La Repubblica Democratica del Congo è da almeno 30 anni scenario di una violenta e intricata rete di conflitti interni, che vede come attori principali i tanti e diversi gruppi di ribelli armati; vittima è inevitabilmente la popolazione, costretta a fuggire dal paese o comunque ad abbandonare la propria casa: si parla di 6,5 milioni di sfollati interni (dati OCHA), molti dei quali vivono in luoghi sovraffollati e vulnerabili alle malattie.
Il Congo è infatti afflitto da una delle più gravi crisi umanitarie al mondo, poiché – oltre alla costante violazione dei diritti umani – il paese affronta anche l’esplosione dell’epidemia di Mpox, o vaiolo delle scimmie, un’infezione virale che nell’agosto di quest’anno è stata dichiarata dall’Organizzazione Mondiale della Sanità “emergenza sanitaria pubblica di portata internazionale” (PHEIC, ovvero Public Health Emergency of International Concern).
Il filo rosso che segna la storia del paese e sembra determinarne una condanna al conflitto è l’enorme ricchezza in termini di risorse minerarie: l’estrazione di oro, rame, cobalto e coltan è il principale motivo di sfruttamento e di convergenza di interessi non solo locali, ma anche globali, dato che coltan e cobalto sono minerali indispensabili per la produzione di tutti i dispositivi elettronici, dai cellulari ai computer e le macchine elettriche. Non solo, le batterie al cobalto rappresentano l’attuale “alternativa green” alle batterie al litio, implicando che il minerale sarà sempre più richiesto negli anni a venire.
Per questa ragione l’M23 (uno dei più potenti gruppi ribelli, che secondo il governo congolese e vari esperti delle Nazioni Unite avrebbe il sostegno del vicino Rwanda, interessato ad una guerra per procura) ha recentemente stabilito il pieno controllo nei territori del Nord Kivu, dove si trovano le regioni con altissima concentrazione di coltan, e trae da essi un profitto di circa 300.000 dollari al mese.
Lo sfruttamento e il contrabbando di minerali sono diventati lo strumento di oppressione e di potere da parte delle bande di ribelli, in un conflitto che ha le sue radici nell’odio etnico tra i due principali gruppi culturali e religiosi, gli Hutu e i Tutsi, il cui scontro è culminato nel genocidio di quest’ultimi in Rwanda nel 1994.
The Congolese Fight For Their Own Wealth
Il dossier The Congolese Fight For Their Own Wealth, prodotto il 25 giugno 2024 dal Tricontinental: Institute for Social Research – in collaborazione con il Centre Culturel Andrée Blouin, il Centre for Research on the Congo-Kinshasa (CERECK) e Likambo Ya Mabele (Movimento per la sovranità della terra) – mostra che la Repubblica Democratica del Congo è uno dei paesi più ricchi del mondo, tanto che le sue riserve minerarie ancora non sfruttate valgono da sole 24.000 miliardi di dollari, e tuttavia il 74,6% della popolazione vive con circa 2 dollari al giorno, e un congolese su sei vive in condizioni di estrema povertà.
Il motivo è l’impossibilità per la popolazione di controllare la propria ricchezza: questo “furto dilagante”, come viene definito nel dossier il controllo delle ricchezze attraverso lo sfruttamento dei civili, pesa sui congolesi fin dagli anni ’30 del Novecento e non è stato sconfitto nemmeno con la formazione nel 1958 del Mouvement National Congolais, che aveva portato all’indipendenza dal Belgio nel ’60, ma era stato presto neutralizzato (con l’assassinio del suo leader, il panafricanista filocomunista Patrice Lumumba) e reso, di fatto, un governo fantoccio.
Gli interessi economici non riguardano solo la politica interna della RDC: proprio la regione del Kivu è il motivo di relazioni commerciali decennali con altri paesi come il Rwanda e l’Uganda, geograficamente prossimi alla regione, i quali esportano materie prime in Congo ed importano i minerali di contrabbando.
La questione si allarga anche al di fuori del continente: dagli anni ’70 è forte l’ingerenza di istituzioni multilaterali come la Banca Mondiale e il Fondo Monetario Internazionale (FMI), che impongono politiche neoliberiste come requisito per ricevere prestiti, devastando l’economia locale. Nel 2002 una nuova formulazione del diritto minerario in RCD ha agevolato le compagnie di estrazione provenienti dagli Stati uniti e dall’Europa, con tassazioni favorevoli, incentivi per l’esplorazione e la possibilità di aggirare le normative su lavoro e ambiente.
L’area è poi diventata di grosso interesse per l’economia cinese, aggiungendo un altro attore sulla scena.
La presenza dell’ONU
Il 20 giugno 2024 il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni unite (UNSC) ha rilasciato una dichiarazione alla stampa, dove si condannava “con la massima fermezza” le violenze ai danni della popolazione civile nella RDC. Le nazioni unite sono presenti sul territorio con una missione dei caschi blu, la MONUSCO (Missione dell’Organizzazione delle Nazioni Unite per la Stabilizzazione in RD Congo).
Questa, in varie forme, è attiva dal 1999, ma è considerata da molti fallimentare: nonostante siano presenti proprio del nord-est del paese, centro principale del traffico illegale di minerali, le forze dell’ONU non sembrano avere il potere di interrompere la rete di contrabbando e sfruttamento. Anche per questa ragione, il governo congolese ha richiesto il ritiro della missione, avviato ad aprile nel Sud del Kivu, nonostante la responsabile della MONUSCO Bintou Keita abbia dichiarato all’Assemblea Generale dell’ONU che i gruppi armati “stanno peggiorando la precaria situazione della sicurezza e la stabilità nella Repubblica Democratica del Congo e nella regione e aggravano ulteriormente l’attuale situazione umanitaria”. La responsabile ha chiesto anche che vengano imposte sanzioni internazionali
In agosto il UNSC ha adottato una risoluzione che richiede il sostegno da parte della MONUSCO all’altro progetto delle nazioni unite attivo in Congo, la Missione Comunità di Sviluppo dell’Africa Meridionale nella RD del Congo (SAMIDRC), avviata nel dicembre 2023.
Le voci dei congolesi
La situazione attuale non vede risvolti positivi nel breve periodo. Ricordandoci che nelle lotte di potere sono sempre le persone a perdere tutto, riportiamo la conclusione del dossier citato sopra, dove le voci di attiviste e attivisti congolesi hanno trovato lo spazio per esprimere quelli che credono essere gli otto punti fondamentali per la loro liberazione: protezione della terra, autonomia economica, ricostruzione delle relazioni sociali, giustizia di stato, dignità, educazione al pensiero critico, produzione e diffusione della cultura congolese, creazione di collettivi di e per i cittadini.
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L'Autore
Emma Zurru
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