Quanta immunità otteniamo da un'infezione COVID?

Le evidenze di un nuovo studio

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  Redazione
  08 settembre 2023
  6 minuti, 28 secondi

A cura del Dott. Pierpaolo Piras, Specialista in Otorinolaringoiatria e componente del Comitato per lo Sviluppo di Mondo Internazionale APS

Fin dai primordi della medicina scientifica, ogni malattia ha posto molteplici interrogativi, alcuni dei quali tuttora non hanno trovato risposte conclusive.

Ultimamente, l’epidemia del COVID e le successive ondate recidivanti, si tratti di una prima, seconda o anche terza ondata, molti di noi si sono chiesti per quanto tempo ancora siamo protetti nel caso di una reinfezione e se siamo suscettibili – e nel caso in quale misura - a nuove varianti? Inoltre, se ammalandoci nuovamente di COVID, l'immunità che abbiamo precedentemente acquisito dall’infezione pregressa sarà in grado di ridurre gli effetti clinici e la gravità della infezione successiva?

In riferimento al Covid, numerosi scienziati e importanti centri di ricerca di livello mondiale hanno ripetutamente cercato di dimostrare una qualche verità di fronte a quesiti d’importanza così cruciale per la salute dell’umanità.

E’ così che si è proposto di rispondere a queste domande, esaminando in primis la forza e la durata della reazione immunitaria naturale nei confronti di ogni variante COVID.

A tale proposito, la Food and Drug Administration (FDA) ha raccolto numerosi dati, riportati da oltre 65 studi di ricerca eseguiti in 19 paesi, qualificandola come la più corposa revisione scientifica su questo argomento fino ad oggi.

In ognuno di tali studi sono state messe a confronto due popolazioni di soggetti, ovvero confrontando il rischio di malattia da COVID tra i malati che erano stati infettati in precedenza vs coloro con anamnesi negativa per una pregressa infezione.

Nell’ambito di tale ricerca, sono stati deliberatamente esclusi gli studi intesi ad esaminare l'immunità naturale ma in combinazione con la vaccinazione (immunità ibrida).

I ricercatori miravano a valutare se l'infezione inducesse una protezione immunitaria simile contro la reiterazione dell’infezione anche con le diverse varianti che sono succedute e se questo fenomeno diminuisse in forme differenti nel tempo.

Le analisi hanno riguardato gli studi dall'inizio della pandemia fino all’autunno del 2022 e hanno riguardato principalmente le varianti alfa, beta, delta e omicron BA.1.

Protezione dalla reinfezione

Gli autori hanno valutato separatamente la protezione contro la reinfezione, la malattia solo sintomatica e la malattia grave (definita come tale solo nei casi ospedalizzati oppure seguiti dal decesso del Paziente).

I risultati

Il risultato sperimentale ha posto in evidenza che l'infezione precedente era stata altamente protettiva nei confronti della reinfezione avvenuta con le varianti virali alfa, beta e delta, ma meno rispetto all'Omicron BA.1.

Una precedente infezione ha fornito una protezione moderata dalla reinfezione con omicron BA.1 in misura del 45%, rispetto a una protezione più forte contro le varianti pre-omicron (82%).

Lo stesso risultato è stato dimostrato anche nei casi d’infezione asintomatica.

I dati degli studi protratti a lungo termine hanno poi mostrato che la protezione contro la reinfezione per le varianti pre-omicron è scesa al 78,6% in 40 settimane, mentre per l’omicron BA.1 è diminuita più rapidamente sui valori del 36,1%.

Nel valutare l’incidenza della malattia in forma grave, tuttavia, tutte le varianti hanno mostrato una protezione sostenuta superiore all'88% dei casi clinici per la durata di 40 settimane.

Questo non vuol dire esattamente che la protezione immunitaria diminuisca sostanzialmente dopo 40 settimane.

Piuttosto, sembra che ci fossero dati limitati disponibili che seguivano le persone così a lungo da consentire agli autori di trarre conclusioni idonee oltre questo lasso di tempo.

I risultati hanno anche rivelato che la protezione contro la malattia grave dopo l'infezione naturale era paragonabile a quella ricevuta da due dosi di vaccino, per entrambe le varianti pre-omicron e omicron BA.1.

Quale significato dare ai risultati?

Due anni di pandemia sono un lungo periodo per i virus respiratori altamente contagiosi e per il SARS-CoV-2 (il virus che causa COVID) non è stato diverso. Esso ha generato varianti sequenziali preoccupanti sotto il profilo clinico, manifestando maggiore trasmissibilità e capacità di eludere le nostre risposte immunitarie rispetto al virus ancestrale.

Le osservazioni dello studio, che trattano separatamente la protezione contro le varianti pre-omicron e l'omicron BA.1, hanno senso in quanto consideriamo come le varianti di virus omicron differiscono dai loro predecessori.

In questo contesto, gli anticorpi neutralizzanti generati da una precedente infezione virale sono decisivi per prevenire il successivo ingresso del virus nelle cellule sensibili del corpo umano. Tali molecole a forma di Y riconoscono le proteine intatte poste all'esterno del virus e aderiscono fortemente ad esse, impedendo al virus di agganciarsi al recettore cellulare necessario per il successo dell'infezione.

Ma per persistere, i virus come il SARS-CoV-2 introducono mutazioni casuali nel loro genoma quando replicano, con l'obiettivo di alterare continuamente le loro proteine in modo tale da sfuggire al riconoscimento da parte del nostro apparato immunitario.

Le linee virali Omicron hanno abbastanza mutazioni da differenziarsi sostanzialmente dalle varianti precedenti e quindi eludere gli anticorpi esistenti.

L'evasione dagli anticorpi neutralizzanti spiega la nostra incapacità di controllare la reinfezione da parte delle varianti di omicron.

Scienza e metodo non prevedono che sia riposta fiducia solamente agli anticorpi per la protezione e difesa dell’organismo. In questo campo si annovera anche un tipo di cellule immunitarie chiamate linfociti di tipo T, capaci infallibilmente di riconoscere anche singoli frammenti di proteine virali piuttosto che proteine intatte.

Ciò significa che ci vorrebbero molte più mutazioni nel genoma del virus per eludere completamente l'immunità delle cellule T.

A differenza degli anticorpi (immunoglobuline), i linfociti T non vanno alla ricerca di singoli virus. Essi, invece, riconoscono le cellule che sono state infettate e le eliminano rapidamente dal contesto dell’organismo.

I linfociti T agiscono quindi laddove gli anticorpi neutralizzanti possono in qualche caso aver fallito, in seguito all'infezione.

E’ stato ampiamente dimostrato che una robusta risposta dei linfociti T ai coronavirus è fondamentale per prevenire la malattia grave. Inoltre, tale risposta immunitaria di tipo T è ben più difficile da eludere o superare di fatto per ogni tipo di variante virale, compresa l’Omicron.

Le cellule T specifiche per SARS-CoV-2 diminuiscono il proprio numero e presenza più lentamente delle immunoglobuline anticorpali.

In effetti, la letteratura scientifica evidenzia che le persone infettate da coronavirus simili al SARS nel 2003 presentavano ancora nel sangue linfociti T capaci di riconoscere il SARS-CoV-2, ben 17 anni dopo l'infezione !

Infezione contro vaccinazione

Dopo circa due anni dall’esordio dell’epidemia da coronavirus è già stato scientificamente stabilito che, mentre un'infezione naturale può offrire una protezione immunitaria equivalente alla vaccinazione, tuttavia questo non vuole significare che siamo sicuri di non poter essere infettati una seconda volta.

Infatti, il SARS-CoV-2 rimane un virus pericoloso e imprevedibile che può, in alcuni casi, causare una serie di effetti patologici del tutto dannosi che persistono a lungo dopo il recupero convalescienziale.

La letteratura medica - oggi ridondante sull’argomento COVID - suggerisce che il precedente stato di infezione di una persona e la sua tempistica dovrebbero essere considerati insieme all’esecuzione delle vaccinazioni di richiamo come cruciali strumenti di prevenzione,

Tuttavia, questo obiettivo può essere difficile da realizzare poiché la sorveglianza immunologica delle infezioni è diminuita nella maggior parte dei paesi rispetto all'inizio della pandemia. Prova ne sia che oggi i certificati COVID sono usati meno comunemente.

Tuttavia, i loro risultati potrebbero essere utilizzati per individuare il momento ottimale per praticare le vaccinazione di richiamo.

Ulteriori studi di follow-up di alta qualità e a lungo termine sono attualmente operativi presso le più affermate società scientifiche per integrare tutti i risultati ottenuti.

Mentre l’epidemia è da tempo virata verso la endemia, rimane ancora molto da imparare sulla protezione immunitaria contro questo virus in inarrestabile evoluzione.

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Salute e Benessere

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