L’ombra della campagna militare israeliana minaccia di estendersi fino a Rafah, ultimo centro urbano palestinese prima del confine con l’Egitto. Secondo le Nazioni Unite, la città ospiterebbe più della metà degli oltre due milioni di abitanti della Striscia di Gaza, schiacciati in un’area di meno di 65 km2, spesso sospinti dall’avanzata verso sud delle IDF, le Forze di Difesa Israeliane.
Il Primo ministro Benjamin Netanyahu ha ordinato all’esercito di preparare un piano di evacuazione per i civili in vista di un’offensiva terrestre. Josep Borrell, l’Alto rappresentante per gli affari esteri dell’UE, ha domandato sarcasticamente se la Luna possa essere il luogo prescelto per evacuare una popolazione con le spalle al muro.
All’alba dell’ennesima catastrofe umanitaria, anche i partner occidentali di Tel Aviv si sono pronunciati contro l’imminente offensiva, come racconta Valentina Ruaro in un recente articolo.
Le severe dichiarazioni del Presidente Biden farebbero, del destino di Rafah, un potenziale punto critico nelle relazioni tra Israele e Stati Uniti. Eppure, il 13 febbraio il Senato americano ha approvato un pacchetto di aiuti bellici di 95 miliardi di dollari, di cui 14 destinati a Tel Aviv e alle operazioni militari statunitensi in Medio Oriente. Sempre Borrell ha sottolineato l’incongruenza logica tra chiedere a Netanyahu di ridurre il numero di vittime civili e persistere nell’offrirgli armi e sostegno.
Il Sudafrica, che a dicembre aveva accusato Tel Aviv di genocidio dinanzi alla Corte Internazionale di Giustizia (ICJ), ha sollecitato la Corte a imporre nuovi vincoli per Israele in vista dell’offensiva. Pur riconoscendo che la “situazione pericolosa” a Rafah imponga di rispettare le misure provvisionali pronunciate il 26 gennaio, l’ICJ ha declinato di introdurne di ulteriori.
Cionondimeno, le misure già emesse offrono una lente per valutare l’impatto del diritto internazionale sul conflitto a Gaza.
L’Ordine dell’Aia
Denunciando la violazione della Convenzione sul genocidio del 1948 da parte di Tel Aviv, Pretoria aveva richiesto all’ICJ di imporre all’imputato di “sospendere immediatamente le sue operazioni militari a e contro Gaza” tra le misure provvisionali (provisional measures). Come osservato in un precedente articolo, queste ultime costituiscono ordini ad interim per le parti in causa emessi dalla Corte in attesa di pronunciare un giudizio finale (Statuto dell’ICJ, Art. 41).
A fine gennaio, il più alto tribunale dell’ONU ha decretato che Israele deve “prendere tutte le misure in suo potere” per prevenire ogni atto genocida elencato all’Art. II della Convenzione del 1948 e preservarne le eventuali prove, garantire assistenza umanitaria ai Palestinesi nella Striscia, e redigere un rapporto sulle azioni intraprese entro il 26 febbraio.
Come sottolineato dal Prof. Marko Milanovic, com’era prevedibile, Israele ha schivato l’imposizione di un cessate il fuoco, ricevendo ordini che afferma di stare già implementando – considerandosi innocente dall’accusa di genocidio. Tuttavia, il danno reputazionale non è risibile.
La Corte unita di un mondo spaccato
Misure vaghe e prudenti sembrano essere il prezzo da pagare per la Corte per lanciare un messaggio di unità. L’ampiezza della maggioranza in tutte e sei le misure provvisionali – mai scesa sotto i quindici giudici su diciassette, considerando anche i due giudici ad hoc – contrappone una compattezza sorprendente al mondo multipolare e frammentato di oggi.
I quindici giudici che siedono per nove anni all’Aia vengono eletti a gruppi di cinque dal Consiglio di Sicurezza e dall’Assemblea Generale dell’ONU. Sebbene non vi sia formalmente un’assegnazione regionale dei seggi, di fatto la tradizione ha imposto un principio di distribuzione geografica. Come testimoniato dal neoeletto Giudice statunitense Sarah Cleveland, che ha indossato la toga lo scorso 6 febbraio, la campagna elettorale riflette gli smottamenti geopolitici contemporanei.
Ciononostante, nelle parole del Prof. Nico Krisch, la Corte dipinge “l’immagine di un mondo unito”, anche grazie al riferimento frequente alle dichiarazioni di agenzie e ufficiali delle vituperate Nazioni Unite per delineare il contesto su cui fondare le misure provvisionali.
Lo stesso giudice ad hoc israeliano Aharon Barak si è espresso a favore delle misure che ordinano a Tel Aviv di “prevenire e punire l’istigazione diretta e pubblica a commettere genocidio” – che Pretoria attribuiva a molti funzionari statali israeliani, citandoli testualmente – e di permettere la fornitura di assistenza umanitaria alla popolazione palestinese. I voti favorevoli del giudice uscente americano, ricorda ancora il Prof. Milanovic, smentiscono ulteriormente i sospetti per una cospirazione anti-Israele in seno all’ONU.
Plausibilità…
Ciò detto, l’elemento più notevole dell’Ordine della Corte è la fondatezza delle misure provvisionali. Nello specifico, l’aver riconosciuto la denuncia di genocidio come plausibile.
Ben inteso, le provisional measures non equivalgono a una condanna nei confronti di Israele, e ci vorranno verosimilmente anni per ottenere il giudizio dell’ICJ. Tuttavia, la giurisdizione della Corte sul caso si limita alle violazioni della Convenzione sul genocidio (Art. IX della Convenzione), escludendo altri illeciti come crimini di guerra o contro l’umanità. Ciò significa che il caso, e quindi le misure provvisionali emesse in attesa della sentenza, si reggono solo sulla plausibilità di un intento genocida da parte di Israele.
L’ICJ ha ritenuto che tale plausibilità sussista. E, come afferma ancora il Prof. Krisch, uno Stato “non dovrebbe nemmeno avvicinarsi al punto in cui un’accusa di genocidio diventa plausibile”.
Inoltre, la Corte ha emesso le misure provvisionali nel contesto di quella che definisce una “tragedia umana”, iniziata con l’attacco di Hamas del 7 ottobre, ma proseguita poi con “un’operazione militare di larga scala” che ha portato morte e distruzione nella Striscia. Come nota la Prof. Fionnuala Ní Aoláin, pur senza entrare nel merito, l’ICJ ha descritto una “narrativa comprensiva” certamente non lusinghiera nei confronti di Tel Aviv, in cui figurano anche alcune affermazioni di funzionari israeliani tacciabili di intenti genocidi per l’uso di un “linguaggio disumanizzante”.
… e responsabilità
Oltre al danno d’immagine per l’imputato, l’Ordine della Corte dell’Aia potrebbe avere un impatto per gli Stati terzi che stanno in qualche modo facilitando le operazioni israeliane a Gaza.
Secondo la Prof. Janina Dill, le provisional measures avvertirebbero i governi che forniscono armi ad Israele del fatto che stiano assistendo “quello che potrebbe plausibilmente essere un illecito internazionale molto serio”.
Come spiega il ricercatore in diritti umani Yussef Al Tamimi, questi Stati terzi dovrebbero essere cauti riguardo a due responsabilità fondamentali.
La prima è quella di prevenire un genocidio, un obbligo a cui sono soggette tutte le parti contraenti della Convenzione del 1948 (Art. I). In particolare, questo dovere scatterebbe nel momento in cui uno Stato viene a conoscenza del “serio rischio” che un genocidio stia per essere commesso – sulla base delle osservazioni della stessa ICJ nel caso del 2007 Bosnia ed Erzegovina vs. Serbia e Montenegro (para. 431) sul massacro di Srebrenica. Che la soglia del “serio rischio” sia stata superata, lo farebbe pensare il riconoscimento da parte della Corte che “c’è un rischio reale e imminente che un danno irreparabile sarà causato ai diritti” degli abitanti della Striscia di essere protetti da atti di genocidio.
La seconda è quella di non rendersi complici di un genocidio. La complicità è legalmente e moralmente più grave di una mera prevenzione mancata e in quanto tale richiederebbe una soglia più alta per essere perseguita.
Ciononostante, l’Ordine della Corte sembrerebbe suggerire prudenza agli Stati che forniscono assistenza economica e militare alla campagna di Israele a Gaza. Per iniziare, verificando concretamente come le forze israeliane facciano uso di tale assistenza sul campo di battaglia.
Per una volta, pare che l’ICJ non si sia nascosta dietro cavilli giuridici per evitare di esporsi con un messaggio troppo diretto. Il messaggio è stato lanciato. Che venga recepito è un altro discorso.
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L'Autore
Matteo Gabutti
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Matteo Gabutti è uno studente classe 2000 originario della provincia di Torino. Nel capoluogo piemontese ha frequentato il Liceo classico Massimo D'Azeglio, per poi conseguire anche il diploma di scuola superiore statunitense presso la prestigiosa Phillips Academy di Andover (Massachusetts). Dopo aver conseguito la laurea in International Relations and Diplomatic Affairs presso l'Università di Bologna, al momento sta conseguendo il master in International Governance and Diplomacy offerto alla Paris School of International Affairs di SciencesPo. All'interno di Mondo Internazionale ricopre il ruolo di autore per l'area tematica Legge e Società, oltre a contribuire frequentemente alla stesura di articoli per il periodico geopolitico Kosmos.
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Matteo Gabutti is a graduate student born in 2000 in the province of Turin. In the Piedmont capital he has attended Liceo Massimo D'Azeglio, a secondary school specializing in classical studies, after which he also graduated from Phillips Academy Andover (MA), one of the most prestigious preparatory schools in the U.S. After his bachelor's in International Relations and Diplomatic Affairs at the University of Bologna, he is currently pursuing a master's in International Governance and Diplomacy at SciencesPo's Paris School of International Affairs. He works with Mondo Internazionale as an author for the thematic area of Law and Society, and he is a frequent contributor for the geopolitical journal Kosmos.
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