30 ANNI DAL GENOCIDIO RUANDESE: PER NON DIMENTICARE IL MASSACRO DEI “FRATELLI” TUTSI

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  Laura Rodriguez
  12 aprile 2024
  7 minuti, 20 secondi

Il 6 aprile 1994 veniva abbattuto l’aereo su cui viaggiavano il presidente del Ruanda, Juvénal Habyarimana e il presidente del Burundi, Cyprien Ntaryamira, entrambi di etnia Hutu. Fu questo attentato il pretesto che diede il via all’uccisione violenta e indiscriminata della popolazione Tutsi, la componente minoritaria che condivideva il territorio ruandese con gli hutu.

Per comprendere a fondo ciò che è successo 30 anni fa, occorre però fare un passo indietro nella storia.

Gli antefatti

Prima di fare una qualsiasi considerazione sul tema è bene chiarire che le etnie Hutu e Tutsi non sono mai oggettivamente esistite: questi due popoli non sono minoranze etniche o religiose, ma, al contrario, la loro “trasformazione” in etnie irrimediabilmente rivali e distinte che verrà successivamente interiorizzata da entrambe le parti è stata frutto del periodo di colonizzazione europea.

Storicamente la popolazione del Paese può essere suddivisa in 3 gruppi: Hutu, Tutsi e Twa. Questi ultimi, secondo le ipotesi storiche, sono i primi ad essersi insediati e rappresentano una percentuale irrisoria della popolazione ruandese, mentre gli Hutu, prevalentemente agricoltori, costituiscono la maggioranza. Infine, vi sono i Tutsi, un gruppo dedito all’allevamento.

È cruciale comprendere questa tipica (e pacifica) convivenza dei due popoli sin dalle origini per potersi (e doversi) interrogare riguardo a come sia stato possibile il verificarsi di un evento di una simile portata quando, fin dal principio, non vi erano particolari motivi di coltivare un tale odio nei confronti di colui che rappresentava non solo un vicino, ma anche un fratello, un amico.


Il colonialismo europeo

I colonizzatori, i tedeschi prima e i belgi poi (a cui la Società delle Nazioni aveva affidato il governo del Paese al termine della prima Guerra Mondiale), si servirono della cosiddetta ipotesi hamitica (o camitica, a seconda degli scritti) che, rifacendosi alla Genesi, identificava gli uomini di pelle scura come i discendenti di Cam, uno dei tre figli di Noè; Cam, dopo aver visto il proprio padre nudo, ricevette una maledizione e per questo i suoi discendenti vennero considerati degenerati e impuri.

È questa l’idea del colonialismo e moderno razzismo che si consolida nel diciannovesimo secolo e che, di fatto, porta gli europei a considerare i Tutsi come i sopravvissuti dell’umanità originale e, di conseguenza, come i più adatti a governare, a scapito della popolazione Hutu, nera, e quindi inferiore per natura. Fu in particolare coi belgi che si consolidò questa ideologia: gli Hutu vennero definiti un gruppo bantu, mentre i Tutsi, agli occhi degli studiosi del tempo e nel quadro della teoria hamitica, erano di origine ben diversa, un’origine nobile.


Il capovolgimento di prospettiva

La seconda metà degli anni ’50 fu caratterizzata da una forte tensione sociale tra i due popoli, con una graduale cristallizzazione delle due fazioni. Verso la fine del 1959 gli avvenimenti precipitarono e i belgi, pur comprendendo la situazione, non seppero gestirla.

Nei primi mesi del 1960, il governo coloniale decise quindi di sostituire gran parte dei capi Tutsi con quelli Hutu, i quali, memori del passato, organizzarono una persecuzione violenta e sistematica nei confronti di un popolo che iniziò ad essere visto sempre più come un rivale, costringendolo all’esodo nei paesi limitrofi.

In seguito all’abolizione della monarchia e alla proclamazione della repubblica nel 1961, l’anno seguente il Ruanda, reduce da una prima serie di conflitti violenti, divenne indipendente nonostante non fosse pronto a questo complesso processo.

Se dal momento della rivoluzione si verificarono i primi atti violenti nei confronti dei Tutsi, fu dal 1963 che si concretizzarono i primi massacri e le prime espulsioni, accompagnati da sistemi di contingentamento nelle assunzioni del personale pubblico e degli insegnamenti, per mostrare in maniera chiara alla minoranza quale fosse il suo posto nella società.

A queste prime misure ne seguirono altre sempre più stringenti, le quali furono rese possibili anche grazie all’ascesa al potere del nuovo presidente Habyarimana e al consolidarsi del suo regime dittatoriale a partire dal 1973.

Si verificò di fatto un’inversione di segni: l’Hutu diventò l’autoctono mentre il Tutsi si trasformò in colono e questo fu il punto di partenza di un’estremizzazione che contribuì a trasformare le vittime del periodo coloniale in potenziali assassini.


Dalle violenze al genocidio

A partire dal 1990, il Fronte Patriottico Ruandese (FPR) composto dalla seconda generazione di Tutsi esiliati in Uganda, decise di lanciare una vera e propria offensiva sul territorio ruandese che divenne ben presto un’autentica e sanguinosa azione di guerra.

Intanto, l’ala più estremista legata al movimento presidenziale, aveva creato un’organizzazione in grado di uccidere su larga scala, temendo una collaborazione tra i Tutsi presenti dentro e fuori dal Paese: a partire da questo momento, infatti, ci furono massacri localizzati che rappresentarono di fatto un evento premonitore del genocidio vero e proprio. Con la minaccia del FPR alle porte del Paese, dopo diciassette anni il regime sembrò traballare. Fu proprio in questo momento che i quadri dirigenti del MRND (il partito presidenziale), Habyarimana in primis, scelsero di utilizzare qualsiasi mezzo per riguadagnare popolarità e galvanizzare le masse contro il nemico comune.

Un evento cruciale fu quello del 4 agosto 1993, giorno in cui vennero firmati gli accordi di Arusha tra il governo e il Fronte Patriottico, provvedimento che segnò la nascita di un governo di transizione, consolidando l’obiettivo dei ribelli di trasporre la lotta per il potere su un piano politico e non più solamente etnico. La vicenda costituì in maniera netta la sconfitta degli Hutu (quelli del Nord in particolare) e ciò ebbe come conseguenza una radicalizzazione degli estremisti: a partire dal mese di dicembre dello stesso anno, vennero distribuite armi e si iniziò di fatto a preparare l’attacco.

Quest’ultima è un’osservazione particolarmente importante per comprendere che, qualunque sia stato il momento della decisione finale, la polizia, l’amministrazione e l’esercito erano già operativi e aspettavano il momento più opportuno per attaccare, che non tardò ad arrivare.

Il 6 aprile del 1994, alle 20:30, l'aereo presidenziale su cui viaggiava l'allora presidente Juvénal Habyarimana venne abbattuto da un missile terra-aria mentre era di ritorno, insieme al collega del Burundi Ntaryamira, da un colloquio di pace. Ancora oggi resta ignoto chi fece partire quel missile, anche se le ipotesi più accreditate sembrano ricondurre la responsabilità alle frange estremiste del partito presidenziale stesso, che non accettavano la ratificazione dell'accordo di Arusha con cui si concedeva al Fronte Patriottico Ruandese un ruolo politico e militare importante all'interno della società ruandese.

Ciò che conta è che ufficialmente l’attentato venne attribuito all’FPR e così, subito dopo lo schianto dell'aereo, già durante la notte del 6 aprile, cominciarono i massacri con il pretesto di una vendetta trasversale: tutto era già pronto per il genocidio.

Le vittime venivano scelte per il solo fatto di essere Tutsi, senza esclusione: uomini, donne, bambini, anziani e malati, la cui identificazione fu facilitata dalle carte d’identità introdotte durante il periodo coloniale.

Per 100 giorni si susseguirono massacri e barbarie di ogni tipo e furono massacrate quasi un milione di persone in maniera pianificata e capillare.

Un odio coltivato negli anni

Diversi storici sono d’accordo nel dire che in Ruanda la decisione di procedere al genocidio abbia preso piede in modo simile a quanto avvenuto nell’Olocausto: in altre parole, non poteva che essere questa la sola logica conclusione di una serie di atti preparatori e di pianificazioni più o meno espliciti. Dal momento della rivoluzione del 1959 in poi, il gruppo dei Tutsi viene considerato come un impostore che trama nell’ombra, un perfido speculatore, un parassita.

Nel 1973, il colpo di Stato da parte di Juvénal Habyarimana rafforza il regime e questo ha delle prime conseguenze che suonano come un campanello d’allarme: per isolare “gli scarafaggi Tutsi” viene ordinata la loro deportazione che spesso è accompagnata dalla confisca dei loro beni. Queste prime misure sono seguite da altre che diventano giorno dopo giorno sempre più discriminatorie: vengono infatti emanate le prime leggi razziali e vengono introdotte quote di ammissione nelle scuole, proibendo matrimoni misti, come se non fosse già abbastanza chiara l’idea che le due etnie dovessero rimanere rigorosamente separate l’una dall’altra senza “contaminazione”.

Ad oggi, la questione dell’abbattimento dell’aereo non resta l’unico nodo da sciogliere: tra le critiche emerge anche l’atteggiamento disinteressato della comunità internazionale e, soprattutto, il mancato intervento dell’ONU.

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Laura Rodriguez

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Diritti Umani

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genocidio etnie Massacri colonizzazione