Migranti e rifugiati in Libia: una giustizia che tarda ad arrivare

Quanto ancora bisogna aspettare per un’azione che ponga fine a queste inutili sofferenze?

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  Laura Rodriguez
  29 novembre 2022
  4 minuti, 41 secondi

Non è un tema nuovo quello che riguarda la violazione dei diritti umani nel caso di fenomeni quali la migrazione o la permanenza in centri di detenzione, così come non è nuova la volontà degli attori internazionali di far fronte ad abusi di questo genere. Nonostante gli sforzi, sembra esserci ancora tanto su cui lavorare e su cui riflettere.

Dallo scoppio della guerra civile in seguito alla caduta del regime di Gheddafi in Libia nel 2011, numerosi sono stati i soggetti che hanno cercato di trovare salvezza decidendo di percorrere la pericolosa rotta del Mediterraneo centrale. Le dinamiche commesse alla detenzione e allo sfruttamento di questi individui rendono sempre più urgente una riflessione sul ruolo chiave che può e deve giocare la Corte Penale Internazionale in un contesto così tanto delicato. Se vi state chiedendo perché proprio la CPI e non un qualsiasi altro Tribunale nazionale, la risposta è molto semplice quanto tristemente esemplificativa: le condotte alle quali stiamo facendo riferimento non riguardano semplicemente la commissione di reati ordinari, ma al contrario, possono essere identificate come crimini di guerra e crimini contro l’umanità, vale a dire crimini internazionali. E perché è così importante riuscire a riconoscerne la rilevanza internazionale? Banalmente per capirne la portata e il peso per la comunità internazionale nel suo complesso, essendo questi maltrattamenti una vera e propria violazione dei valori cosiddetti “fondamentali” e che riguardano quindi il genere umano nella sua totalità.

È pur sempre vero che il bicchiere può essere visto mezzo pieno o mezzo vuoto, vale a dire che anche in questa triste storia si possono apprezzare dei piccoli (purtroppo non così significativi) passi in avanti nel corso degli anni. Diversi sono stati i processi portati avanti da parte di Stati terzi come Francia, Italia o Paesi Bassi nel tentativo di giustiziare i colpevoli dei reati anche se, essendosi concentrati solo su episodi specifici e su individui di scarsa importanza nella gerarchia politica, hanno avuto un impatto alquanto insignificante. Rimane comunque l’importanza simbolica di questi procedimenti che dimostrano, seppur in maniera minima, quanto la comunità internazionale non sia totalmente cieca di fronte a ciò che sta succedendo. Diverse sono state poi le iniziative prese da parte di altri attori, in particolare quegli organismi più sensibili a tematiche di questo tipo come organizzazioni non governative e organizzazioni internazionali. Più nel dettaglio, risulta di una certa risonanza la comunicazione presentata nel novembre del 2021 da parte di 3 ONG quali European Center for Constitutional and Human Rights (ECCHR), International Federation for Human Rights (FIDH) e Lawyers for Justice in Libya (LFJL); se è valido il detto “l’unione fa la forza”, esse hanno ben pensato di raggruppare le proprie energie e convogliarle nel tentativo di portare all’attenzione del procuratore della Corte Penale Internazionale la sempre più grave situazione in Libia, richiamandone un intervento quanto prima possibile.

Ma chi sono i colpevoli che hanno contribuito (e continuano in parte a farlo) al perpetuarsi e all’aggravarsi degli eventi in questione? Sono davvero solo le autorità libiche o si può parlare di un concorso di responsabilità? È sicuramente difficile dare una risposta che risulti soddisfacente, tuttavia è chiaro quanto anche l’Unione Europea (come attore unitario) e i singoli Stati possano ritenersi in parte coinvolti. Le tre organizzazioni, infatti, all’interno del report a sostegno della loro comunicazione alla CPI hanno poi inserito chiari riferimenti all’effetto provocato tanto dalle politiche di respingimento dei migranti verso le coste della Libia quanto dalle politiche di esternalizzazione di controllo delle frontiere messe in atto. Proprio per il comportamento dell’UE stessa, non può e non deve essere considerato solo un problema che riguarda i più alti vertici politici e militari dello Stato libico, ma al contrario, va valutato ogni singolo impatto sulla questione.

Dagli sviluppi più recenti sembra di poter scorgere in lontananza un piccolo spiraglio di luce in fondo al tunnel. Infatti, il neo-procuratore della Corte Penale Internazionale Karim Khan è stato il primo nella storia della CPI a recarsi in visita in Libia segnando un evento più unico che raro. Non un viaggio così felice, ma senz’altro un segnale forte che sottolinea la rinnovata volontà della comunità internazionale di voler agire e prendere misure per fermare tali abusi. Khan ha raccontato di aver visto cose strazianti, riportando le parole agghiaccianti emerse durante i dialoghi con diversi familiari delle vittime: c’è chi ha perso più di un membro della propria famiglia e chi, invano, cerca ancora di scoprire che fine ha fatto il corpo del proprio figlio per poter almeno piangere sulla sua tomba. Queste famiglie, queste persone, questi esseri umani chiedono di più: vogliono giustizia. E se è vero che sono stati raccolti nuovi dati che proverebbero il collegamento tra i maltrattamenti ai danni di migranti e rifugiati e il conflitto stesso, questo non vuole essere un punto di arrivo, tutt’altro. Da qui bisogna ripartire.


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