Tra iper-visibilità e invisibilità: madri migranti nel soccorso umanitario e la prima accoglienza in Italia

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  30 June 2022
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Abstract

A seguito della crisi migratoria del 2015, si è assistito alla trasformazione del regime di confine europeo, e in particolare alla svolta securitaria e umanitaria del controllo delle frontiere. La rotta del Mediterraneo Centrale espone a particolari rischi e violazioni le donne rifugiate, le quali rappresentano il soggetto umanitario per eccellenza poiché rese simbolo di vulnerabilità dal discorso umanitario. Questo contributo, ispirandosi alla ricerca etnografica che ho condotto tra Palermo e Lampedusa per l’Università di Amsterdam, esplora l’esperienza della maternità nei luoghi della prima accoglienza e dell’assistenza umanitaria all’arrivo in Italia. Muovendo una critica all’approccio umanitario, esso apre una discussione sulla responsabilità politica della tutela dei rifugiati e del rispetto dei diritti e guarda alla prospettiva di un’alternativa più sostenibile per l’accoglienza e l’integrazione in cui la società civile assume particolare importanza.

a cura di

Emma Conti - Junior Researcher Mondo Internazionale G.E.O. Cultura & Società



1. Introduzione

A partire dalla crisi migratoria del 2015, con la svolta securitaria delle politiche migratorie europee, abbiamo assistito alla trasformazione dei confini dell’UE. La progressiva criminalizzazione della migrazione ed l’esternalizzazione delle frontiere hanno reso la traversata del Mediterraneo estremamente pericolosa e caratterizzata da violenza. La rotta del Mediterraneo Centrale è prevalentemente maschile: le donne, seppur in aumento, rappresentano una minoranza e spesso sono esposte a violenze di genere e abusi sessuali lungo il viaggio. Esse sono spesso considerate le più a rischio, trattate come “l’eccezione umanitaria” dal momento del soccorso in mare e durante le procedure per la richiesta di protezione internazionale. Nello scenario umanitario dell’accoglienza, le donne incinta o accompagnate da bambini, sono percepite come soggetti particolarmente vulnerabili e hanno un ruolo fondamentale nella performance della benevolenza occidentale. Tuttavia, l’ampia attenzione pubblica rivolta alle rifugiate con bambini raramente si traduce in un adeguato sistema di protezione e supporto che riconosca le reali necessità, piuttosto fissa categorie di vulnerabilità e stereotipi di genere.

La discussione che segue consiste nelle riflessioni che hanno guidato e che sono emerse dalla ricerca etnografica che ho condotto per l’Università di Amsterdam tra gennaio e aprile 2022 in Sicilia, tra Palermo e Lampedusa. Attraverso l’osservazione sul campo e le conversazioni con operatori umanitari, assistenti sociali, avvocati e migranti, la ricerca ha avuto l’obiettivo di studiare l’impatto degli interventi umanitari sull’esperienza della maternità delle madri migranti all’arrivo in Italia. Il presente contributo discute la figura delle rifugiate nel discorso umanitario osservando come la percezione della vulnerabilità è formata in parte dall’idea paternalista di donna come vittima, e in parte dalle conseguenze pratiche delle violenze e i ruoli di genere lungo la rotta migratoria. Esplorando il tipo di risposta all’emergenza umanitaria, questa analisi vuole evidenziare il ruolo essenziale della società civile nell’affiancare, e spesso sostituire, lo Stato nel ruolo di protezione delle persone e dei diritti, guardando alla prospettiva di un’alternativa all’approccio umanitario attuale.

La ricerca conclude che, osservando l’assistenza alla maternità nella prima accoglienza e nei contesti umanitari, è possibile comprendere come gli interventi spesso si limitino a proteggere corpi biologici e ridurre la sofferenza nell’immediatezza dell’emergenza, spesso negando la complessità politica e sociale dei soggetti e impedendo un reale percorso di integrazione.

2. Donne rifugiate tra securitizzazione e umanitarismo

Nel 2015, la cosiddetta “crisi dei rifugiati” ha segnato un momento decisivo per l’inasprirsi delle politiche migratorie europee e per la svolta umanitaria del controllo delle frontiere (Rozakou, 2020). La crescente securitizzazione dei confini e la criminalizzazione della migrazione hanno reso l’attraversamento del Mediterraneo “una questione di vita o di morte” (Walters, 2011), e trasformato l’assistenza umanitaria in una nuova pratica di controllo (Collyer, 2020).

I valori umanitari sono stati compromessi progressivamente da interessi di sicurezza per rispondere all’immediatezza dell’emergenza migratoria, trascurando le cause profonde della migrazione forzata e coprendo gravi violazioni dei diritti umani. Tale trasformazione è particolarmente evidente nell’Europa meridionale dove confluiscono le pressioni per proteggere la “fortezza d’Europa” dagli “invasori” stranieri. Lampedusa e Palermo, dove è stata condotta la ricerca, vista la loro posizione geografica e soprattutto date le decisioni politiche che le hanno trasformate in terre di confine, sono diventate simbolo di frontiera tra il “Nord e il resto del Mondo” (Cuttitta, 2014). In questo “spettacolo di confine” (Cuttitta, 2012), le donne e i bambini hanno un ruolo particolarmente importante, visti solo attraverso le loro vulnerabilità, essi sono rappresentati come vittime e trattati contemporaneamente come soggetti umanitari “per eccellenza” e come “eccezione umanitaria” (Pinelli, 2019).

Secondo il discorso umanitario, le rifugiate sono vittime bisognose di protezione, esse rappresentano il soggetto umanitario universale e, in virtù della loro presunta fragilità, ad esse sono riservati trattamenti eccezionali. Nonostante le donne appaiano sistematicamente privilegiate dagli interventi umanitari, in realtà i loro bisogni sono spesso presupposti dall’idea astratta di vulnerabilità, senza riconoscere i bisogni specifici e reali degli individui. Secondo il femminismo postcoloniale, questo universalismo astorico prodotto dalla retorica umanitaria silenzia le esperienze vissute e le voci delle donne rifugiate rendendo i soggetti femminili invisibili (Malkki, 1996). Nei contesti umanitari e nella narrazione mediatica le rifugiate sono contemporaneamente rese iper-visibili e invisibili dal discorso securitario e umanitario; infatti, nonostante l’enorme rappresentazione mediatica che ricevono come soggetti fragili, vista la loro condizione fisica, esse – nella propria individualità e storicità – cadono tra le maglie di un sistema incapace di accoglierle e riconoscerle in quanto individui (Pinelli, 2017).

La categoria umanitaria “donne e bambini” rappresenta la perfetta immagine di sofferenza e minaccia alla vita. Secondo la letteratura postcoloniale l’immagine composita della Donna del Terzo Mondo (Mohanty, 1984) con figli diventa una sorta di simbolo religioso di “pietas” che deve evocare nell’osservatore sentimenti di compassione e umanità (Pinelli, 2017; Kapur, 2002). Tale immagine rafforza l’idea della Donna del Terzo Mondo impotente, bisognosa di protezione e, nascondendo le esperienze vissute (Kapur, 2002), giustificherebbe l’intervento istituzionale e il controllo umanitario nelle più intime sfere della vita privata, come ad esempio la cura di sé, dei figli o la gravidanza. Alcune pratiche di assistenza umanitaria nascondono volontà politica di controllo e semplificazione, imponendo e cristallizzando alcuni ruoli e aspettative di genere, essi negano la soggettività e l’agency alle rifugiate lungo la rotta migratoria (Pinelli, 2017; Fassin, 2007a). Impossessandosi della retorica e dei valori umanitari, il discorso securitario strumentalizza e istituzionalizza l’aiuto umanitario come risposta - alle volte armata e violenta - alla crisi migratoria (Campesi, 2014). In questo quadro, la vulnerabilità diventa chiaramente una pratica di confine (Garelli e Tazzoli, 2016) e la compassione rivolta alle rifugiate è strumentalizzata per la performance della buona pratica di confine (Cutitta, 2012). Mostrando le autorità impegnate nel salvare “vite nude”, ossia corpi depoliticizzati, (Agamben, 2005) e nell’assistere soggetti vulnerabili (Pinelli, 2019), l’attenzione pubblica viene distolta dalle violenze e dalle violazioni dell’obbligo internazionale di protezione dei rifugiati e le pratiche di sorveglianza dei confini giustificate.

3. Maternità in transito: violenza nel percorso migratorio

Nonostante il fenomeno migratorio nel Mediterraneo Centrale continui ad essere caratterizzato da una prevalenza maschile, la presenza di donne e bambini è in aumento e, pur rappresentano una piccola percentuale, sta trasformando il panorama migratorio e il sistema di accoglienza in Italia (Quagliariello, 2021). Dal 2000 si è osservata una crescita delle donne incinte in arrivo in Europa attraversando il Mediterraneo (Quagliariello, 2021). Secondo sia la letteratura che i partecipanti della ricerca, la gravidanza in questa rotta migratoria, vista la pericolosità e l’incertezza che la contraddistingue, è raramente una libera scelta. L’aumento osservato sembra piuttosto legato alla diffusione degli abusi sessuali lungo il viaggio in Niger e, in particolare, nei centri di detenzione in Libia prima della traversata (Grotti et al., 2019, Quagliariello 2021). In seguito alla securitarizzazione dei confini e la criminalizzazione della migrazione, che si riflettono nei processi di esternalizzazione dei confini e nelle politiche di contenimento nei centri di identificazione e detenzione, la rotta del Mediterraneo Centrale è sempre caratterizzata da grande violenza. Tuttavia, le donne nere e migranti, a causa della loro identità di genere ed etnica e il loro status socioeconomico sono rese spesso più vulnerabili. La forte sessualizzazione dei loro corpi e il loro ruolo di madri ha un grande impatto sulla loro esperienza migratoria, esponendole a particolari violenze di genere e abusi sessuali. Le violenze sessuali e lo stupro sono utilizzati in modo punitivo ed estrattivo contro le donne migranti, essi sono così frequenti da essere considerati “il prezzo da pagare per attraversare il mare” o “parte inevitabile del viaggio per raggiungere l’Europa” (Alarmphone, 2018; Freedman, 2015). Questo è esemplificato dalle numerose gravidanze indesiderate all’arrivo e da diverse testimonianze che raccontano del valore transazionale dei rapporti sessuali, volontari o forzati, per poter pagare i carcerieri e i trafficanti e poter continuare il proprio progetto migratorio (Freedman, 2015; 2016).

La violenza sessuale lungo il percorso migratorio è talmente diffusa da essere sistematica e spesso normalizzata, sia da molte donne che accettano di correre il rischio pur di partire, sia dalla risposta umanitaria che presuppone che la maggioranza delle donne in arrivo sia stata vittima di abusi lungo il viaggio. La normalizzazione della violenza di genere comporta la medicalizzazione del problema da parte del discorso umanitario, che sempre più di frequente se ne occupa, rischiando di ridurlo ad una questione di violazione fisica contro il corpo biologico di una donna. Tuttavia, considerare la violenza di genere unicamente nella sua dimensione materiale, richiede un immediato intervento medico, ma non permette di occuparsi degli altri molteplici livelli che costituiscono la violenza di genere e riguardano soprattutto i rapporti di potere (Ticktin, 2011).

Medicalizzare lo stupro significa non riconoscere la natura politica della violenza di genere e permette solo una temporanea risposta all’urgenza medica della salute del feto e della madre, la prima assistenza psicologica e l’aborto. Ridurre la questione a un problema di natura umanitaria e medica limita il possibile intervento a un generico e neutro presente, ma non consente di riconoscere le responsabilità politiche nel passato e blocca maggiore accountability nel futuro (Ticktin, 2011).

Sicuramente la frequenza delle gravidanze indesiderate e degli abusi sessuali rende l’assistenza medica e l’accesso all’aborto una componente indispensabile nell’assistenza alla maternità delle donne migranti. Tuttavia, esiste il rischio che il sistema di accoglienza riduca le donne migranti a corpi biologici violati, senza tutelare la loro agency e senza soffermarsi sulle violenze e le disuguaglianze sistemiche. La diffusione degli abusi sessuali in un sistema caratterizzato da così evidenti squilibri di potere, rende necessario riflettere intorno alla capacità dei soggetti migranti di agire liberamente durante il viaggio e sulla distinzione tra migrazione libera e forzata (Alarm phone, 2018). Inoltre, sollecita la responsabilità dei governi che scelgono di mantenere un sistema migratorio che antepone la sicurezza dei confini alla tutela delle persone.

Il prossimo paragrafo mette in evidenza come il sistema umanitario risulta inadeguato a rispondere alla complessità delle esperienze individuali e a garantire un supporto effettivo alle madri migranti durante il percorso di integrazione.

4. “Women and Children first”: l’eccezione umanitaria e il percorso parallelo

In risposta alle vulnerabilità, sia quelle ascritte dal discorso umanitario sia quelle risultanti dal viaggio, la prima accoglienza in Italia e in Europa prevede un percorso parallelo e privilegiato per le donne e i bambini. L’assistenza alla maternità delle donne migranti è descritta dalla letteratura e dai mass media come un’emergenza nell’emergenza, richiede quindi delle risposte immediate ed eccezionali (Grotti et al., 2019). In risposta a questa riconosciuta vulnerabilità, le donne incinta e i minori hanno, fin dalla prima assistenza, un accesso prioritario all’assistenza sanitaria e umanitaria rispetto agli altri migranti (Sahraoui, 2020). Un intero sistema di accoglienza è stato disegnato per offrire loro maggiore tutela; tuttavia, questo tipo di privilegio sembra piuttosto nascondere la volontà di sorvegliare, ordinare e gestire le categorie così come sono riconosciute dal sistema dell’asilo in Europa. La medicalizzazione e categorizzazione rischia di essere uno strumento biopolitico di gestione dei flussi migratori (Ticktin, 2011) e la mia ricerca, confermando quanto presente nella letteratura, suggerisce che questo può avvenire attraverso pratiche di contenimento e sorveglianza dalla primissima accoglienza, durante il salvataggio e lo sbarco, fino al monitoraggio della maternità negli spazi dedicati alla protezione dei rifugiati.

Nel paradosso umanitario tra “cura” e “controllo”, spesso le madri migranti sono esposte ad ulteriori rischi e violenze; infatti, la priorità politica di controllo e allontanamento dei migranti irregolari rischia di prevalere sulla protezione dei diritti umani. Donne e bambini sono rappresentati come categoria vulnerabile ed eccezione umanitaria, di cui vengono ufficialmente riconosciuti i bisogni specifici e viene espressa la necessità di un trattamento speciale. Tuttavia, molti lavoratori del terzo settore che sono stati da me intervistati durante la ricerca, sostengono che esiste un’enorme negligenza e incompetenza nel gestire queste specificità e che troppo spesso nel sistema non c’è né tempo né spazio per un effettivo trattamento differenziato. Guidato dall’ideologia securitaria, l’approccio umanitario nei contesti studiati sembrerebbe risultare nella pericolosa mancanza di supporto medico e psicologico, nell’occultamento di informazioni medico e legali essenziali, nel negato accesso all’aborto sicuro e legale e ad ulteriori violenze dovute alla mancanza di mediazione linguistica e culturale che possono addirittura sfociare nella forzata separazione dei figli dalle madri. La mancanza di competenze linguistiche e interculturali e l’incapacità di considerare la dimensione di genere producono spesso incomprensioni e ulteriori violenze che vengono istituzionalizzate. Secondo la letteratura attorno ai confini umanitari, il controllo biopolitico riduce le persone in movimento a “vita nuda” (Agamben, 2005, Fassin, 2007b), specialmente le donne sono considerate unicamente come vita biologica in pericolo e questo impedisce una reale comprensione dei bisogni individuali e il riconoscimento delle donne come attrici politiche e sociali.

Come questa discussione suggerisce, la maternità è un complesso processo interpersonale che solleva questioni amministrative, mediche, legali ed etiche (Grotti et al., 2017) e richiede una complessa rete di servizi, molto più ampia delle sole strutture ospedaliere, che accompagnino la madre nel parto e nella cura dei figli. Seguire l’esperienza della maternità durante la prima assistenza umanitaria e durante i primi stadi nel processo di asilo, ha permesso di osservare come presupposti paternalisti e razzisti sono incorporati nelle pratiche umanitarie per svelare le diverse forme di ingiustizia riproduttiva che le madri migranti affrontano (Quagliariello, 2021).

Nel contesto umanitario, la maternità è tolta dalla sfera privata e trasformata in una questione politica e di dibattito pubblico, attorno ad essa, si giocano rapporti di potere che rendono il corpo di una donna uno spazio politico per l’intervento – umanitario e medico – istituzionale (Pinelli, 2017) che si serve e riproduce la retorica della vulnerabilità (Grotti et al., 2018; Fusaschi, 2011).

In modo piuttosto violento, il personale medico e umanitario ha potere decisionale sulla mobilità e la vita delle donne migranti, senza riconoscere o rispettare la loro autodeterminazione sui propri corpi e famiglie (Sahraoui, 2020). Nelle strutture di prima accoglienza, valori morali e insegnamenti sono trasmessi attraverso tecniche disciplinari che, agendo sulle linee di genere, razza e classe, costruiscono delle nuove “rieducate” identità femminili (Pinelli, 2017). Nonostante l’intento caritatevole, la performance pubblica di cura e protezione delle rifugiate sembra avere uno scopo di sorveglianza molto chiaro (Sahraoui, 2020): la responsabilità umanitaria verso le donne e i bambini sembra partire dal presupposto, di stampo coloniale, che esse siano incapaci di decidere per sé e di prendersi cura dei propri figli.

Dopo aver esposto alcune delle criticità del sistema umanitario nel tutelare anche le madri rifugiate, ossia i soggetti che si prefigge di proteggere, nella discussione che segue ci si interroga sulla responsabilità politica dell’assistenza umanitaria e si tratteggia il ruolo della società civile nel colmare il vuoto lasciato dalle istituzioni nella tutela dei rifugiati e nel proporre un’alternativa per superare i limiti dell’approccio umanitario.

5. Oltre l’approccio umanitario: il ruolo della società civile

Da quello che è emerso, osservando i luoghi della prima accoglienza in Italia e intervistando lavoratori e volontari del terzo settore, il mantenimento di un sistema di accoglienza disorganizzato che offre la minima sopravvivenza e scoraggia futuri arrivi con politiche di esclusione sembra derivare direttamente dall’attuale politica europea di immigrazione e asilo. La disorganizzazione e la mancata distinzione dei compiti nelle diverse fasi dell’accoglienza e della richiesta di asilo sembra esistere per rendere l’accoglienza meno efficiente e sollevare lo Stato dalla responsabilità, a discapito dei diritti.

È chiaro che gli interventi umanitari hanno assunto un ruolo permanente e istituzionalizzato nella gestione dei flussi migratori; tuttavia, è utile distinguere tra il ruolo delle organizzazioni non governative e dei volontari che offrono la prima assistenza e si battono per la tutela dei diritti dei rifugiati e quello delle istituzioni che in nome di principi umanitari in realtà lavorano al mantenimento dei confini (Pallister-wilkins, 2018). Mentre gli strumenti dell’assistenza umanitaria - alla luce di quanto detto sopra - svolgono un ruolo importante nel controllo dei flussi, la società civile è impegnata attivamente per affiancare – o sostituire – lo Stato nel ruolo di protezione dei diritti e tutela dei cittadini stranieri. Questo si osserva ad esempio nell’impegno delle ONG nelle attività di Ricerca e Soccorso nel Mediterraneo. Nonostante il soccorso in mare sia un obbligo degli Stati previsto dalle leggi internazionali, spesso esso rimane solo sulla carta. Le organizzazioni della società civile che sorvegliano il mare per assistere i naufraghi, rispettare gli obblighi internazionali e salvare le vite in mare, sono costantemente accusate di favorire l’immigrazione clandestina. Un tale processo di criminalizzazione della solidarietà e delle ONG sembra mirare a limitare la loro presenza nel Mediterraneo e a silenziare la loro pericolosa voce di denuncia verso il sistema di protezione dei confini. La decisione di limitare l’autonomia della società civile coinvolta nella protezione dei rifugiati per consentire solo una parziale tutela delle vulnerabilità riflette la volontà politica di rendere il viaggio verso l’Europa estremamente pericoloso e costringe alcune ONG a limitare il proprio attivismo politico per poter continuare ad offrire mero soccorso umanitario (Dadusc & Denaro, 2021). In realtà, separare il politico e l’umanitario è illusorio; infatti, lo spazio umanitario è costantemente negoziato tra attori politici. Le stesse pratiche e principi umanitari hanno natura politica e il soccorso umanitario risponde a questioni politiche frutto di relazioni storiche e di potere (Pallister-Wilkins, 2018, Fassin, 2007a). Ad esempio, le ONG coinvolte nella primissima assistenza sono una parte della risposta all’emergenza migratoria ma non possono costituire una soluzione, e si impegnano nella creazione di luoghi sicuri e protetti per i soggetti più vulnerabili; tuttavia, questo tipo di tutela e di cura è offerto in spazi inadatti (come il ponte della nave di soccorso) o resi ostili (come i porti al momento dello sbarco). I luoghi della prima accoglienza sono sicuramente inadatti a garantire un’esperienza di maternità sicura e libera, anche in questo, l’approccio umanitario a causa della sua natura emergenziale fallisce e non può rispondere alle specificità dei bisogni delle persone. Per assicurare un migliore e più comprensivo sistema di cura occorre che l’accoglienza e la protezione dei rifugiati in Italia superi il modello umanitario focalizzato sulla vulnerabilità e la sopravvivenza. In questo processo, l’impegno della società civile e dell’associazionismo è essenziale e offre un’alternativa preziosa che tenta di superare un approccio unicamente umanitario per ripensare un sistema di accoglienza e di integrazione che sappia rifiutare gli interventi “one size fits all” e sia sensibile alle specificità culturali e di genere. Un sistema che non si accontenti di garantire la semplice sopravvivenza ma sostenga le rifugiate nell’ottenimento della propria autonomia senza renderle dipendenti dai servizi.

La mia ricerca ha testimoniato che, in questo contesto sociopolitico contraddistinto dal discorso umanitario e securitario, il tessuto associativo a Palermo è particolarmente attivo e fitto includendo molti diversi attori: esistono vari programmi che mirano a rispondere alle necessità specifiche delle donne migranti, dall’assistenza alla maternità, la cura dei figli, l’emersione dalla tratta e la violenza domestica. Tuttavia, tutti questi tentativi (testimoniati dalla quantità di cliniche e case protette per donne e bambini disseminati nella città) mostrano come spesso la responsabilità umanitaria si limiti a rispondere alla vulnerabilità delle donne per la loro condizione fisica, se incinta, o il loro ruolo di vittime o di madri. Mentre, secondo i partecipanti della ricerca, esiste un'emergenza silenziosa che viene completamente trascurata dalle autorità. Le donne migranti soffrono la più estrema condizione di esclusione sociale e mancanza di opportunità per una reale integrazione. L’isolamento delle madri migranti è il risultato degli ostacoli culturali, linguistici ed economici che devono affrontare. A causa della divisione dei ruoli di genere, le madri migranti spesso sono confinate alla sfera domestica con limitato accesso a una rete di sostegno, ciò impedisce l’apprendimento della lingua e rende complicato gestire le responsabilità di madri e lavoratrici.

Alla luce di questo, appare evidente che l’assistenza alla maternità non può essere limitata alle strutture mediche, ma è necessario un complesso network formale o informale di servizi e strutture che risponda ai molteplici bisogni e necessità interconnessi (Grotti et al., 2017). A Palermo, diversi network informali esistono e supportano le donne offrendo loro servizi come asili nido per i bambini, gruppi di aiuto e muto aiuto, spazi di confronto come arte o danza terapia. Tuttavia, spesso il terzo settore, a causa dell’evidente mancanza di risorse e personale, non riesce a compensare il vuoto lasciato dallo Stato. La società civile offre servizi essenziali, tuttavia le alternative da loro proposte sono bloccate dal diventare reali modelli di integrazione e accoglienza. In relazione a ciò, è stato argomentato che il sistema beneficia dal rendere l’attivismo e l’associazionismo semplici distributori di servizi per assicurare il minimo welfare ai cittadini stranieri, annullando il loro potere critico e trasformativo e bloccando la possibilità di una soluzione sostenibile co-costruita da tutti gli attori sociali per superare i limiti dell’approccio umanitario (Tagliabue, 2021).

6. Conclusione

In questo testo esplorare l’esperienza della maternità nei contesti della prima accoglienza ci ha permesso di riflettere in modo più ampio sul regime di confine europeo e di evidenziare alcune delle criticità dell’approccio umanitario alla crisi migratoria sulla rotta del Mediterraneo Centrale.

Nonostante il sistema riconosca le madri rifugiate come soggetti vulnerabili e preveda, almeno in teoria, un percorso parallelo per il soccorso e la prima accoglienza di donne e bambini per occuparsi dei loro bisogni specifici, in pratica esso spesso fallisce nel riconoscere le reali necessità e offrire l’adeguato supporto. L’identificazione della categoria umanitaria “donne e bambini” giace, infatti, sul discorso paternalista e orientalista che descrive la Donna del Terzo Mondo come vittima vulnerabile. Partendo da tali presupposti la risposta umanitaria non fa che riprodurre tali vulnerabilità, il tentativo di prendersi cura e proteggere le madri migranti, risulta alle volte in pratiche di controllo e risposte alla violenza che sono esse stesse violente.

Seppur non in modo esaustivo, la ricerca ha cercato di esplorare gli effetti dell’approccio umanitario sull’esperienza della maternità per le donne migranti facendo emergere la mancanza di un sistema di accoglienza capace di supportarle oltre alla primissima assistenza umanitaria, ostacolando ulteriormente il processo di integrazione. Mentre la risposta istituzionale si limita a erogare servizi di base, a Palermo la rete di attivismo e associazionismo sembra proporre un’alternativa più sostenibile per un sistema di accoglienza che possa superare l’assistenzialismo umanitario e progettare un nuovo modo di vivere insieme lo spazio urbano nella città simbolo delle migrazioni in Italia.

La risposta all’emergenza dei flussi migratori e le morti nel Mediterraneo è stata limitata all’assistenza umanitaria senza offrire un’alternativa sicura e senza tutelare il diritto di cercare rifugio. Nonostante gli sforzi della società civile nel denunciare le violazioni e offrire tutela ai cittadini stranieri in mare e in terra, sembra esserci una volontà politica nel mantenere l’assistenza inadeguata e minima. Riconoscere le criticità del sistema umanitario e la volontà di controllo e sicurezza che si celano dietro ai gesti di benevolenza, deve spingerci a interrogarci sul concetto di confine e sulle responsabilità delle violenze e delle violazioni dei diritti umani. Questa riflessione potrebbe guidare il progetto di trasformazione verso un nuovo modello di accoglienza che si allontani dalla retorica securitaria-umanitaria e permetta la libertà di movimento e il diritto di asilo.

Tuttavia la propaganda securitaria continua ad essere diffusa e, oggi più che mai, continuano ad essere in vigore i processi di esternalizzazione delle frontiere e le politiche di contenimento degli arrivi. La pandemia del 2020 ha funzionato da catalizzatore di tali processi, e le pratiche contenitive introdotte durante l’emergenza sanitaria potrebbero diventare presto strumenti istituzionalizzati per la gestione degli arrivi a danno dei diritti umani. La progettazione nazionale ed europea di un nuovo modello di accoglienza in collaborazione con la società civile al momento non sembra essere realizzabile nel prossimo futuro date le politiche nazionali che, più che aprire a maggiori spazi di dialogo e alla partecipazione dei rifugiati, ostacolano la solidarietà e la libertà di movimento rendendo difficile la realizzazione di questo progetto.

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