, gode di una posizione principale a livello fluviale nella regione; infatti, il delta fluviale più esteso al mondo (ricopre il 70 % del paese) si trova al suo interno. Fiumi come il Gange o il Brahmaputra confluiscono qui prima di entrare nell'Oceano Indiano. Fiumi che sono alimentati dal “castello d’acqua” himalaiano. Anche qui l’India possiede le sorti idriche della regione vista la sua posizione a monte.

Determinate condizioni sembrano essere foriere di grandi instabilità future, soprattutto dal momento in cui si scopre che la stima è che oltre 50 Stati sparsi nei 5 continenti siano a rischio di essere coinvolti in una crisi legata all’acqua, da tensioni internazionali a guerra guerreggiata. L’alternativa allo scontro però esiste ed è la stipulazione dei trattati internazionali. Nell’ambito delle conflittualità idriche si è potuta notare una tendenza a siglare accordi bilaterali anche se situazioni come la citata Shanghai Cooperation Organization o le stesse Nazioni Unite costituiscono spazi di dialogo propense alla costruzione di accordi multilaterali.

È curioso notare come nell’ambito delle guerre e conflitti dell’acqua si affrontino due schieramenti di studiosi: gli “Idrottimisti” e gli “Idropessimisti”. Gli ultimi sono propensi verso una visione di idroconflittualità sempre più serrata, considerando una controversia di carattere idrico uno dei futuri e principali casus belli per ulteriori scontri (Klaus Toepfer, direttore UNESCO 1999). A queste valutazioni si oppongono invece i primi citati, sostenendo, attraverso lo studio storico, come i conflitti idrici siano oggi come ieri poco probabili; tre motivazioni vengono date per questa valutazione: in prima battuta analizzando le motivazioni dei conflitti, arrivando alla conclusione che anche se l’acqua ha avuto da sempre un’importanza e valore nei conflitti, gli scontri solo per il controllo delle risorse idriche sono più rari. Durante la guerra in Bosnia (1992), la paventata minaccia contro le dighe della regione non si concretizzò mai. L’India non bloccò il flusso d’acqua dell’Indo durante la prima guerra con il Pakistan. Sembra quindi che il rispetto dell’acqua costituisca per ora una regola implicita seguita dai belligeranti. In secondo luogo, è notata la grande attività diplomatica tra il XIX e XX che conta più di 3600 trattati per la gestione delle acque in comune e le controversie. Infine, essi notano un atteggiamento cooperativo degli Stati nelle questioni idriche.

La critica che viene mossa a queste argomentazioni risiede proprio nella loro ragione storica, in quanto le condizioni del XXI secolo e da li più avanti sono radicalmente differenti rispetto a quelle di inizio ‘900. La quantità di risorsa idrica ad oggi è la medesima di 5000 anni fa, ma la domanda è incomparabilmente aumentata, diminuendo la quantità di acqua rinnovabile del 58%. L’acqua inoltre, a differenza di risorse come il petrolio, non può essere sostituita. È comunque importante non accettare la conclusione meccanica del conflitto, in quanto questo punto di vista non tiene sufficientemente conto delle dinamiche interne degli Stati.
A tal proposito diventa provvidenziale un filone di analisi, per quanto riguarda la Idropolitica, relativamente nuovo. La Idropsicologia, infatti, ha il merito di studiare gli effetti di come la precarietà idrica, il conflitto e la gestione delle problematiche ad esse connesse hanno effetto sugli esseri umani, nel loro comportamento e nelle loro percezioni riguardo ad esse. In pratica, si può identificare come la visione strutturalista della geopolitica dell’acqua, analizzando anche quelle sfide alla risoluzione delle controversie di carattere etnico, religioso, linguistico e sociale.
Già i coniugi Sprout avevano parlato dello Psychomilieu, come antitesi all’Operational Milieu, in cui era necessario distinguere il puro fatto geografico dal significato che questo assumeva per l’agente osservatore. Così anche l’idropsicologia lavora e fonda la sua analisi sulla realtà percepita e non su quella oggettiva, per completare in maniera più efficace le future considerazioni in ambito di risoluzione delle controversie in materia idrica.

Una controversia che può essere presa ad esempio in questo caso ci riporta sempre all’interno dello Stato indiano: il bacino del fiume Cauvery si situa all’interno di tre Stati; Karnataka, Kerala e Tamil Nadu. La condivisione delle acque era, come da prassi storica, regolata da accordi (del 1892 e 1924). L’ultimo accordo concluso avrebbe avuto una durata di 50 anni e all’approssimarsi dello scadere dei termini temporali la problematica si acuì. Lo Stato del Tamil Nadu accusò lo Stato del Karnataka di utilizzare molta più acqua rispetto a quella che veniva pattuita all’interno dell’accordo, provocando una diminuzione del flusso. I due soggetti non riuscirono a risolvere la questione e chiesero l’aiuto del governo centrale, che decise di creare un tribunale per risolvere la questione; il Tribunale del bacino del Cauvery.

Quest’ultimo decise alcune misure che però non fermarono le ostilità tra i due paesi che sfociarono talvolta anche in violenze. Questo fu particolarmente accentuato nel 1995 con la diminuzione dei monsoni, provvidenziali per il rifornimento idrico della zona. La situazione si ripete nel 2002, ponendo di nuovo il problema spinoso su come i due Stati avrebbero collaborato in caso di stress idrico. Il Tamil Nadu chiedeva allo Stato del Karnataka di erogargli la sua quantità prestabilita all'interno dell’accordo con il Tribunale concluso in precedenza, mentre l’altro sosteneva che non vi erano abbastanza scorte nemmeno per la propria popolazione. Fortunatamente l’arrivo dei monsoni nel 2004, 2005 e 2006 calmò la situazione. Venne istruito un altro tribunale (2007) per cercare di risolvere la situazione che ancora oggi rimane in bilico.

Ogni Stato offre delle ragioni per cui secondo il suo punto di vista gli spetterebbe una certa quantità d’acqua: il Karnataka invoca molto spesso la scarsità di piogge a monte, e i dati potrebbero essere corretti osservando le perturbazioni meteorologiche nell’area. Il Tamil Nadu invece sostiene che lo Stato del Karnataka stia utilizzando spropositate quantità di acqua per irrigare i suoi enormi campi agricoli, e anche in questo potrebbe esserci del vero. Anche un aumento della popolazione dal 1991 del 10% annuo ha causato questa diminuzione della risorsa.

Entrambi gli Stati poi proibiscono al governo centrale di controllare che le loro ragioni siano di fatto veritiere. Le preoccupazioni dei due Stati sono così da comprendere e da risolvere; essi sono granitici nelle loro
posizioni e il modo con cui vengono espresse dalla politica pone gravi problemi, soprattutto nel modo in cui gli abitanti dei due paesi reagiscono. La politica gioca un ruolo fondamentale nella percezione della problematica. Bisogna peraltro specificare che in questi Stati i cittadini tendono a dare molto sostegno ai governanti, i quali a volte possono essere idolatrati come Dei. Oltre a questo, anche le tradizioni, la famiglia e le credenze giocano un ruolo importante, associate a un basso livello di educazione. La lingua poi è un altro fattore importante; molte persone del Tamil Nadu vivono in Karnataka e viceversa. In Bengalore, capitale del Karnataka, il 27% della popolazione proviene dal Tamil mentre il 31% è originaria Kannada. Il fatto che la maggior parte degli scontri siano avvenuti in questa città contro la popolazione del Tamil indica qual è il ruolo della lingua all'interno di questa disputa, tanto da essere più importante dell’effettivo luogo in cui un gruppo vive.

La domanda che gli studiosi di questa disputa si pongono allora è: se queste due popolazioni verranno coinvolte in una mancanza o in un rilascio della risorsa idrica, sosterranno lo Stato in cui essi vivono e hanno una casa, oppure sosterranno quell'altro solamente per motivi di comunanza linguistica? Il linguaggio politico in definitiva contribuisce in larga parte alla percezione pubblica della controversia. Attraverso discorsi o dileggiamenti nei confronti di una particolare popolazione o etnia, mediante l’uso di espedienti emozionali, come può perfettamente essere la lingua, si possono istruire i contorni dello scontro.

L’Idropsicologia in conclusione sostiene che all'interno dei possibili scontri per questioni idriche, non siano solo i fattori scientifici ed economici a dover essere presi in considerazione e che la percezione sociale e umana di un fenomeno giochi un ruolo fondamentale, così come tutto il background che la caratterizza. All'interno della geopolitica questa considerazione si inserisce dal punto di vista dell’analisi e comprensione di un conflitto attraverso non solo la geografia fisica ma anche la geografia mentale. All’interno della controversia che vede protagonisti l’India e il Pakistan non è solo l’acqua ad essere il mezzo del contendere; altri fattori come la religione e l’orgoglio nazionale giocano ruoli fondamentali. Lo stesso può essere detto per la disputa del fiume Giordano tra Israele, Giordania, Siria, Libano e l’Autorità Palestinese.

In conclusione a questo percorso che abbiamo affrontato cercando di spiegare e di capire cosa sia la geopolitica delle risorse idriche e quale importanza abbia nella stabilità regionale contemporanea, diventa utile affrontare un caso specifico per poterne meglio delineare la complessità ma anche capire il funzionamento delle sue dinamiche. All'interno del discorso inerente alla concezione dello spazio geografico e della risorsa (incluso il suo uso) troviamo differenti tipologie di considerazioni (o dottrine): la dottrina Harmon, o modello di sovranità assoluta, sostiene che in assenza di una legislazione contraria un paese possa decidere di utilizzare l’acqua come meglio preferisce senza curarsi degli effetti sugli altri Stati richiamando la Sovranità assoluta dello Stato a monte . La teoria dell’integrità territoriale assoluta invece sostiene che gli Stati a valle debbano avere il diritto di beneficiare del naturale flusso che deriverebbe dallo Stato a monte. La teoria della sovranità territoriale limitata e integrata secondo la quale ogni nazione ha il diritto di usufruire delle risorse idriche presenti nel proprio territorio senza pregiudizio. La teoria della comunanza di interessi la quale sostiene che nessuno Stato può disporre liberamente delle acque all'interno dei propri confini senza prima un accordo e una consultazione con gli altri Stati che condividono il bacino. La teoria dell’uso equo e ragionevole, sostenuta anche dalle NU, che attribuisce ad ogni paese la possibilità di usare le acque del bacino in maniera, appunto, equa e ragionevole. Infine, influenzando il discorso a venire, all'interno del diritto islamico sussiste una concezione particolare della sovranità relativa alla risorsa idrica: l’utilizzazione prioritaria data dal predominio storico precedente. Oltre a questo, l’acqua non può essere venduta, in quanto solo il prodotto del lavoro dell’uomo può seguire questo destino. L’acqua è considerata come "lavoro" divino, e quindi non può essere posseduta (generando implicazioni sulle normative e sulla concezione dell’acqua e quindi sul suo utilizzo)

La situazione idrica che vede protagonisti i paesi MENA (5% popolazione mondiale, 1% risorse idriche mondiali) risulta alquanto critica; Scarsità, inquinamento, siccità e irregolarità nella distribuzione. Poche precipitazioni e l’alta temperatura favorisce l’evaporazione. Inoltre, il concreto aumento della salinità dei terreni pone in grave pericolo l’agricoltura. Entro il 2025 tutti i paesi MENA ad eccezione della Turchia e del Libano, saranno in una situazione di stress idrico. Nel 2050 la Turchia avrà una disponibilità idrica adeguata e non più sovra proporzionata, mentre 7 paesi saranno in situazione di penuria se non di stress idrico cronico (Siria, Israele, Giordania, Libia, Algeria, Tunisia e territori Palestinesi). Il bisogno d’acqua è qui gestito come un’arma politica. Anche l’Egitto rischia entro il 2025 di trovarsi in una situazione ben peggiore di una penuria idrica (1000/m3/ab/annui) attestandosi a 620 m3/ab/annui.

Anwar al-Sadat, presidente della Repubblica Araba d’Egitto dal 1970 al 1981, diceva nel 1979 che “l’acqua è la sola ragione che potrebbe condurre l’Egitto di nuovo in guerra”. Boutros Ghali, segretario generale delle Nazioni Unite dal 1992 al 1997, statuiva nel 1987 che “la prossima guerra dell’acqua si svolgerà sul Nilo”.

Il Nilo è il corso d’acqua costitutivo della civiltà egizia antica e dell’Egitto moderno. Esso rappresenta l’unico motivo per cui una popolazione sia riuscita a stanziarsi in un territorio tanto arido quanto inospitale. Le ragioni storiche, oltre a quelle di sicurezza nazionale, sono quindi alla base della forte intenzione egiziana di proteggere le sue acque e così anche la propria indipendenza. Il Nilo è infatti il fiume più lungo al mondo con 6.671 km di lunghezza e viene condiviso da 10 paesi: Burundi, Ruanda, Repubblica Democratica del Congo, Uganda, Kenya, Tanzania, Sudan, Etiopia, Eritrea ed Egitto. Il fiume è composto da due corsi d’acqua che originano in tre paesi differenti: il Nilo Bianco, che trae la sua forza dalla fonte in Burundi e dall’Uganda nella regione del Lago Vittoria e il Nilo Azzurro dagli altopiani etiopi. Quest’ultimo raggruppa, insieme ai suoi affluenti, l’86% del flusso d’acqua nilotico. Entrambi i due fiumi si incontrano all’altezza di Khartoum (in Sudan) e formano il Nilo che poi andrà ad attraversare l’Egitto, passando per la Diga di Assuan, e sfocerà nel Mediterraneo. Lungo le rive del fiume vive il 90% della popolazione egiziana (95 milioni), in totale dipendenza dagli Stati a monte, specialmente l’Etiopia.

Il ruolo dei tre Stati più a valle è sicuramente fondamentale (Egitto, Sudan, “Etiopia”) e altrettanto la suddivisione della risorsa idrica tra di loro: come sopra esplicitato, essi sarebbero zone aride senza i propri fiumi. Così viene spiegata la volontà egiziana di salvaguardare il suo dominio sul Sudan e l’importanza che questo paese occupa ancora nella Politica estera di questo paese.

L’Egitto ha sempre vegliato affinché gli venissero riconosciuti i diritti sul Nilo come paese rivierasco. Nel 1891, un protocollo firmato dall’Inghilterra (in rappresentanza dell’Egitto e del Sudan) e dall’Italia (in rappresentanza dell’Etiopia) assicurava che nessuna azione che avesse danneggiato la portata del Nilo sarebbe stata intrapresa. Nel 1902, il re etiope Menelik, su pressione inglese, rinuncio a costruire qualsiasi opera idraulica sul tratto di fiume che percorreva il suo paese. Nel 1929 accordi tra Egitto (Indipendente dal ’22) e Sudan (rappresentato dall’Inghilterra) imposero a quest’ultimo di non costruire nessuna opera che avesse modificato il corso e il livello del Nilo offrendo all’Egitto il compito di controllare tutto il bacino e il potere di veto sui progetti dei paesi rivieraschi a monte.

L’Etiopia rifiutò l’insieme delle clausole degli accordi non volendo accettare nessun condizionamento sui suoi corsi d’acqua da parte degli Stati a valle, anche per la portata idrica significativa del Nilo Azzurro. Anche il Sudan, ottenuta l’indipendenza, fece lo stesso, costruendo la diga Rusayris sul Nilo Azzurro. L’Egitto accettò la sua costruzione solo dopo forti pressioni internazionali.

Nel 1959 venne firmato un accordo sulla “completa utilizzazione delle acque del Nilo”. Il Sudan avrebbe sfruttato 18 miliardi di m3 d’acqua (25% del flusso) e poteva iniziare una serie di progetti per lo sviluppo del Nilo. L’Egitto avrebbe potuto costruire una grande diga al confine con il Sudan (Assuan) per regolare il flusso nei periodi di siccità. Questo accordo dava poi ai due Stati il diritto di veto sulle sui progetti idroelettrici e idraulici a monte. Accordo che si tenne solo tra i due Stati rivieraschi. In più confermava l’egemonia in termini di quantità d’acqua usufruibile dall’Egitto rispetto agli altri paesi. L’Etiopia non fu ammessa perché di fatto gli Stati stavano ostacolando la possibilità del paese di sfruttare i suoi corsi d’acqua. Entrambi gli stati si impegnarono per la costruzione del canale di Jonglei, che avrebbe spostato l’acqua del Nilo da una zona ad alta evaporazione; nel 1983 si interruppe a 100 km dal completamento a causa di un’azione ribelle e la guerra civile spense definitivamente le speranze. Da quell’anno l’Egitto propose la costituzione di un’organizzazione pan-nilotica (Undugu, “fratellanza” in swahili) ma l’instabilità regionale ne inficia il funzionamento.

L’Egitto è un paese a valle e come tale si troverebbe in una condizione di debolezza. In realtà, ricorrendo alla minaccia è riuscito a mantenere un ruolo primario. La dipendenza dal Nilo rappresenta una componente essenziale delle relazioni con il Sudan. La pressione sulle acque del Nilo accrescerà sicuramente la tensione tra gli attori, soprattutto quando Uganda, Tanzania e Kenya decideranno, per motivi economici e demografici, di utilizzare maggiormente le risorse del Nilo Bianco (e della sorgente nel Lago Vittoria). Oltre a questo, l’Egitto ha intenzione di costruire un fiume gemello al Nilo (Progetto Nuova Valle), largo 30 metri e profondo fino a 137 metri sotto il livello del mare. Passerà all’interno di alcune oasi nel nord-est (Baris el-Kharga, Dakla, Faratra, Al Kattara) dell’Egitto partendo dal lago Nasser prima di sfociare nel Mediterraneo passando per una centrale idroelettrica che produrrà 10 miliardi di Kw. Il progetto però costerà 2 miliardi di dollari che il paese ora non possiede.

Oltre al Nilo, la falda acquifera Nubiana è un’altra delle maggiori risorse idriche per Egitto, Sudan, Libia e Ciad. La Libia è il maggiore utilizzatore di questa falda, attraverso il suo Great Man River Dam, (GMRD) o Grande Fiume Artificiale Libico, voluto nel 1983 da Gheddafi. Una rete di tubi che va ad approvvigionare il litorale e l’irrigazione. Al 2012 essa pompava 6 milioni di m3/giornalieri minacciando l’esaurimento della risorsa tra i 50 e i 100 anni, con evidenti problematiche per gli stati che la condividono (Tunisia ed Egitto).

Tornando al fiume, e in particolare al Nilo Azzurro, un attore di quelli che abbiamo potuto citare sta minacciando, secondo l’Egitto, la sicurezza e la stabilità nazionale del paese. L’Etiopia, infatti, sta studiando ormai da tempo la costruzione di una diga sul lago Tana. Il paese ad oggi usa solo il 5% delle acque del fiume, irrigando 200.000 ettari a fronte dei 3,7 milioni di irrigabili. La popolazione etiope (di circa 104 milioni con una media per l’86% della popolazione di 6 figli per donna) è in netto aumento e si prevede di conseguenza un esponenziale aumento delle terre coltivabili per poterla sfamare. L’Egitto ha da sempre colto la precarietà dell’equilibrio nella zona comprendendo la pericolosità di un’Etiopia forte: infatti, ha sempre cercato di impedire la costruzione di dighe sul Nilo Azzurro, occupando il porto di Massaua dal 1865 al 1885 e fino al 1872 mantenne un’occupazione in un’area a Nord-Ovest dell’Eritrea con l’obiettivo di avere una “testa di ponte” per un eventuale attacco militare. Tentativi vennero compiuti anche per fare dell’Eritrea un protettorato, scongiurati dall’Inghilterra che la amministrò fino al ’52. Anche se l’Egitto non lo ammise mai, uno dei punti fermi della sua politica estera si concentrò sulla destabilizzazione del paese, ospitando negli anni ’60 al Cairo un ufficio dell’ELF (Eritrea Liberation Front) appoggiato dallo stesso governo. Le relazioni poi peggiorarono negli anni ’70 a causa di una forte siccità nella regione etiope che spinse il governo a portare avanti ulteriori studi sullo sfruttamento delle acque del lago Tana. L’Egitto dichiarò immediatamente che la costruzione di qualsiasi diga a monte avrebbe causato una guerra.

Le tensioni ad oggi sono diminuite con il tentativo dei due paesi di dialogare: l’Egitto ha riconosciuto ad ogni Stato l’utilizzo dell’acqua del Nilo in accordo alle leggi internazionali. L’Etiopia ha poi ricordato che il suo tratto di fiume contribuisce per l’80% al flusso d’acqua che ivi scorre, e che utilizzerà una quantità d’acqua necessaria al proprio sviluppo idrico ed economico ma tenendo sempre in considerazione anche i bisogni degli altri paesi rivieraschi (conformemente all’uso equo e ragionevole).

La questione al nocciolo della geopolitica nilotica si configura nella decisione dell’Etiopia di portare a termine entro il 2020 la costruzione della Grand Ethiopian Reinassance Dam (GERD). Raggiunta la pace dopo tre decenni di guerre e isolamento, nel 2000 ha cominciato a progettare sistemi idraulici per mettere in valore le sue riserve d’acqua. Un’enorme programma di irrigazione, pari al GAP turco, per irrigare 2 milioni di ettari. La priorità del paese, oltre a quella alimentare, è di trasformarsi in una potenza idroelettrica regionale. Ad oggi sono state inaugurate tre piccole dighe e altre lo saranno quest’anno. Lo scopo sarà esportare energia elettrica ai paesi vicini importando valuta. La paura egiziana in questo senso si configura nella possibilità che questi progetti abbassino da 4 a 8 miliardi m3 l’anno il flusso idrico nilotico danneggiando la sua economia agricola e il suo approvvigionamento (il flusso del Nilo è stimato intorno agli 84 miliardi m3 l’anno). L’Egitto considera però l’acqua del Nilo interamente navigabile e quindi gode di uno statuto internazionale che impone un accordo su qualsiasi intervento sulle sue acque che coinvolga i paesi rivieraschi. L’Etiopia invece non considera il fiume totalmente navigabile a causa delle cataratte che non consentirebbero una sua navigazione continua e quindi sostiene che non ci sia bisogno di permessi da parte degli altri Stati per un intervento. A queste preoccupazioni egiziane si aggiunge il fatto che il Sudan si è avvicinato sempre di più all’Etiopia, accordandosi per lo sviluppo di progetti lungo il Nilo Azzurro, senza coordinarsi con l’Egitto. Il paese etiope ha contribuito alla stabilizzazione regionale confermandosi un nuovo attore attivo, tramite l’invio di peacekeepers in Darfur e tra il confine dei due Sudan. I paesi sono storici alleati ma quest’ultimo teme per le sue riserve. Il riscaldamento climatico, il nervosismo egiziano per la sua vulnerabilità e il sostegno di quest’ultimo dato ai gruppi separatisti all’interno di questi Stati esasperano la situazione.

Gli Stati Uniti sono diventati anche alleati dell’Etiopia interessati alla sua posizione strategica e quest’ultima si è avvicinata negli anni a Israele, favorendo ad esempio l’emigrazione nel suo territorio dei Falasha, ebrei neri etiopi. Israele a cofinanziato alcuni progetti idrici con l’obiettivo di aggirare il blocco arabo. Le riserve di petrolio in Sud Sudan hanno poi fatto gola alle potenze straniere come la Cina, che ha sovvenzionato anche interamente opere idrauliche come moneta di scambio.

Il progetto GERD sembra minacciare l’idro-egemonia che l’Egitto rifiuta di perdere. Esso sembra essere un tentativo del paese a monte di agire come contro-egemone sul fiume e nella regione.

L’annuncio della costruzione della diga avvenne nel 2011 poco prima della deposizione di Hosni Mubarak in Egitto. Essa punta alla costruzione di un “reservoirdi 1.5 volte il flusso annuale del fiume e generando 3 volte la potenza energetica attuale del paese. Si stima che durante il periodo di riempimento (6 mesi ma potrebbe durare fino a 8 anni a seconda dei piani di riempimento, dal flusso costante e dall’evaporazione), il flusso del Nilo a valle sarà ridotto tra il 15-25%. Un panel di esperti è stato riunito nel 2013 per indicare le conseguenze di un tale progetto per i paesi a valle; le conclusioni furono favorevoli per l’Egitto con un aumento delle aree irrigabili, una minore sedimentazione sul lago Nasser e una riduzione degli allagamenti. Il principale svantaggio che essa avrebbe portato all’Egitto è una riduzione nella produzione energetica della Diga di Assuan (HAD). In generale però, sembrano esserci più vantaggi per tutti gli Stati rivieraschi, rendendo necessaria una regolamentazione del suo funzionamento, soprattutto durante il periodo di riempimento. La poca trasparenza del progetto però non aiuta e non permette una valutazione unanime sugli effettivi risultati benefici o meno per gli Stati a valle.

Quello che possiamo osservare, rendendo infine utile e provvidenziale la precedente introduzione all’idropsicologia, è il livello a cui questa disputa viene consumata; se infatti l’acqua ha un ruolo principale e le sue conseguenze scientifiche ed economiche lo sono altrettanto, anche l’aspetto dell’idro-egemonia sopracitata è fondamentale: da una parte vediamo un Egitto che, dopo il 25 Gennaio 2011, ha perso in parte il suo differenziale di potere “soft” e “hard” e che cerca di salvaguardare la sua posizione come attore principale sul Nilo. Dall’altra parte invece vediamo un’Etiopia che controlla l’85% delle acque e che aumenta il proprio potere in sfida all’egemonia egiziana grazie alla sua posizione geografica ma non solo; un insieme di azioni che vedono solo come ultima la costruzione della GERD: una retorica alternativa a quella storico-nazionalista egiziana tramite la ricerca della cooperazione con gli stati rivieraschi, la ricerca dell’indipendenza e il riscatto della nazione dai decenni di umiliazione passati (molto a che vedere con la retorica cinese e dello sviluppo pacifico).

L’Egitto dal canto suo ha anch’esso messo in atto una strategia basata sulla retorica, portando il tema della sua opinione pubblica verso tre temi fondamentali: i “diritti del pane” e la sicurezza nazionale, il diritto divino e il nazionalismo. Il fatto di spostare il discorso verso il concetto di sicurezza nazionale poi permette al governo di utilizzare misure speciali assumendo il consenso dei cittadini permettendo anche di spostare l’attenzione su queste questioni allontanandola dalle problematiche domestiche. Anche la religione ha un ruolo importante all’interno di questa vicenda, tanto che in Egitto si è parlato di “water jihad”. I tentativi di mantenere l’egemonia sul Nilo hanno portato il paese a dipingere le motivazioni etiopi per un maggior controllo sul fiume come “evil motives to endanger and destabilise Egypt”. Solo l’amministrazione el-Sisi ha modificato in parte questa retorica, tramite il sostegno a misure di consultazione e cooperazione, con la speranza che la comunità internazionale possa fare pressione sul paese per cooperare con l’Egitto, per fermare o per lo meno ritardare la costruzione della diga.

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L'Autore

Redazione

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