ISIS Foreign Fighters: un profilo sociologico e criminologico [Parte 1]

Il caso dei militanti occidentali in Siria e in Iraq

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  Sara Oldani
  10 marzo 2022
  4 minuti, 41 secondi

Photo credit to "NATO" https://www.nato.int/docu/revi...

Per “foreign fighters” si intende quel folto gruppo di individui, specialmente giovani adulti, ma anche donne, che hanno risposto alla chiamata transnazionale al “piccolo jihad proveniente da uno dei più strutturati ed organizzati gruppi terroristici – Da’esh o Stato Islamico. Si stima che ci siano circa 30 mila foreign fighters attivi e dislocati non più esclusivamente in Iraq e Siria, ma in altri teatri di guerra tra cui Libia, Yemen, nella regione del Sahel e in Africa centrale.

Nonostante la sconfitta territoriale dell’ISIS e la diminuzione sul campo delle reclute straniere a causa della pandemia, il problema dei foreign fighters è una minaccia alla sicurezza sia dei Paesi in cui i militanti hanno combattuto o si trovano incarcerati, sia dei Paesi di origine degli stessi. In questa breve analisi, verranno illustrati i fattori determinanti (per quanto variabili dal singolo caso) che hanno portato alcuni cittadini ad abbandonare le loro vite precedenti e ad arruolarsi nell’ISIS. In seguito, nel prossimo Focus, ci si concentrerà sulle criticità in merito al loro rimpatrio, specialmente nei Paesi occidentali, e ai tentativi di reinserimento nella società.


Chi sono i foreign fighters

La maggior parte degli ISIS foreign fighters proviene dal Nord Africa (6.000 solo dalla Tunisia) e dal Medio Oriente (12.000 in totale); Russia ed ex Repubbliche Sovietiche sono state anch’esse un hub rilevante per i combattenti, con un numero pari a 8.700. Invece, almeno 3.000 provengono da Paesi europei, di cui 1.900 dalla Francia, più di 900 dalla Germania, 850 dal Regno Unito e 480 dal Belgio, mentre l’Europa meridionale e l’Europa orientale sono state meno toccate dal fenomeno.

Cosa ha spinto tali individui ad intraprendere una scelta così totalizzante? La letteratura accademica e i centri di ricerca, attraverso l’analisi comparata dei dati, sono giunti a delle parziali conclusioni: determinante sembra essere la condizione socio-economica relativa, l’età anagrafica, il successo/insuccesso delle politiche di integrazione e di appianamento delle disuguaglianze negli Stati di provenienza. Concentrandoci sui foreign fighters provenienti dall’Europa occidentale, la grande maggioranza dei soggetti è rappresentata da giovani uomini mediamente di 26 anni [il range oscilla tra i 18-29] e da donne, pari al 18%, mediamente di 21 anni. Di questi, per la maggiore sono single, ma un terzo è sposato – parte dunque la coppia – con figli. Si tratta di individui che, all’80% erano cittadini dello Stato che hanno lasciato, musulmani di seconda o terza generazione ai margini della società, con un basso livello di istruzione e problemi di smarrimento identitario e di alienazione.

Il caso francese è emblematico in tal senso: a causa della forzata politica assimilazionista, sull’onda del principio della laicitè illuminista, e dei piani urbanistici delle grandi città, giovani francesi musulmani si sono sentiti esclusi dalla Republique e segregati nelle banlieue. Hanno così trovato un senso di appartenenza nella chiamata dell’ISIS alle armi per costruire uno Stato Islamico, con una società islamica equa e giusta. Inoltre, in Francia, a causa dei suoi lasciti coloniali, vi è un folta comunità musulmana di origine maghrebina (soprattutto algerina): l’avere una così omogenea comunità immigrata o di seconda/terza generazione, vittima di discriminazione e di atti di islamofobia, ha determinato una forte reazione identitaria che in alcuni casi è appunto sfociata nella radicalizzazione, grazie alla propaganda online e al proselitismo tra amici e conoscenti.

Come si evince da questa analisi, l’elemento religioso ha poco a che fare con la scelta di diventare foreign fighters. Bisogna precisare due questioni: la prima è che l’adesione alla causa dello Stato Islamico non ha nulla a vedere con l’Islam come religione per se, ma si tratta di una interpretazione ideologica di stampo estremista volta a perseguire un progetto politico; buona parte dei militanti erano musulmani “sulla carta” e altri – pari al 20% - non avevano nessun legame con l’Islam.

Proprio in merito a questa importante eccezione, si rileva la disparità delle condizioni socio-economiche di alcuni foreign fighters provenienti da Germania e Regno Unito rispetto a Francia e Belgio. Questi militanti infatti sono di buona famiglia, con elevati livelli di istruzione e formalmente senza particolari atteggiamenti devianti. Bisogna comunque tenere in conto che, anche le politiche di integrazione del Regno Unito, non sono state un successo: a differenza del caso francese, si è adottata una policy di tipo “multiculturale” che ha però determinato la nascita di un sistema giudiziario parallelo, con la creazione delle cosiddette Shari’a courts e dell’epiteto Londonistan ad alcuni quartieri delle grandi città britanniche. Per quanto fondato su paradigmi diversi, il permettere l’esistenza di una società parallela - non favorendo così il dialogo tra culture e religioni – ha provocato una lacerazione del tessuto sociale e segregato alcune porzioni di cittadini.

Come si evince da questo breve resoconto, per quanto si possano trovare dei push e pull factors comuni alla chiamata transnazionale dell’ISIS, i motivi che spingono i foreign fighters ad arruolarsi sono tra i più disparati e variano, sia da Paese a Paese, che dai singoli casi specifici. Non è stato possibile giungere all’identificazione di un modello standard per il foreign fighter: il profilo criminologico dell’individuo non sembra essere determinante, in quanto la maggior parte dei militanti era incensurata, e il profilo psicologico non mostra un’attitudine deviante, tranne alcune inclinazioni alla rabbia. Possiamo dunque affermare che “radicalization is a highly complex and individualized process, often shaped by a poorly understood interaction of structural and personal factors”.

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L'Autore

Sara Oldani

Sara Oldani, classe 1998, ha conseguito la laurea triennale in Scienze politiche e relazioni internazionali presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore, sede di Milano e prosegue i suoi studi magistrali a Roma con il curriculum in sicurezza internazionale. Esperta di Medio Oriente e Nord Africa, ha effettuato diversi soggiorni di studio e lavoro in Turchia, Marocco, Palestina ed Israele. Studiosa della lingua araba, vuole aggiungere al suo arsenale linguistico l'ebraico. In Mondo Internazionale Post è Caporedattrice dell'area di politica internazionale, Framing the World.

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