USA & UNCLOS

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  Matteo Gabutti
  26 febbraio 2023
  8 minuti, 37 secondi

Lo scorso 10 dicembre ha segnato i quarant’anni dall’apertura delle firme per la Convenzione delle Nazioni Unite sul diritto del mare avvenuta nel 1982. Comunemente nota come UNCLOS, questa convenzione rappresenta uno dei capisaldi del diritto internazionale in quanto incorpora in un unico strumento le regole tradizionali relative all'utilizzo degli oceani e delle loro risorse, introducendo al contempo nuovi concetti giuridici che approfondiscono specifiche aree della legge marittima e affrontano nuove problematiche. Ad oggi, la Convenzione annovera 168 membri, inclusa l’Unione Europea, ma anche un assente eccellente.

La mosca bianca – o pecora nera – in questione è nientemeno che la potenza vincitrice della Guerra Fredda, quegli Stati Uniti che, nelle parole dell’allora Presidente Clinton pronunciate nel 1993, proclamavano dinanzi all’Assemblea Generale delle Nazioni Unite di voler “rimanere coinvolti e fare da guida”. Un anno dopo quel celebre discorso, nel novembre 1994, l’UNCLOS entrò in vigore ma senza la ratifica di Washington.

In tutto questo tempo gli USA hanno così ospitato un dibattito ancora aperto tra chi sostiene la necessità dell’approvazione da parte del Senato e chi si ostina a mantenere inalterato lo status quo. Intanto, la situazione a livello globale è fortemente mutata: gli effetti del cambiamento climatico intaccano sempre più seriamente gli interessi strategico-economici di ogni Paese; al modello unilaterale della “fine della storia” previsto da Francis Fukuyama si è gradualmente sostituito un (dis)ordine mondiale policentrico e gli equilibri di potere che coronavano gli States come potenza egemone paiono in forte discussione. In questo articolo cercheremo dunque di riassumere le posizioni in merito alla questione UNCLOS per gli Stati Uniti a fronte delle nuove sfide che dovranno affrontare.


Confini marittimi

Uno dei punti fondamentali della Convenzione consiste nella classificazione delle diverse aree marine, ovvero quelle acque poste a specifiche distanze dalla costa in cui uno Stato litorale è intitolato a certi diritti e doveri, essenzialmente nella gestione del transito e delle risorse. In base all’accordo, oltre a quelle nazionali, un Paese costiero esercita la sovranità sulle acque territoriali fino a 12 miglia nautiche dal litorale – un miglio nautico corrisponde a 1.852 km. Quindi, fino a 200 miglia nautiche esso solo gode del diritto di sfruttamento delle risorse naturali nella propria zona economica esclusiva (ZEE) nonché di tutte quelle non viventi presenti entro la sua piattaforma continentale. Se quest’ultima eccede la ZEE, lo Stato litorale può tentare di estendere i propri diritti fino a un massimo di 350 miglia nautiche raccogliendo e presentando un rapporto alla Commissione sui limiti della piattaforma continentale. Al di là, vi sono le acque internazionali, dove ogni Paese ha il diritto di navigazione, sorvolo, pesca, ricerca scientifica ecc.

Oggi le principali arene dove si scontrano varie pretese territoriali giacciono nel Mar Cinese Meridionale e nell’Artico, ovvero, entrambi ricchi bacini ittici e idrocarburici nonché crocevia di rotte commerciali attualmente o potenzialmente fondamentali. In particolare, il primo è reclamato a gran voce da Pechino sulla base della controversa “linea dei nove tratti” (Nine-dash Line) per la difesa della Cina continentale e la proiezione di potere nella propria sfera d’influenza. Il secondo, d’altro canto, sta assumendo un’importanza crescente grazie allo scioglimento del ghiaccio, che faciliterebbe il transito di navi e l’estrazione di petrolio e gas naturale.


Perché no

Le prime esitazioni statunitensi, avanzate dall’allora Presidente Reagan, nascevano essenzialmente dal timore che l’UNCLOS potesse sprecare ricche opportunità economiche – specialmente riguardo all’estrazione mineraria in alto mare, ponendola sotto il controllo dell’Autorità internazionale dei fondali marini (ISA). Tali preoccupazioni furono tuttavia temperate dalle rinegoziazioni della Convenzione degli anni ’90 che portarono l’Amministrazione Clinton ad appoggiare l’adesione degli States. In tal senso, come riportato da Lara Malaver, guardiamarina della US Navy, le vere ragioni della mancata ratifica nel 1982 sarebbero state più ideologiche che pratiche: la scelta di Reagan si spiegherebbe soprattutto con l’intento di opporsi alla globalizzazione sottesa alla Convenzione, volta a condividere ricchezza e risorse con Paesi in via di sviluppo o senza sbocco sul mare. Infatti, l’essenza del trattato consisterebbe nel corrompere questi ultimi per far loro accettare norme sulla libertà di navigazione, secondo la lettura dell’UNCLOS propagandata da think thank liberisti e conservatori di un certo calibro.

Secondo la Heritage Foundation, l’adesione alla Convenzione sarebbe semplicemente inutile. Attraverso un’ottica fortemente realista, infatti, ciò che permette agli Stati Uniti di promuovere il rispetto della libertà di navigazione e di scoraggiare le altrui pretese territoriali sarebbe il loro ruolo di prima forza navale del pianeta, mentre arginare una Cina emergente con la Convenzione equivarrebbe ad illudersi che la “carta sconfigge il sasso”. In effetti, Pechino non esita a rigettare qualunque sentenza avversa emessa da un tribunale internazionale, come accaduto nel caso Filippine v. Cina dinanzi alla Corte Permanente di Arbitrato nel 2016. Di conseguenza, i benefici di una ratifica verrebbero schiacciati dai costi, che includerebbero cause legali atte a “spennare gli Stati Uniti […] per fare avanzare l’agenda del cambiamento climatico” e l’obbligo di “pagare royalties per la produzione di petrolio e gas sulla propria ‘piattaforma continentale estesa’ a un corpo internazionale in Giamaica” – sede dell’ISA.


Perché sì

D’altro canto, proprio il caso del 2016 si offre a un’interpretazione diametralmente opposta. Non riconoscendo la giurisdizione della Corte – la cui decisione negava ogni base legale alle rivendicazioni nel Mare Cinese Orientale –, infatti, Pechino ha schivato i rimproveri di Washington puntando il dito contro l’ipocrisia americana riguardo al diritto internazionale marittimo. Dopotutto, come recita candidamente un articolo del TIME, perché un Paese membro dell’UNCLOS, come la Repubblica Popolare Cinese, dovrebbe accettare le critiche di chi invece si rifiuta di ratificare la Convenzione “agendo [nel mentre] come il poliziotto oceanico del mondo”?

Rimanendo in quelle acque, come affermato da James Borton, per gli USA l’accesso all’UNCLOS potrebbe agevolare il coinvolgimento dei dieci membri dell’ASEAN nella promozione di una pax americana fondata sul diritto internazionale. La ratifica potrebbe quindi convincere Vietnam, Malesia, Brunei e Filippine – tutti Paesi litorali con interessi contrapposti a quelli di Pechino – che “gli Stati Uniti non stanno più solamente offrendo vuote promesse e retorica geopolitica”. Per di più, la stessa Marina militare statunitense di fatto già accetta e rispetta le norme della Convenzione come parte del diritto consuetudinario, il quale essendo però non scritto, presta il fianco ai capricci di altre nazioni e non prevede alcun sistema di arbitrato.

Inoltre, quanto all’Artide, come evidenziato dal Professor Bruno Pierri, il fondale frastagliato risulta ideale per le dispute territoriali, con ogni Paese artico che tenta di estendere la propria piattaforma continentale. E sebbene Washington si opponga a Mosca, ormai la capitale con maggiori aspirazioni espansionistiche, le sue proteste risultato gravemente smussate a causa della sua mancata partecipazione all’UNCLOS. Tra le altre cose, il trattato consente ai rappresentanti dei propri membri di operare presso la Commissione sui limiti della piattaforma continentale, alle cui sedute viene però escluso ogni osservatore esterno, precludendo così agli States qualsiasi commento nell’unica sede capace di emettere raccomandazioni definitive e vincolanti in materia.

Infine, il Professor Mark Nevitt riassume le 3 grandi sfide per la governance marittima del XXI secolo e che renderebbero auspicabile la ratifica dell’UNCLOS nelle “tre C della legge del mare”: Cina, cambiamento climatico, credibilità. Stando al Professore, sebbene nessuna delle tre possa essere magicamente risolta col mero accesso degli USA alla Convenzione, senza quest'ultimo la situazione non farebbe che deteriorare per Washington. Verosimilmente, solo così gli Stati Uniti potrebbero accedere ai tavoli che contano – dalla Commissione sui limiti della piattaforma continentale all’ISA – e schivare le accuse d’ipocrisia, sempre ammesso che vogliano ancora “rimanere coinvolti e fare da guida”.

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Fonti consultate per il presente articolo:

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L'Autore

Matteo Gabutti

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Matteo Gabutti è uno studente classe 2000 originario della provincia di Torino. Nel capoluogo piemontese ha frequentato il Liceo classico Massimo D'Azeglio, per poi conseguire anche il diploma di scuola superiore statunitense presso la prestigiosa Phillips Academy di Andover (Massachusetts). Dopo aver conseguito la laurea in International Relations and Diplomatic Affairs presso l'Università di Bologna, al momento sta conseguendo il master in International Governance and Diplomacy offerto alla Paris School of International Affairs di SciencesPo. All'interno di Mondo Internazionale ricopre il ruolo di autore per l'area tematica Legge e Società, oltre a contribuire frequentemente alla stesura di articoli per il periodico geopolitico Kosmos.

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Matteo Gabutti is a graduate student born in 2000 in the province of Turin. In the Piedmont capital he has attended Liceo Massimo D'Azeglio, a secondary school specializing in classical studies, after which he also graduated from Phillips Academy Andover (MA), one of the most prestigious preparatory schools in the U.S. After his bachelor's in International Relations and Diplomatic Affairs at the University of Bologna, he is currently pursuing a master's in International Governance and Diplomacy at SciencesPo's Paris School of International Affairs. He works with Mondo Internazionale as an author for the thematic area of Law and Society, and he is a frequent contributor for the geopolitical journal Kosmos.

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