Un anno dopo

A un anno dal terremoto di magnitudo 7,8 che ha colpito la Turchia sud-orientale e il nord-ovest della Siria, provocando oltre 57.000 vittime e ancora oggi 700mila sfollati: tra nuove sfide e vecchie incertezze

  Articoli (Articles)
  Giuliana Băruș
  24 febbraio 2024
  6 minuti, 34 secondi

Sconfinamenti: riflessioni dal confine 
Terra di confine geografico – nell'Anatolia sud-orientale – da secoli Gaziantep è crocevia di storie ed etnie, dove Turchi, Curdi e Arabi esistono insieme. Distanti meno di un centinaio di chilometri, Antep e Halep (Aleppo) sono divise dalla frontiera, ma accomunate da Storia – erano parte della stessa regione dell'Impero ottomano – tradizioni e cultura. Da ultimo, segnate entrambe dalle conseguenze, dirette o indirette, della guerra civile in Siria e dal recente sisma, che un anno fa, il 6 febbraio 2023, ha colpito l'intera area senza distinzioni di nazionalità.
Famosa per la sua ricca gastronomia – riconosciuta patrimonio UNESCO – e la vivacità culturale, Gaziantep è la sesta metropoli turca per popolazione. Con una crescita demografica vertiginosa, nell'ultimo mezzo secolo ha raggiunto i due milioni di abitanti: un quarto sono siriani. Passeggiando per le antiche vie della cittadella, ci si accorge infatti della predominante presenza della comunità siriana in questa zona centrale della città. Qui, scritte in arabo – di negozi, ristoranti e parrucchieri – si affiancano a cartelli in turco.

Il castello, Kale, domina silente la città dai giorni dell'Impero romano. Neppure il sisma dello scorso febbraio è riuscito a cancellare la storia millenaria di questa città: sopravvissuta a molti imperi, dominazioni e lotte etniche: Gaziantep è oggi una vivida stratificazione di tutto ciò che è passato di qui negli ultimi secoli, sedimentandosi e sovrapponendosi a quanto già c'era. Coacervo sublime d'identità.
Una città complessa e articolata, ricca di sfumature e sapori, così come di contraddizioni e tensioni. Contrasti che riflettono perfettamente le faglie socio-politiche e religiose interne alla Turchia: irriducibile contrapposizione tra conservatori e liberali, tra religiosi e laici, tra la grande città e i numerosi villaggi che la circondano. Un tempo periferia del decaduto Impero ottomano – e prima ancora Mesopotamia – oggi Antep rappresenta un punto di osservazione privilegiato: la realtà in divenire si vede meglio agli estremi che dal centro.

Ricostruzione: tra nuove sfide e altre dimenticate 
A meno di 200 km a ovest da Gaziantep c'è İskenderun (Alessandretta, in italiano, dal nome del suo mitico fondatore, Alessandro Magno, che la eresse nel 333 a.C. dopo la vittoria sui Persiani). Situata nella provincia di Hatay, la città – che fino al 1939 era suolo siriano – è stata duramente colpita dal devastante terremoto del 6 febbraio 2023.
Esposti alla luce del giorno, restano edifici sventrati e macerie impolverate; quello che rimane, sopravvissuto a una notte di distruzione, in cui il tempo infido sembra essersi fermato.

Un'atmosfera sinistra aleggia sulla promenade del lungomare e nelle vie interne semiabbandonate. Finestre e vetrine si spalancano come bocche sdentate, afone in un silenzio assordante, interrotto solo da qualche ruspa in lontananza o da un crollo inaspettato. La vita è sospesa: equilibrismo tra polvere e macerie.

Della parrocchia cristiana – di Caritas Anatolia – restano solo la facciata, il colonnato orientale e l'altare; la cattedrale sbriciolata come un castello di sabbia. Da sotto le pallide macerie affiora il legno scuro dei banchi, dove ogni domenica mattina si radunava un crocchio di fedeli per partecipare alla messa tenuta da un prete polacco.

Appena fuori dal centro città, i container che ospitano gli sfollati, lì ormai da mesi. Non molto è cambiato dalla notte tra il 5 e il 6 febbraio. La ferita qui è ancora aperta; lacerazione nel tessuto economico e sociale di un Paese che si trova a fronteggiare numerose sfide contemporanee. Dall'inflazione rampante alla gestione dei flussi migratori, l'emergenza umanitaria e la ricostruzione post-terremoto rappresentano soltanto un'ulteriore sfida che il governo turco dovrà affrontare. Resta da vedere con quali risultati, e soprattutto se riuscirà a riconciliare l'opinione pubblica della Turchia, o se ne esaspererà la frattura interna, accrescendone il parossistico dualismo. Carta importante che il rieletto presidente può giocare: una scommessa per la ricostruzione; o il rischio che resti un'altra storia dimenticata.


Quadrante geopolitico 
Lo strategico ruolo di attore essenziale nelle attuali relazioni internazionali, ha proiettato Erdoğan sempre di più sul quadrante geopolitico mondiale: recentemente, come mediatore di conflitti orientato al pragmatismo nella guerra tra Russia e Ucraina, o nell'irriducibile conflitto israelo-palestinese; negli ultimi vent'anni, come potenza regionale grazie alla sua apertura al continente africano, portando avanti un’agenda che coniuga una pluralità di interessi e azioni in diversi ambiti (diplomatico, economico, umanitario e culturale), cui si è aggiunto di recente anche il settore strategico della difesa.

Ignorare la necessità di fornire una visione politica interna, capace di unificare il Paese, però, non è un lusso che il presidente turco può concedersi. E per riconciliare il proprio popolo si impugna lo spettro di un presunto nemico esterno – corpo estraneo e ostile, che vive in seno alla propria società. Strategia impiegata tanto dal presidente riconfermato dalle elezioni di maggio – virata dopo anni di “open-door policy” – quanto dal suo sfidante alla guida della coalizione di opposizione, Kemal Kılıçdaroğlu: per ragioni di consenso elettorale, entrambi hanno infatti promesso, durante la campagna presidenziale, il rimpatrio di profughi siriani residenti in Turchia.

La Turchia, terra di contraddizioni, è lo Stato che accoglie entro i suoi confini nazionali il maggior numero di rifugiati al mondo: 3,6 milioni – prevalentemente siriani (quasi 3,3 milioni) e, in minor misura, anche afghani, iracheni, iraniani e somali.
Dalla fine del 2022, Human Rights Watch ha però denunciato la deportazione indiscriminata e il rimpatrio forzato di centinaia di siriani e afghani – respinti alla frontiera o allontanati anche dopo anni di permanenza legale, con lo status di “protezione temporanea”, nel Paese anatolico.
Con l'inasprirsi della retorica nazionalista in campagna elettorale, il clima è diventato sempre più ostile per i rifugiati. Lo Stockholm Center for Freedom ha registrato, infatti, un notevole incremento dei casi di hate speech e dei crimini d'odio contro la comunità siriana: la convivenza non è dunque priva di tensioni. Migranti, rifugiati e richiedenti asilo sono spesso il capro espiatorio di tutte le problematicità della società turca – assai più sfaccettate e complesse da risolvere: il “nemico esterno” invocato in risposta agli irrisolti problemi interni.

Nemico, i migranti, che la Turchia usa – sin dalla firma, nel 2016, degli Accordi con l'UE sul contenimento dei flussi migratori come arma di ricatto geopolitico nei confronti dell'Europa, strumentalizzando la questione dell'immigrazione nel dibattito politico, sia domestico che internazionale.
Tra l'agosto del 2015 e giugno 2018, Ankara ha fatto erigere un muro alto tre metri lungo la maggior parte dei suoi 911km di frontiera con la Siria. Il confine diventa quindi un luogo (e un concetto) semi-permeabile, difficilmente attraversabile, spesso mortifero. Un non-luogo di sofferenza, violenza e discriminazione, che esclude e divide arbitrariamente: violazione di futuri (im)possibili, i futuri che non verranno. Il suo attraversamento un game aleatorio, in cui ci si gioca tutto; così, a volte, può ridare speranza e futuro a chi è abbastanza fortunato da oltrepassarlo, per rinascere sull'altro lato. Per tutti gli altri, resta solo l'impotenza della civiltà: la crisi identitaria di un'umanità incapace di essere umana.


Mondo Internazionale APS - Riproduzione Riservata ® 2024

Condividi il post

L'Autore

Giuliana Băruș

Studi in Giurisprudenza e Diritto Internazionale a Trieste.
Oltre che di Diritto (e di diritti), appassionata di geopolitica, giornalismo – quello lento, narrativo, che racconta storie ed esplora mondi fotoreportage, musica underground e cinema indipendente.

Da sempre “permanently dislocated un voyageur sur la terreabita i confini, fisici e metaforici, quelle patrie elettive di chi si sente a casa solo nell'intersezionalità di sovrapposizioni identitarie: la realtà in divenire si vede meglio agli estremi che dal centro. Viaggiare per scrivere soprattutto di migrazioni, conflitti e diritti e scrivere per viaggiare, alla ricerca di geografie interiori per esplorarne l’ambiguità e i punti d’ombra creati dalla luce.

Nel 2023, ha viaggiato e vissuto in quattro paesi diversi: Romania, sua terra d'origine, Albania, Georgia e Turchia.
Affascinata, quindi, dallo spazio post-sovietico dell'Europa centro-orientale; dalla cultura millenaria del Mediterraneo; e dalle sfaccettate complessità del Medio Oriente.

In Mondo Internazionale Post è autrice per la sezione Organizzazioni Internazionali”.

Tag

Turchia Gaziantep Siria Unione Europea Terremoto Immigrazione