Privatizzazione o Nazionalizzazione? La scelta italiana

Come il nostro Paese vuole gestire il debito pubblico

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  Cecilia Boni
  14 ottobre 2024
  2 minuti, 47 secondi

Lo scorso mese si è svolta un’intensa discussione all’interno del Governo riguardo alla vendita di una quota dell'azienda Poste Italiane. L’intento è quello di cedere il 15% dell'azienda, mantenendo comunque il 50% di controllo, con un potenziale incasso di almeno 2,5 miliardi di euro.

Questa non è la prima volta che lo Stato attua vendite di partecipazioni. Negli scorsi mesi, infatti, sono state cedute il 2,8% delle azioni di Eni per 1,4 miliardi di euro e il 25% di Monte dei Paschi di Siena per 920 milioni. In linea con questa strategia, si prevede anche la vendita del 30-40% delle Ferrovie dello Stato per un valore di circa 5 miliardi di euro, del 15% di Rai Way per 200 milioni e quote di altre aziende come Enel, Leonardo e Snam.

Ci troviamo di fronte a un piano di privatizzazione proposto dallo Stato per contribuire a risanare, almeno parzialmente, il pesante debito pubblico del Paese, che supera i 2.950 miliardi di euro. La privatizzazione è un processo giuridico-economico che trasferisce la proprietà di un ente o di una società dal controllo statale a quello privato, opposto della nazionalizzazione. Teoricamente, i vantaggi di una privatizzazione sono duplici: da un lato si riducono le spese statali di gestione e si ottiene un introito dalla vendita; dall'altro, si presume una maggiore efficienza gestionale da parte del settore privato.

In passato, l'Italia ha già adottato politiche di privatizzazione, in particolare tra gli anni '90 e 2000, privatizzando asset industriali per circa 160 miliardi di dollari. Queste privatizzazioni erano motivate non solo dalla necessità di "fare cassa" per ridurre il debito pubblico, ma anche da una strategia di politica industriale, con l’idea che la vendita ai privati avrebbe reso le imprese pubbliche più efficienti, rafforzando così il tessuto produttivo del Paese. Tuttavia, si è assistito anche alla diminuzione o al ridimensionamento di importanti aziende private come Fiat, Olivetti, Montedison, Pirelli, Falck, Condotte e Astaldi. La Cgil si oppone fermamente a questo progetto, considerato principalmente un’operazione per fare cassa.

Le vendite proposte dal Governo Meloni potrebbero generare circa 20 miliardi di euro, destinati a contribuire al risanamento del debito pubblico. È però importante sottolineare che risanare un debito di quasi 3.000 miliardi con 20 miliardi non è realistico, poiché questa cifra rappresenta solo lo 0,67% dell'intero debito. Sebbene l'operazione possa portare benefici nel breve termine, nel lungo periodo potrebbe tradursi in perdite significative, poiché lo Stato rinuncerebbe a una parte consistente degli utili di aziende strategiche, di cui ha bisogno.

In conclusione, siamo di fronte a una realtà segnata dalla propaganda politica, lontana dalle azioni concrete necessarie per tutelare e rilanciare il sistema industriale del Paese. Manca una visione strategica e sistemica per orientare il mercato, costruire filiere nei settori cruciali e creare catene del valore capaci di far crescere l'economia e generare occupazione stabile e professionale, affrontando le molte crisi aziendali già in atto.

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