È passato quasi un anno da quando il primo lockdown, dovuto al diffondersi del virus SARS-CoV-2, ha cambiato la vita degli italiani. E se le conseguenze fisiche causate dal Covid-19 sono ormai piuttosto note, ancora troppo spesso ignorati sono i contraccolpi psicologici subiti da chi si ammala.
L’insorgere della pandemia ci ha messi di fronte a tutti i nostri limiti sociali e insieme individuali. Ognuno di noi ha reagito in modo diverso ai periodi di chiusura, all’insicurezza e al pericolo sanitario: alcuni hanno approfittato dei mesi passati in casa per sviluppare passioni che nemmeno pensavano di avere, altri hanno lavorato come e più di prima, altri ancora hanno per la prima volta fatto i conti con l’inattività forzata, trovandola più o meno piacevole. Inizialmente il sentimento più diffuso è stato la necessità di condividere, e il bisogno a cui si cercava di trovare risposta immediata era quello di sentirsi parte di una comunità (attraverso le dirette sui social, attraverso i rituali seguiti da tutti – chi ancora ora ricorda le dosi esatte per preparare la pasta per la pizza? – attraverso l’applauso fatto dai balconi, lunghe ovazioni alle strade sottostanti, degne di riconoscimento in quanto private dei passanti; non più arterie di comunicazione, ma vene svuotate di sangue e di vita). In un secondo momento, però, è stato necessario affrontare un tremendo dato di fatto: il virus era in circolo, e chiunque poteva contrarre la malattia. Allora non ci sono più stati amici con cui condividere le proprie conoscenze con corsi organizzati sul proprio profilo Instagram, jogger o semplici viandanti sulla nostra stessa strada: il prossimo si è improvvisamente trasformato in un potenziale veicolo di contagio, che con il suo incosciente incontrarci per la via poteva mettere a rischio la nostra vita. Non era più importante sapere chi fosse quella persona, dove stesse andando, quali sentimenti provasse nel momento in cui incrociava noi – altri esseri umani, a nostra volta altri potenziali veicoli di contagio; non contava nemmeno che, nel momento in cui incontravamo un incosciente per strada, era perché eravamo per strada noi stessi. Perché del resto noi avevamo sempre cose importanti da fare fuori; la nostra scelta di uscire non era dettata dall’egoismo o dall’esaurimento nervoso – come quella dell’incosciente - ma da urgenti improrogabili motivi validi. L’unica cosa rilevante, comunque, era il fatto che chiunque poteva mettere in pericolo la nostra fragile esistenza.
Esistono diversi studi che monitorano gli effetti psicologici negativi del prolungarsi della pandemia sulle persone e questi comunque sono in parte già visibili anche a chi non è del mestiere: aumento di ansia, comportamenti ossessivo-compulsivi, ipocondria, l’incapacità di accettare l’incertezza come parte fondante della nostra vita su questo pianeta sono tutti sintomi che hanno registrato un grandissimo aumento nei mesi scorsi[1]. Eravamo convinti che la scienza avesse la risposta pronta per ogni problema, ma chi scienziato lo è davvero ha sempre saputo che la conoscenza si ottiene avanzando sulla base di ipotesi e che gli errori sono all’ordine del giorno. Noi, tutti gli altri, l’abbiamo scoperto solo ora, e nel peggiore dei modi, e sono certa che molti avrebbero preferito all’accecante luce del sole della consapevolezza la beata ignoranza della caverna. Soprattutto se vedere il sole significa sperimentare ansia e sindrome della capanna. Il fatto che la scienza medica si sia mostrata impreparata di fronte alla nuova malattia e ai modi per curarla, e che si sia dovuto procedere a tentativi, mentre molti dei media nazionali e internazionali urlavano dai loro titoli creando un clima di terrore e riportavano con attenzione spasmodica il conteggio di ogni morto, facendone un bollettino di guerra, (perché le metafore non sono mai casuali e hanno come scopo la costruzione di un’immagine mentale del mondo[2]) e i governi presi alla sprovvista adottavano soluzioni tutte diverse sbirciandosi l’un l’altro per vedere quale funzionava meglio, ha portato noi cittadini senza potere decisionale diretto a scoprire che il mondo, così come lo conosciamo, può crollarci addosso da un momento all’altro e che non esistono persone con la sfera di cristallo che sapranno in ogni situazione dirci che cosa fare.
Nonostante questo, però, qualche certezza ce l’avevamo: se fossimo stati abbastanza attenti, se avessimo indossato nel modo corretto la mascherina, se ci fossimo lavati nella giusta maniera le mani, se fossimo stati abbastanza distanziati dagli altri, se non fossimo usciti di casa inutilmente e se non ci fossimo assembrati e soprattutto se avessimo rifuggito la movida non ci sarebbe successo nulla. La tremenda malattia che faceva morti nelle RSA e riempiva le terapie intensive degli ospedali ci avrebbe visto salutarla indenni.
Ma nonostante le accortezze, dopo aver fatto tutto quello che era in nostro potere per rimanere al sicuro e per non mettere a rischio la nostra salute e quella dei nostri cari, alcuni di noi si sono ammalati comunque. E per “alcuni” si intende molti, moltissimi individui: 2.832.162 persone ad oggi[3] sono risultate positive al Covid-19 in Italia nel corso di questo lungo anno. L’autrice di questo post rappresenta, purtroppo, una unità di questo numero considerevole.
Eppure, certamente molti di quelli che hanno contratto il virus si considerano delle persone responsabili. Magari tanti di loro indossavano sempre la mascherina, hanno osservato diritti e i doveri riguardanti il colore delle zone in cui si trovavano, hanno evitato cene e pranzi con troppe persone, e in particolar modo hanno evitato la movida; e comunque, in un modo o nell’altro, si sono ammalati. E questo ha causato moltissimi problemi.
Perché troppo spesso l’idea dell’homo faber fortunae suae è stata esagerata, fino a diventare la sciocca, o quanto meno ingenua, convinzione che possiamo tenere sotto controllo ogni singolo aspetto della nostra vita. Di più, dobbiamo tenerlo: siamo padroni del nostro destino e completamente responsabili di esso. E se l’uomo è dio di se stesso, allora è anche costretto ad essere onnisciente.
Non esserlo costa caro: chi sembra non avere saldamente in mano le redini della propria esistenza viene spesso guardato con curiosità, bonario paternalismo, malcelato imbarazzo. Come qualcuno che avrebbe proprio bisogno di crescere un po’. Perché se non presta abbastanza attenzione rischia di commettere errori: come quello di essere debole e disattento e di ammalarsi di Covid-19, ad esempio.
Purtroppo poi si aggiunge il fatto che contrarre il virus non mette a rischio solo noi, ma anche tutti coloro che abbiamo intorno: famigliari, conviventi, amici e colleghi; tutte persone da cui da un momento all’altro dobbiamo distanziarci in modo netto, per evitare di contagiarle con il pericolo di cui siamo diventati portatori. Soprattutto per chi si è ammalato di una forma "più lieve" di Covid-19, e quindi non è stato ospedalizzato, le difficoltà dovute alla convivenza (anche solo temporanea) con chi invece è negativo, e che continuamente però rischia di essere contagiato, spesso causano l’insorgere di paure e insicurezze mai provate prima. La consapevolezza del proprio corpo come qualcosa di potenzialmente pericoloso è tra queste: chi di noi, prima d'ora, aveva mai fatto vera attenzione a ciò che toccava? Essere positivo e convivere con altri significa invece sanificare le superfici con cui si viene a contatto, in modo che il virus non possa rimanerci il tempo necessario per trovare il suo prossimo organismo ospitante. Questa nuova consapevolezza del proprio corpo rischia di renderlo quasi un oggetto a noi estraneo, qualcosa di cui avere paura, perché può contagiare gli altri: diventa così qualcosa di pericoloso, di detestabile e di colpevole.
C’è poi il rischio dello stigma sociale: il risultare positivi al Covid-19 porta necessariamente al giusto isolamento fisico, per tutelare gli altri. Non necessario, né richiesto, è invece il sentimento di paura nei confronti di chi è malato: pur essendo – momentaneamente – una persona con cui è buona regola mantenere un certo distanziamento sociale, questo non fa di lui un untore da discriminare. Eppure, nei momenti di massima ansia per la propria salute, spesso ci si dimentica che quel malato prima di essere tale è una persona; degna di attenzione e di riconoscimento dei suoi bisogni. I disturbi psicologici prima citati (ansia, disturbo ossessivo-compulsivo, ipocondria) che hanno trovato terreno fertile nelle menti di tante persone durante questi mesi di incertezza, rendono spesso molto più difficile vedere l’altro come qualcuno di cui avere riguardo, perché nei momenti di panico il desiderio di sopravvivenza supera qualsiasi sentimento empatico.
Se poi anche qualcun altro vicino a noi si scopre positivo al virus, ecco che (molto spesso) si sviluppa il senso di colpa per averlo contagiato. Il timore che un proprio ipotetico sbaglio possa aver messo in pericolo altri diventa per molte persone un pensiero intrusivo che occupa la mente, e che spinge a ripercorrere in modo spasmodico ogni singolo movimento compiuto prima di scoprire di essere stati contagiati. “Che cosa avrò sbagliato?” è la domanda che molte persone risultate positive al virus si fanno, rischiando di renderla una vera e propria ossessione. Questo pensiero può anche portare a sviluppare un senso di vergogna che spinge chi scopre di essersi ammalato a non avvisare tutte le persone che potenzialmente sono state contagiate da lui, favorendo quindi l’ulteriore diffondersi del virus. La persona positiva si ritrova quindi a dover scegliere tra ammettere la propria debolezza e la ipotetica mancanza di attenzione svelando il risultato del tampone e tenere nascosta la notizia, sentendosi però in colpa per i rischi che questo comportamento implica. Il fatto che qualcuno debba provare disagio nel confidare un proprio (supposto) errore è il sintomo di una società che non ammette debolezze, ma che ora, spingendo alcune persone a nascondere la propria malattia per paura del giudizio altrui, sta subendo il contrappasso di questa impostazione scellerata.
In conclusione, sembra quindi evidente che le conseguenze psicologiche di questa pandemia avranno effetti pesanti e a lungo termine, tanto quanto quelle fisiche. Rimane comunque necessario aggiungere che molte di queste problematiche non sono comparse dal nulla con lo scoppio della pandemia: esse erano già presenti in modo più o meno latente in gran parte delle persone che ora ne soffrono in modo così evidente[4]. Che sia forse l’occasione per reinventare una società in cui mostrare le proprie debolezze non renda “meno vivi” ma al contrario “più umani”?
[1] https://www.internazionale.it/reportage/annalisa-camilli/2020/12/10/effetti-psicologici-pandemia
[2] https://www.valigiablu.it/coronavirus-giornalismo/
[3] https://www.rainews.it/ran24/speciali/2020/covid19/ (aggiornato al 24 febbraio 2021)
Le fonti utilizzate per la stesura di questo articolo sono liberamente consultabili:
https://www.ipsico.it/news/senso-di-colpa/
http://www.oti-italy.com/2019/02/20/le-reazioni-psicologiche-alla-malattia/
https://www.sarapuosipsicologa.it/coronavirus-e-senso-di-colpa/
https://www.un.org/sites/un2.un.org/files/un_policy_brief-covid_and_mental_health_final.pdf
https://www.ncbi.nlm.nih.gov/pmc/articles/PMC7669543/
https://www.ncbi.nlm.nih.gov/pmc/articles/PMC7669543/#B15
https://www.ncbi.nlm.nih.gov/p...
https://www.ncbi.nlm.nih.gov/p... https://www.internazionale.it/reportage/annalisa-camilli/2020/12/10/effetti-psicologici-pandemia
https://www.valigiablu.it/coronavirus-giornalismo/
https://www.rainews.it/ran24/speciali/2020/covid19/
a cura di Simona Sora
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Redazione
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Covid19