Guerra a Gaza…e poi? Un’analisi delle prospettive post-conflitto

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  Sara Oldani
  07 dicembre 2023
  5 minuti

Mentre la guerra asimmetrica tra Hamas e Israele continua da due mesi e le vittime uccise a seguito dell’attacco del movimento radicale palestinese e dei bombardamenti a tappeto dello Stato ebraico sulla Striscia di Gaza ammontano rispettivamente a circa 1200 israeliani e più di 15.899 gazawi, le diplomazie internazionali si interrogano su cosa succederà alla cessazione delle ostilità.

Nonostante gli scontri armati siano tristemente ripresi dopo una settimana di tregua mediata dal “carismatico” Qatar – che ha permesso inoltre lo scambio di 50 ostaggi tra donne e bambini rapiti durante l’incursione delle milizie di Hamas e sue alleate con 150 prigionieri palestinesi detenuti nello Stato ebraico – è importante pensare ad uno scenario post-bellico per costruire una pace giusta, equa, sostenibile e duratura.

Tralasciando i progetti di “fantapolitica” o incitanti ad un vero e proprio sterminio di entrambi i popoli propinati dalle frange più estremiste, si cercherà di vagliare la fattibilità di alcune prospettive di ricostruzione e peace-building. Secondo quanto dichiarato dalla Casa Bianca, è necessario eradicare dalla Striscia di Gaza Hamas in quanto organizzazione terroristica e riportare il territorio sotto il controllo dell’Autorità Nazionale Palestinese (ANP) il cui Presidente è l’ormai anziano e delegittimato Mahmoud Abbas. In seguito, si potrà pensare a tornare al tavolo delle trattative, riprendendo la base degli Accordi di Oslo del 1993 e implementandola per dare luogo finalmente alla soluzione a due Stati.

Questo progetto presenta tre lacune evidenti riguardanti il fronte palestinese, il fronte israeliano e la realtà sul campo. Partendo proprio da quest’ultima, come già sottolineato da numerosi analisti del settore, gli Accordi di Oslo più che favorire la strada verso la stabilità e la pace, hanno di fatto legittimato Israele a militarizzare la Cisgiordania e ad espandere gli insediamenti ebraici nei territori palestinesi che, rimangono puramente sotto un auto-governo (ufficialmente “ad interim” da 30 anni) e a sovranità limitata, con una forza di polizia che controlla in base a Oslo II il 18% della West Bank.

Da parte sua, l’Autorità Nazionale Palestinese che dovrebbe appunto amministrare il territorio ha perso il consenso dei suoi cittadini ormai da anni, in quanto ritenuta il braccio destro di Israele, garante esclusivamente dello status quo e degli interessi elitari del tradizionale partito Fatah. La popolazione palestinese, sia in Cisgiordania che nella Striscia, è ormai scoraggiata dalle modalità democratiche per intraprendere un cambiamento sul terreno e nello loro vite: l’occupazione israeliana si macchia di crimini di guerra e di apartheid come sostenuto dalle principali organizzazioni a tutela dei diritti umani (Human Rights Watch e Amnesty International) e il suo governo – a Gaza con pratiche dittatoriali e in Cisgiordania con un sistema rappresentativo senza elezioni dal 2007 – non li tutela. Proprio per questo si registra, anche nella West Bank, una tendenza ad aderire alla violenza e alla resistenza armata contro l’occupante. Nonostante i riflettori mondiali siano puntati sulla Striscia dove, come ha dimostrato l’attacco del 7 ottobre, le brigate di Hamas e del Jihad Islamico sono solo le più strutturate di un sistema organizzato di milizie armate (altri esempi le brigate Mujahideen, Brigate Al-Nasser Salah al-Deen e altre formazioni minori) che operano all’interno di una Sala Operativa Congiunta che coordina le azioni di queste brigate non solo nella Striscia, ma anche in Cisgiordania. Infatti, le città palestinesi di Nablus, Jenin, Ramallah e Tulkarem sono state oggetto di scontri armati tra milizie e forze di sicurezza israeliane. Allo stato attuale, dunque, pensare di poter eradicare Hamas e il terrorismo dai Territori palestinesi semplicemente nominando un Presidente “fantoccio” per governare Gaza – dopo che perse le elezioni e fu scacciato proprio per quella ragione – è pura utopia.

D’altro canto, il progetto israeliano post-conflitto prevede l’annientamento completo del movimento che governa la Striscia, la formazione di una zona cuscinetto considerata sicura nel nord di Gaza e l’espulsione dei gazawi già indirizzati nel sud della Striscia, verso il valico di Rafah al confine con l’Egitto. La posizione israeliana sul punto non è chiara, in quanto si levano voci diverse in base all’arco politico di appartenenza, tenendo tuttavia conto della maggioranza di estrema destra attualmente al potere; alcune dichiarazioni vanno anche nell’ottica di una rioccupazione e re-insediamento all’interno della Striscia in quanto si ritiene che in questo modo lo Stato ebraico possa meglio controllare la minaccia terroristica. Il premier Benjamin Netanyahu ha infatti parlato di “controllo indefinito israeliano” sulla Striscia. L’amministrazione Biden ha risposto con il rifiuto del progetto israeliano, affermando invece che “il territorio palestinese rimarrà tale e non ci sarà nessuna rioccupazione”.

Gli Stati Uniti si trovano in una posizione davvero complessa, da un lato la relazione preferenziale con il partner ebraico non è esente da ripercussioni sulla postura internazionale della superpotenza e dall’altra il rischio di veti incrociati da parte degli alleati arabi è dietro l’angolo. Rischio che potrebbe già concretizzarsi, dato lo smacco reputazionale che l’Occidente in generale sta avendo per la non gestione della guerra a Gaza: il giornale saudita al-Sharq al-Awsat ha accusato Stati Uniti e Unione europea di utilizzare dei double standards tra le vittime palestinesi e quelle ucraine e di supportare senza se e senza ma la difesa di Israele chiudendo un occhio sulle violazioni del diritto internazionale umanitario delle IDF. Chi risulta sconfitto da questa guerra dunque, non sono solo le migliaia di vittime innocenti e gli sfollati che non hanno più un posto in cui vivere, ma la Comunità Internazionale rappresentativa di un ordine internazionale ormai al collasso. Se è innegabile che gli Stati Uniti abbiano attivato numerosi canali diplomatici, sono però Qatar ed Egitto ad aver contribuito alla tregua di fine novembre. In particolare, il Qatar potrebbe essere l’attore principale, insieme ad altri Paesi arabi interessati, a gestire le prospettive post-conflitto, sintomo di uno spostamento di baricentro mondiale verso est.

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L'Autore

Sara Oldani

Sara Oldani, classe 1998, ha conseguito la laurea triennale in Scienze politiche e relazioni internazionali presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore, sede di Milano e prosegue i suoi studi magistrali a Roma con il curriculum in sicurezza internazionale. Esperta di Medio Oriente e Nord Africa, ha effettuato diversi soggiorni di studio e lavoro in Turchia, Marocco, Palestina ed Israele. Studiosa della lingua araba, vuole aggiungere al suo arsenale linguistico l'ebraico. In Mondo Internazionale Post è Caporedattrice dell'area di politica internazionale, Framing the World.

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