La democrazia dei faraoni e le "elezioni" in Egitto

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  Redazione
  02 marzo 2018
  7 minuti, 19 secondi

Il mese di marzo si avvicina e tutti gli occhi sono puntati sulle elezioni italiane. Tuttavia, marzo non è un mese di elezioni solo per l’Italia, bensì anche per un altro Paese: l’Egitto.

La nuova Costituzione, redatta dopo il golpe militare del 2013 e la deposizione dell’ex Presidente Mohamed Morsi e approvata con referendum popolare nel 2014, prevede un sistema semi-presidenziale in cui il presidente viene eletto ogni quattro anni (con la possibilità di essere rieletto solamente una volta sola) a suffragio universale ( art. 140 cost. eg.). Per vincere le elezioni il candidato deve ottenere la maggioranza assoluta al primo turno e, in caso ciò non accadesse, ci sarà un ballottaggio fra i due candidati che hanno ottenuto più voti.

Sembrerebbe un sistema democratico, ispirato alla forma di governo francese, se non fosse per il fatto che in Egitto una vera e propria libertà politica non esiste. In molti hanno sperato che le cose cambiassero dopo la Rivoluzione del 25 gennaio 2011, ma i militari si sono rimpossessati del potere politico con un controllo ancora più stretto rispetto al regime di Mubarak.

In particolare in queste elezioni, alcuni candidati hanno creduto di poter concorrere per la presidenza contro l’attuale capo di Stato Abd el Fattah el Sisi, ma con scarsi risultati.

Il primo di questi è Ahmed Shafiq. Shafiq è stato un generale delle forze armate aeree, ministro dell’aziazione civile e primo ministro (anche se per solo 11 giorni) durante il regime di Mubarak. Alle elezioni democratiche del 2012 arrivò al ballottaggio con Mohamed Morsi, perdendo contro quest’ultimo per solo 2%. Temendo di essere perseguitato sotto il regime dei Fratelli Musulmani, emigrò negli Emirati Arabi Uniti.

Nel 2017 dichiarò di volersi candidare per le elezioni presidenziali, scaturendo il panico nei vertici militari egiziani perché Shafiq rimane sempre un uomo potente e influente, che può concorrere ad armi pari con el Sisi; ha partecipato ai conflitti arabo-israeliani nel 1967 e nel 1973 quindi gode di un certo carisma, ha modernizzato la compagnia aerea civile nazionale, l’Egyptair, e l’aeroporto internazionale del Cairo, rendendolo uno dei principali successi dell’amministrazione Mubarak e infine, ha contatti molto importanti con l’élite imprenditoriale egizianaEx-General Says U.A.E. Blocks His Return to Egypt to Run for President.

Secondo il suo avvocato, gli UAE, che ricordiamo essere uno dei principali sostenitori di el Sisi, hanno tentato di bloccarlo dal raggiungere l’Egitto per impedirgli di candidarsi, ma il Ministro degli Esteri dell’emirato ha smentito la notizia. Fallito questo stratagemma, sempre secondo il suo avvocato, gli UAE hanno proceduto con il suo arresto per deportarlo in Egitto[2].

Quel che è effettivamente successo è che Shafiq è arrivato al Cairo nel dicembre 2017, non si è recato direttamente al suo domicilio, ma in un albergo, senza la possibilità di avere contatti con l’esterno, e qualche settimana dopo dichiarò pubblicamente di non volersi più candidare per la presidenza perché, essendo rimasto cinque anni fuori dal Paese, non poteva essere la persona giusta. Parole difficili da credere per un personaggio con il suo curriculum, che fanno pensare che l’arresto negli Emirati sia vero e che appena atterrato al Cairo abbia subito le minacce dei servizi segreti egiziani. Tuttavia lui negò tutto ciò, dicendo di aver lasciato liberamente gli Emirati e di essere stato accolto dai familiari all’aeroporto. Da quest’ultima vicenda, Shafiq non fece più dichiarazioni pubbliche.

Un altro candidato che ha fatto tremare le sicurezze di vittoria di el Sisi è Sami Hafez Anan. Anan è stato capo di Stato maggiore delle forze armate dal 2005 al 2012, quando fu rimosso dall’allora presidente Mohamed Morsi. Nel 2018 dichiarò pubblicamente di volersi candidare alle elezioni presidenziali per salvare l’Egitto da “politiche sbagliate” e che il Paese andava incontro a diverse sfide difficili come il peggioramento delle condizioni di vita del popolo e il terrorismo. Inoltre, nel suo discorso disse anche di aver già scelto il suo entourage, esponenti non provenienti da ambienti militari, tra cui Hesham Genena, ex-capo dell’osservatorio anti-corruzione, rimosso da el Sisi nel 2016 dopo aver portato alla luce le perdite derivanti dalla corruzione del governo (ammontanti a 100 miliardi di dollari).

Pronta la risposta delle autorità egiziane che hanno provveduto all’arresto dell’ex generale con le accuse di correre per le presidenziali senza l’approvazione dei militari, di aver falsificato i documenti per la candidatura e di aver fomentato l’odio contro le forze armate [3].

Altre persone che hanno tentato di sfidare el Sisi hanno avuto poca fortuna:

- Mohamed Anwar el Sadat, nipote del presidente assassinato Anwar el Sadat, si è ritirato dopo aver denunciato un ambiente ostile ad una concorrenza genuina e delle intimidazioni verso i suoi sostenitori.

- Khaled Ali, un avvocato di diritti umani, ha indietreggiato anch’egli un giorno dopo l’arresto di Sami Anan, dopo aver spiegato che le speranze in queste elezioni sono svanite.

- Ahmed Konsowa, colonnello nell’esercito che ha esternato la volontà di candidarsi e che subito dopo è stato sentenziato a 6 anni di carcere da un tribunale militare.

Ma se il regime ha arrestato o scoraggiato qualsiasi possibile rivale per el Sisi, come può l’Egitto garantire la sua democrazia di facciata? Semplice, un candidato all’ultimo momento è saltato fuori, Mousa Mostafa Mousa, proveniente dal partito el Gahd (un partito solitamente pro-governativo) e sollevando diverse domande e perplessità. Come può una persona che non ha mai esternato la sua volontà di concorrere alla presidenza, e comunque poco presente nella vita politica del Paese, raccogliere 47 000 firme (il requisito è di 25.000 elettori, da 15 governatorati diversi con un minimo di 1000 sostenitori ciascuno ) a sostegno della sua candidatura in dieci giorni? La risposta è evidente, il regime ha chiuso un occhio sul rispetto delle procedure. Mousa è il simbolo della restrizione della libertà politica in Egitto, rendendo chiaro che le elezioni imminenti siano più una sorta di plebiscito per il presidente el Sisi [4] [5].

È senza dubbio chiaro che el Sisi goda di una posizione di ampio potere, sostenuto sia dall'esercito sia dalle forze di polizia, tuttavia non dovrebbe sottovalutare le conseguenze delle politiche adottate durante il suo primo mandato. È scontato che uscirà vincitore con ampio margine dalle elezioni di marzo, ma potrà davvero continuare indisturbato nella gestione del Paese? Durante questi quattro anni la sua popolarità è drasticamente diminuita dopo che ha svalutato la lira egiziana del 48%, ha optato per la fluttuazione della moneta nazionale e tolto più o meno gradualmente tutte le sovvenzioni sui beni di prima necessità. Queste due ultime decisioni erano condizioni del prestito chiesto, ed ottenuto, dal FMI, che hanno avuto un impatto altamente negativo sulle condizioni di vita della popolazione. Innanzitutto i prezzi sono aumentati a causa della fluttuazione della moneta che ha aumentato il cambio dollaro/lira egiziana che da circa 8 è passato a circa 17,5. Essendo un Paese che importa quasi tutti i suoi beni, il mercato ne ha risentito. Senza contare la svalutazione della lira (attuata per attirare investimenti nel Paese) che ha diminuito il suo potere d’acquisto, dato che gli stipendi sono rimasti invariati. Ad aggravare la situazione è la mancanza di concorrenza in tutti i settori in quanto esistono grandi monopoli ed oligopoli che sono liberi di fissare prezzi alti e spropositati senza temere conseguenze sul mercato.

In secondo luogo, la lotta al terrorismo è stata la bandiera del regime di el Sisi che ha investito tante risorse in essa, promettendo di sradicarlo del Paese. Tuttavia, non sembra comunque essere del tutto efficace visto che svariati attentati hanno colpito sia l’esercito militare sia i civili e la situazione in Sinai rimane ancora assai critica da questo punto di vista.

Altri motivi di scontento sono la grave corruzione dei politici, il mancato investimento in settori base come sanità, istruzione, trasporti e la cessione delle isole di Tiran e Sanafir all’Arabia Saudita.

Ovviamente anche la libertà politica è un problema grave, che però viene sentito dalle persone più benestanti ed acculturate, e, essendo la maggior parte della popolazione povera e poco istruita, la priorità in Egitto è, per usare un’espressione familiare, dare il pane alla gente.

Si possono comunque selezionare alcuni meriti di questa amministrazione: l’allargamento del canale di Suez, la costruzione di una nuova capitale amministrativa, il progetto di una centrale nucleare a scopi civili in collaborazione con la Russia e l’edificazione di diversi ponti.

È improbabile che el Sisi cambi strada dopo la vittoria di marzo perché gode ampiamente del sostegno delle forze militari e poliziesche e di una parte di popolazione che, seppure molto ridotta rispetto al 2014, lo vede come un salvatore della patria; la repressione del malcontento continuerà indisturbata, ma non si dovrebbe sopravvalutare la capacità degli egiziani di sopportare ulteriormente questa situazione.

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