ISIS Foreign Fighters: un problema di sicurezza e di diritti fondamentali [Parte 2]

Il caso dell'Iraq

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  Sara Oldani
  14 marzo 2022
  4 minuti, 46 secondi

Photo credit to "NATO" https://www.nato.int/docu/revi...

La questione del rimpatrio dei foreign fighters dai teatri di guerra di Siria e Iraq – ma non solo – è un aspetto legato alla sicurezza dei Paesi di provenienza dei combattenti, ma anche alla tutela dei loro diritti fondamentali. Nonostante la Global War on Terror, iniziata per convenzione dopo gli attentati dell’11 settembre, abbia molto spesso determinato delle “licenze poetiche” in merito allo stato di diritto, di fronte ad una minaccia di portata transnazionale come il terrore di matrice jihadista, è necessario trovare un equilibrio che permetta di conseguire obiettivi securitari e garanzie giurisdizionali.

In questa analisi cercheremo di illustrare le fragilità del compromesso a cui si è giunti, prendendo come case-study la situazione irachena.

Il mancato rimpatrio: le criticità del sistema penitenziario iracheno

Ad oggi solo il 30% dei foreign fighters europei è tornato nel proprio Paese di residenza. Se escludiamo coloro i quali sono morti in battaglia o coloro che sono migrati in un altro teatro di conflitto (ad esempio Libia e Yemen), il resto dei militanti e delle loro famiglie si trova in detenzione in carceri o campi per persone sfollate tra Siria ed Iraq. I foreign fighters e le loro famiglie sono quindi in un limbo giuridico, senza possibilità di ritornare nel loro Paese di origine né di essere oggetto di un giusto e regolare processo nel Paese di detenzione.

A dimostrazione di ciò, prendiamo come esempio il sistema giudiziario e penitenziario iracheno. L’Iraq, anche a fronte del contesto securitario in cui si versa – comprese crisi economiche e istituzionali – presenta un grave problema di sovraffollamento delle carceri, tanto che alcuni edifici prima utilizzati come scuole o magazzini, sono stati riconvertiti in centri di detenzione ad hoc per i terroristi (o sospetti tali) o anche per criminali generici. Tali centri detentivi sono occupati al 200% della loro capacità, con ovvie conseguenze in merito agli standard igienici, sanitari, per non parlare dell’elevato rischio di proselitismo e di rafforzamento della radicalizzazione da parte dei membri dei gruppi terroristici incarcerati.

Per ovviare nel breve periodo al problema del sovraffollamento, sono state concesse amnistie o riduzioni della pena per i terroristi che non erano combattenti attivi, ma con ruoli di supporto logistico o informativo. Il rilascio di questi individui non ha del tutto risolto la questione del rimpatrio dei foreign fighters - che così avverrebbe a titolo personale, dunque non controllato dal Paese di residenza – né l’inserimento di essi o dei loro “compagni” iracheni nella società. Infatti, proprio in quest’ottica, le autorità irachene hanno delegato alle tribù arabe sunnite l’arduo compito di provvedere alla ricerca dei militanti dell’ISIS ancora liberi e al loro ricollocamento nel tessuto sociale iracheno: le tribù, per quanto abbiano un importante ruolo di mediazione nell’area MENA, non dispongono nel contesto iracheno, dei necessari fondi e competenze per implementare un efficace processo di de-radicalizzazione.

Le criticità del sistema giudiziario iracheno

Per quanto riguarda l’attuazione dei processi dei foreign fighters, sono state sollevate critiche da ONG come Medici Senza Frontiere in merito agli standard di legalità utilizzati dalle autorità irachene. La cornice legislativa utilizzata nei processi è la Anti-Terrorism Criminal Law, secondo la quale sono previste dure pene per chi ha commesso crimini di terrorismo, fino alla pena di morte nel caso dei combattenti attivi. Sulla base di questa legge, sono stati condannati 11 foreign fighters francesi (9 all’ergastolo e 2 alla morte) in quanto la Francia si è rifiutata di rimpatriarli e di prendersene carico. Oltre ad essere una grave lesione dei diritti fondamentali, non sembra produrre risultati determinanti nel medio-lungo periodo come prevenzione della minaccia terroristica. In aggiunta, alcuni attivisti hanno definito i processi come “farsa”, tenuti in corti speciali istituite ad hoc: l’imputato spesso non ha diritto di difesa (non nella sua lingua perlomeno), l’audizione in tribunale dura solo qualche minuto e l’accusa si basa sovente su una confessione estorta in mancanza di prove.

È arrivata una risposta da parte della Comunità Internazionale con l’istituzione del United Nations Investigative Team to Promote Accountability for Crimes Committed by Da’esh (UNITAD), un comitato con base a Baghdad volto a raccogliere chiare e convincenti prove con riferimento agli atti di genocidio commessi dai militanti dell’ISIS nei confronti della minoranza yazida. È sicuramente un passo importante – recepito anche dal Parlamento iracheno – ma non basta, in quanto non risolve alla radice il problema del rimpatrio, dell’eventuale processo e dell’integrazione nella società dei foreign fighters.

Se analizziamo invece il problema dei familiari dei foreign fighters, la situazione è ancora più grave. Essi vengono criminalizzati, lasciati senza prospettive di futuro e molto spesso in balia di eventi tragici. Come riportato da Letta Tayler, Direttrice della divisione crisi e conflitti di Human Rights Watch, donne e bambini dovrebbero essere trattati primariamente come vittime e, se minorenni colpevoli, rimpatriati nei loro Paesi di origine insieme alle madri per perseguire il primario interesse del bambino/adolescente. Come modello per eventuali processi, si potrebbe considerare il caso dei bambini soldato africani (eclatante il caso deferito alla Corte Penale Internazionale) per attuare standard internazionali comuni in materia.

Alla luce della situazione irachena – non dissimile da quella nel nord-est della Siria – è chiaro come la Comunità Internazionale debba farsi carico del problema del rimpatrio e, in seguito, dei procedimenti giudiziari (sia dal punto di vista penale che di giustizia riparativa) dei foreign fighters e delle loro famiglie. Citando Letta Tayler, “governments should be helping to fairly prosecute detainees suspected of serious crimes and free everyone else, not helping to create another Guantanamo”.

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L'Autore

Sara Oldani

Sara Oldani, classe 1998, ha conseguito la laurea triennale in Scienze politiche e relazioni internazionali presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore, sede di Milano e prosegue i suoi studi magistrali a Roma con il curriculum in sicurezza internazionale. Esperta di Medio Oriente e Nord Africa, ha effettuato diversi soggiorni di studio e lavoro in Turchia, Marocco, Palestina ed Israele. Studiosa della lingua araba, vuole aggiungere al suo arsenale linguistico l'ebraico. In Mondo Internazionale Post è Caporedattrice dell'area di politica internazionale, Framing the World.

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