Minimum Global Tax: intesa storica o progetto irrealizzabile?

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  Davide Bertot
  13 ottobre 2021
  5 minuti, 35 secondi

Il 1° luglio 2021, l’accordo sulla tassa minima globale è stato firmato dai 131 Paesi aderenti all’Inclusive Framework dell’Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico (OCSE). Pochi giorni dopo, durante la riunione dei ministri delle finanze dei Paesi del G20 a Venezia, questa proposta è stata riconfermata, portando il ministro delle Finanze tedesco Olaf Scholz a definirla “un’intesa storica”.

Ma di cosa si tratta? Ed è davvero un risultato così eclatante?

Il contenuto

L’accordo, che idealmente dovrebbe entrare in vigore nel 2023, prevede di istituire una tassa minima globale del 15% sugli utili di tutte le imprese con fatturato superiore ai 750 milioni di dollari. Questo viene unito a una regolamentazione comune sulla tassazione alle grandi multinazionali, ovvero le imprese con fatturato di oltre 20 miliardi di dollari e margini superiori al 10%. In questo caso, circa il 20-30% dei profitti in eccesso sarà tassato negli Stati in cui tali società generano ricavi, rendendo di fatto ogni Paese depositario di un “diritto di tassazione” sui profitti delle multinazionali e sarà proporzionale alle vendite realizzate da queste nel proprio territorio.

È stimato che questa riforma, unione della tassa minima e delle imposte alle multinazionali nei mercati di vendita (e non solo dove è registrata la sede legale), genererà circa 250 miliardi di dollari annui di entrate per le nazioni coinvolte. Questo si lega a un altro grande obiettivo della risoluzione: arginare l’annoso problema dei paradisi fiscali e dell’arbitraggio fiscale, ovvero la possibilità di spostare sedi legali da Paesi ad alta tassazione a quelli a bassa tassazione, che ha portato negli ultimi decenni al dirottamento del 40% dei profitti complessivi delle multinazionali. Con un’applicazione rigorosa della proposta, invece, si potrebbe bloccare l’erosione della base imponibile e ricavare un ritorno economico là dove le aziende operano e vendono, con lo scopo di rendere globalizzate non solo l’imprenditoria ma anche le entrate per gli Stati.

Nonostante i fautori di questa tassa siano insoddisfatti del risultato finale (con una tassa ben lontana dall’obiettivo iniziale del 21%) e lamentino scappatoie legali che potrebbero ridurne l’efficacia, è dunque chiaro che questo sia un caso senza precedenti di cooperazione e coordinamento transnazionali.

Le prospettive

La proposta è partita dall’amministrazione statunitense che, durante la presentazione del suo piano di investimenti da 2.000 miliardi di dollari, ha anche avanzato un progetto di imposizione minima globale al 21% (una tassazione doppia sui guadagni esteri delle grandi corporazioni rispetto ad oggi). Ma se per Joe Biden e Janet Yellen, la sua segretaria del Tesoro, questa mossa ha come primo obiettivo quello di finanziare le spese dell’ambizioso programma di finanziamenti pubblici americano, una proposta del genere ha rapidamente avuto una risonanza globale: la Casa Bianca ha inviato il suo dossier ai Paesi dell’OCSE, la maggior parte dei quali si sono mostrati entusiasti all’idea di un’aliquota minima accettata da tutti che potesse sostenere le economie gravemente colpite dalla pandemia.

Anche il Fondo Monetario Internazionale (FMI) si è detto subito favorevole, e il vicedirettore generale Geoffrey Okamoto l’ha chiamata “una vittoria netta per il mondo”, anche considerando che i membri del G20 rappresentano l’80% del PIL mondiale, il 75% del commercio globale e il 60% della popolazione del pianeta, e includono pezzi grossi come Stati Uniti, Giappone, India, Regno Unito, Francia e Germania. Questi ultimi hanno un ulteriore motivo per sostenere questa tassa, dal momento che sono le più grandi economie europee e, di conseguenza, l’Europa guadagnerebbe dalla riforma più degli stessi USA: se gli Stati Uniti potrebbero riappropriarsi di circa un quarto dei profitti totali spostati dalle multinazionali nei paradisi fiscali, per l’UE sarebbe circa un terzo, con un guadagno di almeno 50 miliardi di dollari annui.

Le resistenze

Benché questa tassa abbia grandi prospettive di entrate pubbliche e di lotta ai paradisi fiscali, non mancano di certo le criticità e le frizioni sia tra i favorevoli sia con il resto del mondo.

Un elemento su cui è mancata l’intesa sono state le eccezioni: il settore estrattivo, dei trasporti marittimi e dei servizi finanziari (in parte) sono stati esclusi, portando le aziende coinvolte dalla riforma a essere al momento “solo” quelle tecnologiche, farmaceutiche e della moda (circa un centinaio). Inoltre, Stati Uniti e Unione Europea non trovano un accordo sulla cosiddetta web tax: gli USA vorrebbero che con l’introduzione di questa nuova fonte di gettito l’Europa eliminasse la tassa presente in molti Paesi dell’Unione a danno di aziende statunitensi come Facebook e Google, mentre l’UE vorrebbe conservarla e piuttosto ridurre la nuova aliquota unica che danneggia alcuni dei suoi Stati membri contrari all’intero progetto.

Infatti, un altro grande problema sono le resistenze interne; la nuova tassa è molto dibattuta al Congresso americano, dove corporazioni e individui facoltosi mettono pressione affinché la proposta venga rifiutata o almeno ridimensionata. Allo stesso modo, in Europa c’è una sacca di resistenza di quei piccoli Paesi che si sono comportati finora come paradisi fiscali, più in particolare l’Estonia (dove i profitti reinvestiti non vengono tassati), l’Ungheria (che tassa le imprese appena al 9%), la Bulgaria (che le tassa al 10%) e l’Irlanda (che le tassa al 12,5%). Con l’introduzione dell’aliquota unica, questi Stati (così come molti altri nel mondo) perderebbero gran parte della loro attrattiva internazionale e vedrebbero il loro gettito fiscale diminuire grandemente, portandoli a opporsi e a far pressione per non perdere il loro vantaggio competitivo nei mercati finanziari.

Infine, ci sono le lamentele di chi avrebbe voluto una tassa più ambiziosa, di chi pensa che ci siano altri problemi più pressanti da risolvere (in Italia, molti economisti sostengono che la lotta all’evasione e una riforma del fisco sarebbero campagne più redditizie) e di chi vuole una legge più dettagliata e semplificata per permettere anche ai Paesi più poveri di adottarla senza troppa opposizione.

Tuttavia, al netto delle imperfezioni e delle ulteriori modifiche che la proposta dovrà subire prima di essere adottata dai singoli Stati, siamo di fronte a un grande ritorno al multilateralismo, specialmente dopo la presidenza Trump, che aveva idee molto diverse in materia di tassazione e di cooperazione internazionale. L’Europa ha dimostrato ancora una volta di non essere in grado di prendere l’iniziativa senza il supporto statunitense, ma questa riforma rimane senza dubbio un’intesa storica i cui effetti benefici saranno percepibili per molto tempo a venire.

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Davide Bertot

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