Avere vent'anni in Bosnia Erzegovina

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  Rati Mugnaini Provvedi
  19 aprile 2025
  6 minuti, 17 secondi

Sarajevo – Aprile 2025. Quando si parla di Sarajevo, il pensiero corre subito alle atrocità della guerra del 1992-1995. Oggi quel conflitto sembra lontano, ma le sue cicatrici restano visibili sulla carne viva della città: muri crivellati come corpi mai guariti, memorie che bruciano e tensioni che, a tratti, sembrano riportare Sarajevo indietro di trent’anni. Tra le sue strade cresce una generazione di cui ci siamo dimenticati. Ventenni che non hanno visto le bombe, ma cresciuti tra le macerie lasciate da un equilibrio politico fragile, sotto lo sguardo di una comunità internazionale che veglia da lontano. Abbiano creduto che, infondo per loro andasse tutto bene. Ma il loro più grande sogno – accanto ai progetti personali – è uno solo: essere europei. Come molti paesi che vedono l’integrazione europea, una vera forma di tutela, un orizzonte di stabilità. È il caso di Hind e Antun [nomi di fantasia], entrambi studenti universitari a Sarajevo. Lei di etnia bosniaca musulmana; lui, croato. Ma questa non è l’inizio di una grande storia. È semplicemente la vita di due ragazzi che portano dentro le tracce di un passato ingombrante, ma che si incontrano in un desiderio comune: vivere in un paese che non si accontenta più.

Hind ha ventiquattro anni, occhi verdi bosco e un sorriso rassicurante. Porta un hijab verde victoria che le illumina lo sguardo. Sogna di lavorare all’OIM, l’organizzazione internazionale per le Migrazioni sotto l’egida delle Nazioni Unite. È cresciuta in un piccolo centro a un’ora dalla capitale e ha frequentato la madrasa, dove ha studiato l’islam, matematica, lingue e letteratura. Parla bosniaco, inglese, turco e arabo con disinvoltura. Mi apre le porte di Sarajevo mostrandomi la città vecchia. Sedute davanti a un caffè bosniaco, le chiedo cosa si agura per il futuro della Bosnia. Mi guarda serie e risponde: "Che le gocce di madreperla non ci rappresentino più." Parafrasando: che il dolore non sia più simbolo nazionale. Mi sorride, fruga tra la borsa e mi dice: “Ho un cosa per te”. Mi porge una spilla. La spilla della memoria di Srebrenica: un fiore bianco con il centro verde. Allora, l’enclave della Bosnia occidentale, Srebrenica, era considerata zona protetta secondo la Risoluzione 819 del Consiglio di sicurezza dell’ONU. Nel 1995 furono perpetrate violazioni da parte delle truppe serbo – bosniache, mentre i peacekeeper olandesi, rimasero immobili a guardare - oltre ottomila uomini e ragazzi musulmani persero la vita. Nel 2011 la Corte d’appello dell’Aja ha riconosciuto la responsabilità dello Stato olandese per quelle omissioni. “Le gocce di madreperla rappresentano le lacrime delle madri che hanno perso i loro figli durante il massacro”, dice Hind, mostrandomi dal telefono alcune foto: lei accanto a donne anziane in una casa di cura per madri rimaste sole. Mi racconta le loro storie. “Capisci perché non voglio che il dolore continui ad essere il simbolo di questo paese?”, conclude senza bisogno di aggiungere altro. A seguito di un intervento militare NATO, nel novembre del 1995, furono firmati gli Accori di Dayton, che consolidarono l’accodo già stipulato nel 1994 da bosgnacchi e croati. I rispettivi tre presidenti croati, bosniaci e serbi, firmando gli accordi, cessarono la guerra in Bosna e disegnarono la struttura governativa ancora oggi in vigore. Uno stato, due entità: la federazione di Bosnia Erzegovina e la Repubblica Srpska a maggioranza serba. Ognuno il suo governo, parlamento e forze di polizia. Un Governo centrale che si occupa di politica estera, difesa e immigrazione. Una presidenza tripartita, una per ogni etnia. E la presenza di Alto Rappresentante Internazionale (OHR) cui sono conferiti i poteri di Bonn, cioè di sovraintendere all’attuazione dell’accordo di Dayton, secondo cui può rimuovere funzionari, annullare leggi e imporre decisioni. E in caso di violazioni costituzionali. Hind mi parla della propaganda della Repubblica Srpska che alle volte sfocia in episodi di discriminazione. Ma ci tiene a sottolineare che nonostante questa propaganda, molti giovani prendono la distanza da certe ideologie in quanto l’unico vero bisogno è quello di costruire un paese diverso, meno diviso. “I media, soprattutto in Serbia, tendono a manipolare la situazione. Ma anche in Repubblica Srpska la narrazione mediatica è molto distorta, ma noi giovani aspiriamo all’Europa, abbiamo preoccupazioni di vita diverse e cerchiamo tutti i modi non ripercorrere la strada dei nostri genitori e nonni”.

Antun è un ragazzo di 25 anni, la figura è quella di un diplomatico in divenire: alto, biondo, con lo sguardo attento e il passo deciso di chi sa già dove vuole arrivare. Il suo sogno nel cassetto è quello di lavorare al parlamento europeo. Ci tiene a dirmi che il suo non è un sogno ma un obiettivo. Alla domanda cosa ti auguri per il futuro del tuo paese mi risponde: “Noi non vogliamo guardare l’Europa, vogliamo sentirci parte dell’Europa. L’UE sembra restia a decidere, ma è il momento giusto per cambiare. Rispetto a 30-40 anni fa viviamo meglio, ma dobbiamo cambiare la nostra politica”. L’attuale governo secondo la popolazione locale ha raggiunto più risultati in un solo anno che nei dieci precedenti. Tuttavia, le tensioni sono riemerse quando Dodik, leader della Republika Srpska, ha introdotto leggi che hanno di fatto paralizzato l’operato di Corte, Procura, Alto Consiglio giudiziario, modificando il Codice penale, in particolare le leggi sugli agenti stranieri. Il 26 febbraio 2025, il tribunale della Bosnia Erzegovina lo ha condannato a un anno di carcere e l’interdizione dai pubblici uffici per sei anni. Dodik ha immediatamente respinto il verdetto, parlando di “persecuzione politica occidentale”. Malgrado il mandato di arresto, ha lasciato il paese viaggiando tra Israele e Russia, dove è stato accolto ufficialmente da Vladimir Putin, prima di fare ritorno nella Repubblica Srpska. Il rifiuto dell’Interpol di emettere un mandato di cattura internazionale nei suoi confronti ha sollevato ulteriori interrogativi sul peso della giustizia internazionale. Infatti, la Corte della Bosnia-Erzegovina ha richiesto all’Interpol di rivedere la decisione di rigetto della richiesta di mandato di cattura rosso. La complessa architettura istituzionale post-Dayton: ogni decisione del Parlamento deve ottenere non solo la maggioranza assoluta, ma anche l’approvazione da ciascuna entità costitutiva del paese. Questo meccanismo di "doppia maggioranza" significa, di fatto, che un disaccordo interno a una delle due entità può bloccare qualsiasi provvedimento, anche con un consenso nazionale ampio: “Devi lavorare con loro se vuoi formare un governo o approvare leggi. Non puoi semplicemente dire: Questo è un partito nazionalista serbo, non posso lavorarci. Devi farlo, punto. Anche per approvare il bilancio. Questo è il blocco in cui ci troviamo.” Nonostante tutto, la figura dell’Alto Rappresentante Internazionale, lo rassicura. Mi racconta della zia che afferma di non poter far affidamento solo su Schmidt. Ma lui non la vede così, perché la comunità internazionale ha una responsabilità nei loro confronti. La figura Shmidt ha un peso preciso nell’inquadramento di soddisfare tutti quei requisiti stillati dalla commissione europea, e vorrebbero poter dire e pensare di essere indipendenti senza interferenze, come dice: “Suona bene, ma non realistico. È molto improbabile nel breve periodo. Prima o poi quell’ufficio va chiuso. Finché non cambieremo la nostra Costituzione e il modo in cui prendiamo decisioni, non è il momento. Quando la Costituzione sarà riformata e non ci saranno più possibilità di bloccare tutto, allora sì, potremo chiudere l’Ufficio”.

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Rati Mugnaini Provvedi

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