Sudan, un anno dopo: la guerra dimenticata

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  Giorgio Giardino
  19 aprile 2024
  3 minuti, 47 secondi

Esistono guerre in cui la violenza e la distruttività non vanno di pari passo con la copertura mediatica e l'attenzione internazionale. Guerre che diventano elementi di contorno, che diventano “altre guerre” e che non fanno notizia. È il caso del conflitto in Sudan che “anche se non fa notizia” sta vivendo una “delle più grandi crisi di sfollati al mondo”, come ha sostenuto l’alto commissario dell’Unione Europea Josep Borrell. Da un anno, infatti, il Paese è dilaniato da una guerra civile che sta portando con sé distruzione, vittime civili e un numero enorme di sfollati interni.

È proprio per tornare a discutere di quanto sta avvenendo in Sudan che il 15 aprile scorso si è tenuta una conferenza internazionale a Parigi, che ha portato alla raccolta di due miliardi di euro, giudicati però insufficienti per riuscire a dare una risposta efficace alla crisi in atto.

Lotta per il potere

Era il 15 aprile 2023 quando a Khartoum sono iniziati i primi scontri tra l’esercito guidato dal generale Abdel Fattah al Burhan e le Forze di supporto rapido (Rsf) del generale Mohamed Hamdan Dagalo, conosciuto come Hemedti.

La debole alleanza che aveva legato fino a quel momento al Burhan e Hemedti, protagonisti insieme del golpe che nel 2021 aveva interrotto la transizione verso la democrazia iniziata all’indomani della caduta del regime di Omar al Bashir, è venuta meno quando si è iniziato a discutere del futuro del Paese e quindi delle forze armate.
A dicembre del 2022, esponenti della società civile e militari, sotto pressione da parte della comunità internazionale, avevano infatti firmato un accordo per regolare il passaggio del potere verso un nuovo governo civile, affrontando anche il tema della giustizia e la riforma del settore della sicurezza.

È qui che entra in gioco la lotta al potere. Il generale Hemedti e le Rsf, dirette discendenti delle milizie arabe utilizzate dal regime di al Bashir durante la guerra civile in Darfur iniziata nel 2003, i famigerati janjawid, si sono trovati dinanzi alla possibilità di confluire all’interno dell’esercito regolare. Ciò però avrebbe significato la perdita di rilevanza di Hemedti, che non ha mai nascosto le sue ambizioni politiche.

È questo il punto che ha alimentato lo scontro e che ha reso inutili i tentativi di mediazione, come quello dell Meccanismo Trilaterale, composto dal Rappresentante speciale del Segretario delle Nazioni Unite per il Sudan, i rappresentanti dell’Unione Africana e dell’Igad, l’organizzazione intergovernativa composta dai Paesi del Corno d’Africa. Per provare a risolvere la crisi, avevano convocato una riunione, proprio per il 15 aprile scorso, senza sapere che proprio quel giorno sarebbe iniziata la guerra.

Carestia biblica

A rendere chiara la gravità della situazione c’è il bilancio provvisorio di oltre 15mila morti, che però non tengono conto delle vittime indirette del conflitto, ovvero quelli dovuti alla carestia e alle malattie.
Jan Egeland, capo del Norwegian Refugee Council ha parlato del rischio di “carestia biblica”, che in parte sta già divenendo realtà. Un terzo della popolazione, secondo le Nazioni Unite, sta infatti affrontando livelli catastrofici di fame.
Altissimo è poi il numero di sfollati, interni ed esterni: 6 milioni circa di persone sono rimaste all’interno del Paese mentre 1.4 milioni sono arrivati negli Stati vicini, tra cui Sud Sudan, Ciad, Egitto ed Etiopia.

Le infrastrutture idriche ed elettriche sono state poi danneggiate, rendendo difficile per la popolazione riuscire a procurarsi acqua potabile. Tutto in Sudan ha smesso di funzionare, dalle scuole ai centri sanitari, e i pochi aiuti destinati al Paese sono spesso bloccati, come denuncia anche Medici Senza Frontiere, in particolare nelle zone controllate dalle Forze di Supporto Rapido.

A un anno dall’inizio del conflitto non è ancora per nulla chiaro chi possa uscire vincitore da questo conflitto, ma è evidente che ci sono già diversi sconfitti. In primis la popolazione civile, abbandonata ad affrontare una guerra violenta in cui riaffiorano le tensioni etniche mai assopite, come in Darfur, e dove donne e ragazze sudanesi subiscono stupri. Ma sembra uscirne sconfitto anche il sogno democratico nato all’indomani del 2019, dopo la caduta del regime di al Bashir, quando sembrava che il Sudan potesse avviare la sua transizione verso la democrazia. 

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L'Autore

Giorgio Giardino

Giorgio Giardino, classe 1998, ha di recente conseguito la laurea magistrale in Politiche europee ed internazionali presso l'Università cattolica del Sacro Cuore discutendo un tesi dal titolo "La libertà di espressione nel mondo online: stato dell'arte e prospettive". Da sempre interessato a tematiche riguardanti i diritti fondamentali e le relazioni internazionali, ricopre all'interno di MI la carica di caporedattore per la sezione Diritti Umani.

Giorgio Giardino, class 1998, recently obtained a master's degree in European and international policies at Università Cattolica del Sacro Cuore with a thesis entitled "Freedom of expression in the online world: state of the art and perspectives". Always interested in issues concerning fundamental rights and international relations, he holds the position of Editor-in-Chief of the Human Rights team.

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Diritti Umani

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Sudan profughi Guerra civile aiuti umanitari