La voce bianca dell'editoria

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  Francesca Bellini
  24 settembre 2022
  4 minuti, 14 secondi

Nel 2018, sugli scaffali delle librerie di gran parte del mondo è apparso per la prima volta il libro “Barracoon. L’ultimo Schiavo”. Sfortunatamente però, la sua autrice Zora Neale Hurston non è mai riuscita a vederne la pubblicazione. Il libro, infatti, è stato originariamente completato nel 1927, ma ha dovuto aspettare ben novant’anni prima di ottenere l’approvazione per essere diffuso. Il testo è composto da una serie di interviste, raccolte in prima persona da Hurston, per raccontare la storia di Cudjoe Lewis, uno fra gli ultimi sopravvissuti alla tratta schiavista condotta tra l’Africa e gli Stati Uniti. La storia, vera e “scomoda”, è stata la causa del silenzio durato così a lungo. Analogamente, le pubblicazioni sulla segregazione urbana scritte da W.E.B Du Bois, sociologo e attivista afroamericano vissuto nella prima metà del Novecento, hanno impiegato anni prima di essere accettate e riconosciute dal mondo accademico occidentale. Il potere, infatti, si può esprimere in molteplici forme e, spesso, trova modalità silenti e invisibili per attualizzarsi. Il diritto di parola è un esempio di potere nascosto. Si chiama diritto, ma abbiamo tutti la stessa capacità di voce e la stessa risonanza? Secondo un’indagine pubblicata dal PEW Research Center, nel 2020 il 77% dei giornalisti negli Stati Uniti erano bianchi. Analogamente, un report del National Council for the Training of Journalists (NCTJ) ha dimostrato che, nello stesso periodo, i giornalisti bianchi nel Regno Unito ammontavano al 94% (Thomson Reuters Foundation, 2020).

Il cosiddetto “soft power”, ovvero l’abilità di captare e indirizzare gli interessi della popolazione, è sicuramente esercitato anche dal mondo dei media, e da quello accademico e culturale. Il potere di produrre informazione, dunque, può rivelarsi come abilità di incoraggiare certi valori o idee. Essendo un potere, è anche un privilegio riservato a pochi, e non tutti vi hanno accesso. Ancora oggi certe minoranze restano o fortemente sottorappresentate oppure radicate a narrazioni stereotipate. Kurt Barling, professore di giornalismo alla Middlesex University di Londra, ha denunciato l’ipocrisia con cui certe testate giornalistiche e televisive assumano una persona di colore, pensando che quel singolo individuo possa rappresentarne l’intera popolazione, come se una minoranza abbia un solo punto di vista limitato e basti un singolo per esprimerne la totalità (Thomson Reuters Foundation, 2020).

L’antropologa Heath Cabot ha riflettuto sulle rappresentazioni che vengono fatte nei confronti dei gruppi minoritari, con particolare riferimento ai rifugiati. L’antropologa sottolinea come tali gruppi siano ritratti dai media quasi esclusivamente con un tono drammatico, che ne enfatizzi la sofferenza e il dolore. Questa modalità di produzione di cultura viene fortemente contestata da Cabot che riflette su come queste rappresentazioni non facciano che “de-umanizzare” i migranti che vivono simili esperienze, non più considerandoli per le loro singolarità e differenze, in quanto individui, ma al contrario ritraendoli come un’unica “sfortunata” categoria, destinata a rimanere subordinata e vittima (Cabot, 2020). Allo stesso modo, Coral James O’Connor, ricercatrice alla City University of London, ha studiato come le storie delle persone di colore siano raramente raccontate dai media e, nelle poche volte in cui ciò accade, il focus è quasi sempre rivolto ad aspetti negativi (Thomson Reuters Foundation, 2020). Mancano testimonianze positive che raccontino i successi degli uomini e delle donne migranti che ce l’hanno fatta o dei traguardi ottenuti da individui appartenenti ad una minoranza. Il rischio di una narrazione così “drammatica” che estremizzi la tragicità, per poi venderla in copertina, è che ci si dimentichi che gli individui appartenenti alla minoranza di cui si sta parlando non sono una categoria di “vittime”, lontana da noi, ma invece esseri umani che vivono nel nostro tempo e che hanno molto più in comune con noi di quanto vorremmo credere. (Ramsey, 2019). 

È dunque necessaria una riflessione più accurata, che riconsideri non soltanto i toni della narrazione, ma anche con quale autorità vengano dette certe cose. Per troppo tempo i media occidentali si sono fatti carico del “fardello dell’uomo bianco”, coniato da Kipling alla fine dell’Ottocento, rendendosi portavoce di “chi non aveva voce” e illuminando gli “invisibili”. Nel mondo, però, non esistono né invisibili né senza voce, ma individui “non visti” e “non sentiti” e, nell’etichettarli come tali, ci prendiamo il loro spazio. È arrivato forse il momento di pensare che, per proclamare il diritto di parola e un’informazione più giusta, sia necessario condividere il microfono.

Bibliografia:

Cabot, Heath, 2019. The Business of Anthropology and the European Refugee Regime. American Ethnologists, Vol 46

Ramsay, Georgina, 2019. Time and the other in crisis: How anthropology makes its displaced object. Anthropological Theory.

Thomson Reuters Foundation, 2020. “Gli afroamericani contestano i pregiudizi dei giornalisti bianchi”, in Internazionale, [https://www.internazionale.it/video/2020/07/23/neri-pregiudizi-giornalisti-bianchi]

https://www.pexels.com/it-it/f...

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L'Autore

Francesca Bellini

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Diritti Umani

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