Libia, le fosse comuni: testimoni silenziosi del traffico di esseri umani e campi di detenzione

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  Ludovica Raiola
  31 marzo 2024
  3 minuti, 33 secondi

L’ultima scoperta in Libia, nella valle di al-Jahriya a circa 421 chilometri a sud di Tripoli, di 65 corpi gettati in una fossa comune riapre una pagina preoccupante della storia libica, che dà luce alla profonda crisi migratoria che divaga nel paese e che lo trasforma in un teatro di violazioni silenziose di diritti umani su milioni di vite.

Da anni la Libia rappresenta una delle principali rotte per i migranti provenienti da altri paesi, come il Sudan, l’Etiopia, il Ciad o il Niger, che vogliono raggiungere le coste del mar Mediterraneo per attraversarlo e tentare di arrivare in Europa. Ma, per molti di questi individui, la Libia non è un luogo di transito, bensì un limbo disumano in cui vengono sfruttati, abusati e spesso lasciati a morire senza nome o sepoltura dignitosa. Infatti, è una zona di intensa attività da parte dei trafficanti di esseri umani, chiamati persino ‘gli scafisti delle dune’, che, traendo anche profitto dal dilagato caos politico libico, organizzano e gestiscono i lunghi e rischiosi viaggi dei migranti, il più delle volte attraverso i confini desertici: una rotta che si è rivelata spesso mortale.

«I migranti ci dicono che il deserto è un cimitero molto più esteso del Mediterraneo». Queste sono le parole di Alberto Preato, rappresentante dell’Organizzazione Internazionale per le Migrazioni (OIM), pronunciate nel 2017, mentre si riesumavano altri corpi umani da alcune fosse comuni ritrovate in quel periodo. Secondo alcune testimonianza raccolte dall’OIM proprio nel 2017 e da diverse ONG e reti sociali negli ultimi tempi, migranti e rifugiati vengono venduti e comprati e sono costretti a richiedere ingenti somme di denaro alle proprie famiglie, mentre subiscono svariate tipologie di torture, da quelle fisiche a quelle psicologiche, con una limitazione evidente dei propri diritti in quanto esseri umani. Per quanto riguarda le donne, queste ultime sono solite subire aggressioni sessuali, stupri e, il più delle volte, sono costrette a diventare schiave sessuali. Gli individui che non sono in grado di pagare vengono uccisi o lasciati morire di fame.

I migranti e i rifugiati che sopravvivono e che riescono a lasciare la Libia, se intercettati in mare dalla Guardia costiera libica, vengono riportati indietro e, in conformità con la Legge n. 19 del 2010 sulla lotta all’immigrazione illegale, che criminalizza l’ingresso e la permanenza dei migranti in Libia, vengono trasferiti in dei centri di detenzione.

Una missione d'inchiesta indipendente ONU, dopo anni di indagini, lo scorso marzo ha dichiarato che non vi è alcun dubbio che i migranti e i richiedenti asilo soffrano condizioni disumane, tortura, lavoro forzato, maltrattamenti e aggressioni sessuali nella detenzione arbitraria e indefinita controllata sia dai Ministeri dell'Interno orientali e occidentali, sia da strutture controllate da trafficanti di esseri umani. Sono stati numerosi, inoltre, i casi di collusione fra le autorità libiche, gruppi armati nominalmente integrati nelle forze di sicurezza e organizzazioni criminali, infatti «lo sfruttamento dei migranti è indubbiamente fra i business più lucrativi dell’economia di guerra della Libia», secondo quanto detto dalle Nazioni Unite.

Un altro importante passo del report della missione dell’ONU getta un’ombra sulla modalità di gestione dell’immigrazione dell’Unione Europea: quest’ultima e i suoi Stati membri sembrerebbe abbiano fornito, direttamente o indirettamente, sostegno monetario e tecnico per attrezzature, come imbarcazioni, alla Guardia costiera libica e alla Direzione per la lotta alla migrazione illegale che sono state utilizzate nel contesto dell’intercettazione e della detenzione dei migranti, incoraggiando la commissione dei reati che vengono perpetrati all’interno dei centri di detenzione.

Mentre queste atrocità continuano a emergere, è chiaro che il finanziamento, piuttosto che l'effettiva azione per fermare tali violazioni dei diritti umani, non è più una soluzione: si richiede un controllo dell’immigrazione regolare, nel rispetto del principio di non respingimento e del Patto globale per una migrazione sicura, ordinata e regolare come inizio di un cammino di stabilizzazione della Libia.

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L'Autore

Ludovica Raiola

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Diritti Umani

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#dirittiumani #crisimigratoria #nazioniunite United Nations migration crisis