In Albania, Paese geograficamente e storicamente vicino all'Italia, la violenza contro le donne rappresenta ancora una delle principali forme di discriminazione di genere. La violenza domestica, in particolare, costituisce una grave violazione dei diritti umani, poiché nega alle persone - soprattutto alle donne - il diritto alla sicurezza, alla dignità, alla libertà e all'integrità fisica e psicologica all'interno del contesto familiare. Si tratta di una questione pubblica e strutturale, non solo privata, che richiede quindi una risposta concreta da parte delle istituzioni.
Secondo l'ultimo rapporto del Programma di Sviluppo delle Nazioni Unite (UNDP) in Albania, redatto in collaborazione con le istituzioni pubbliche e le organizzazioni della società civile, il 52,9% delle donne ha subito almeno una forma di violenza domestica nel corso della propria vita. Di queste, il 33,4% ha riportato episodi di violenza psicologica ed emotiva. Considerando che le donne costituiscono circa il 49,5% della popolazione albanese, i dati mostrano che il fenomeno colpisce una donna su due, delineando chiaramente una questione di genere, profondamente legata alla tutela dei diritti umani.
Tradizione e cultura
Ma perché la violenza domestica è ancora così diffusa in Albania? Una parte importante della risposta risiede nel peso del patrimonio culturale e dei modelli sociali tradizionali ancora presenti, soprattutto nelle aree rurali. In molte famiglie, il matrimonio continua a rappresentare un passaggio simbolico in cui la donna entra formalmente nella famiglia del marito, assumendo un ruolo subordinato. È ancora molto diffuso il detto albanese “la figlia lascia la casa dell'estraneo per andare a casa sua”, a indicare che la donna non appartiene pienamente alla sua famiglia d'origine, ma sarà parte integrante di quella del marito, di cui dovrà prendersi cura. In questo contesto, il ruolo femminile è ancora largamente associato alla maternità, e in particolare al partorire un primo genito di sesso maschile, e alla cura della casa e dei figli. In alcune zone, esistono ancora pratiche simboliche, come il gesto di lavare i piedi ai membri anziani e maschi della famiglia, che testimoniano la persistenza di una visione rigidamente gerarchica dei ruoli familiari. In alcune zone, le aspettative nei confronti delle ragazze iniziano fin dalla più tenera età, indirizzandole verso compiti domestici e ruoli subordinati all'interno della famiglia. Queste aspettative sono accompagnate, in molti casi, dall'idea che, una volta cresciute, dovranno chiedere il consenso del futuro marito per prendere decisioni importanti, come se il matrimonio implicasse un trasferimento della loro autonomia all'interno della sfera di controllo maschile.
Non sono soltanto gli uomini a tramandare questa visione tradizionale dei ruoli di genere: anche molte donne, cresciute in questo contesto culturale, interiorizzano l’idea che il figlio maschio rappresenti un valore sociale fondamentale e simbolo di realizzazione personale. Di conseguenza, tendono a rafforzare nel tempo questa dinamica, attribuendo al figlio maschio un ruolo centrale, destinato un giorno a “chiudere il cerchio” accogliendo nella propria famiglia una futura compagna che si prenderà cura anche della madre. Al contrario, alla figlia femmina viene spesso richiesto fin da piccola di apprendere il proprio ruolo all’interno della casa e di servire gli altri membri della famiglia, in vista di un futuro in cui, secondo le aspettative tradizionali, sarà affidata a un altro uomo.
La cultura del silenzio
Oltre alla diffusione del fenomeno, un altro aspetto critico riguarda il silenzio che lo circonda. Secondo lo stesso rapporto dell'UNDP, molte donne non denunciano le violenze subite per paura del giudizio della comunità, della dipendenza economica dal partner o della mancanza di un alloggio alternativo. In alcuni casi, la paura di essere isolate o rifiutate dalla famiglia di origine costituisce un ulteriore ostacolo alla denuncia. Questo clima alimenta una cultura del silenzio che protegge gli autori di violenza e lascia le vittime senza protezione.
I numeri e la legge
Nel 2006, l'Albania ha approvato una legge specifica contro la violenza domestica, che riconosce formalmente la necessità di prevenire e punire tali abusi. Tuttavia, come riportato dall'Osservatorio Balcani e Caucaso, “la legge rimane spesso lettera morta, soprattutto nelle aree rurali”, a causa della scarsa applicazione e delle risorse limitate.
Secondo Amnesty International, molte donne non denunciano per paura di ripercussioni economiche e sociali. Anche quando vengono emessi ordini restrittivi contro gli aggressori, l'applicazione è debole e i rifugi disponibili per le vittime sono ancora insufficienti. Questi limiti evidenziano la necessità di rafforzare il sistema di protezione e di garantire una risposta istituzionale efficace e coordinata.
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L'Autore
Blerina Ymeri
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