Istanbul, in 300mila alla protesta per il sindaco arrestato Ekrem Imamoğlu.
La prefettura della città sul Bosforo ha vietato per quattro giorni le manifestazioni politiche e bloccato i principali social network in tutto il Paese. Nonostante queste misure, centinaia di migliaia di persone sono scese in strada a protestare a Istanbul, Ankara e Izmir, come in metà delle province della Turchia, sfidando i divieti imposti.
La notte della democrazia
All'alba del 19 marzo, un centinaio di agenti ha fatto irruzione nell'abitazione del primo cittadino della metropoli turca per arrestarlo. L'arresto è avvenuto nell'ambito di una vasta inchiesta realizzata dalla Procura di Istanbul, che descrive Imamoğlu come “il capo di un'organizzazione criminale”. In manette anche altre cento persone, compresi i suoi collaboratori, i responsabili della campagna elettorale, politici e giornalisti.
Le accuse per il sindaco di Istanbul: estorsione, corruzione, frode e turbativa d'asta; nonché favoreggiamento di un'organizzazione terroristica, il PKK ovvero il Partito dei lavoratori del Kurdistan.
Imamoğlu è in corsa come candidato dell'opposizione alle presidenziali del 2028: domenica 23 marzo avrebbe dovuto formalizzare la sua candidatura alle primarie del partito antigovernativo. Subito dopo l'arresto, ha dichiarato: “Il Paese vive in un regime di tirannia”.
Il già due volte sindaco di Istanbul con CHP, il Partito Popolare Repubblicano d'ispirazione kemalista, è l'unico reale oppositore di Recep Tayyip Erdoğan, l'unico capace di sfidare l'egemonia del sultano. E accusa l'attuale presidente, al potere dal 2003, di aver avviato un “colpo di Stato per impedire ai cittadini di scegliere liberamente il prossimo presidente della Turchia”.
Di recente, Ekrem Imamoğlu aveva infatti ammesso di volersi candidare per la presidenza alle prossime elezioni nel 2028. Tra i requisiti per la carica istituzionale c'è il possesso di una laurea: il giorno prima del suo arresto, l'Università di Istanbul ha revocato il diploma a Imamoğlu, a causa del trasferimento da un istituto di Cipro Nord nel 1990, ora ritenuto irregolare.
Le reazioni dell'Europa
L'incarcerazione del sindaco di Istanbul è stata già criticata da varie capitali europee. Il Ministero degli Esteri tedesco ha parlato di “una grave battuta d'arresto per la democrazia” in Turchia. Critiche sono arrivate anche dalla Francia, mentre il Consiglio d'Europa (CEDU), nel condannare l'arresto, ha affermato che la detenzione “porta tutti i tratti distintivi della pressione esercitata su una figura politica considerata uno dei principali candidati alle prossime elezioni presidenziali”.
Amnesty International ha parlato di “un salto di qualità nella massiccia repressione in corso contro il dissenso”, invitando a contrastare “il drastico arretramento della tenuta dei diritti umani” in Turchia.
Imamoğlu è diventato sindaco di Istanbul nel 2019, dopo avere battuto il candidato dell'AKP, il partito di Erdoğan che da 15 anni governava la città. Da allora è diventato tra le figure più importanti dell'opposizione: dopo essere stato rieletto alle amministrative dell'anno scorso, è adesso ritenuto il principale rivale di Erdoğan, che per la Costituzione turca non potrebbe candidarsi per un nuovo mandato nel 2028. Dopo giorni di proteste, il presidente turco ha rotto l'iniziale silenzio sostenendo che il Paese “non cederà al terrorismo di strada”.
Autoritarismo elettorale
Debole sul piano interno, ma rafforzato sullo scenario regionale grazie al ruolo nella transizione di potere (o di regime) in Siria, Erdoğan è partner strategico dell’Europa: da secoli la Porta Sublime è cerniera tra Oriente e Occidente.
Secondo esercito nell'Alleanza Atlantica, dopo quello degli Stati Uniti, la Turchia intende partecipare alla coalizione dei “volenterosi”, ovvero i Paesi disposti a fornire garanzie di sicurezza all'Ucraina in caso di tregua con la Russia. Nella prospettiva di un futuro disimpegno degli Stati Uniti dalla gestione della sicurezza internazionale, adesso l’Europa non può fare a meno di un alleato storico e strategico come Ankara, seppure non siano mancati gli incidenti diplomatici come quando il premier Draghi chiamò Erdoğan “dittatore”.
Primo ministro della Turchia dal 2003 al 2014, e da allora presidente in carica fino al 2028, Erdoğan dispone di numerosi strumenti per minacciare la candidatura di Imamoğlu: il controllo sui media – è il Paese con più giornalisti in carcere: un terzo di quelli arrestati nel mondo si trova nelle prigioni di Ankara – sulle istituzioni, e soprattutto sul potere giudiziario.
Il crescente autoritarismo della Turchia riguarda, e forse preoccupa, anche la difesa europea. Un “autoritarismo elettorale” che continua a celebrare i riti della democrazia, minandola e svuotandola dall'interno. Perché una democrazia non deve essere per forza liberale. Putin docet. Le proteste infiammano ora il Paese. Ma Istanbul non è tutta la Turchia.
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L'Autore
Giuliana Băruș
Studi in Giurisprudenza e Diritto Internazionale a Trieste.
Oltre che di Diritto (e di diritti), appassionata di geopolitica, giornalismo – quello lento, narrativo, che racconta storie ed esplora mondi – fotoreportage, musica underground e cinema indipendente.
Da sempre “permanently dislocated – un voyageur sur la terre” – abita i confini, fisici e metaforici, quelle patrie elettive di chi si sente a casa solo nell'intersezionalità di sovrapposizioni identitarie: la realtà in divenire si vede meglio agli estremi che dal centro. Viaggiare per scrivere – soprattutto di migrazioni, conflitti e diritti – e scrivere per viaggiare, alla ricerca di geografie interiori per esplorarne l’ambiguità e i punti d’ombra creati dalla luce.
Nel 2023, ha viaggiato e vissuto in quattro paesi diversi: Romania, sua terra d'origine, Albania, Georgia e Turchia.
Affascinata, quindi, dallo spazio post-sovietico dell'Europa centro-orientale; dalla cultura millenaria del Mediterraneo; e dalle sfaccettate complessità del Medio Oriente.
In Mondo Internazionale Post è autrice per la sezione “Organizzazioni Internazionali”.
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