Affrontare la Mutilazione Genitale Femminile: sfide e prospettive di cambiamento

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  Ludovica Raiola
  19 febbraio 2024
  4 minuti, 53 secondi

Canti, danze, cibo, intrattenimento. Una notte di celebrazioni comunitarie. La mattina successiva, le donne della tua famiglia ti accompagnano in una stanza e ti tengono ferma. Come anestetizzante, il più delle volte, un secchio di acqua gelida lasciato all’esterno della casa per tutta la notte. Poi avviene il taglio con qualsiasi tipo di oggetto affilato. Così inizia, per la maggior parte dei casi, una pratica di mutilazione genitale femminile.

Con il termine mutilazione genitale femminile si definiscono tutte quelle procedure che coinvolgono la rimozione parziale o totale degli organi genitali femminili esterni per ragioni non di natura medica, secondo quanto affermato dall’Organizzazione Mondiale della Sanità. Tale pratica è diffusa principalmente in Africa, e, in scala minore, anche in Asia e Medio Oriente. Nonostante sia illegale nella maggior parte degli stati africani, l’OMS stima che più di 4 milioni di bambine ogni anno vengano sottoposte a mutilazione genitale femminile, in età compresa generalmente tra i 9 e i 14 anni. Secondo le statistiche dell’UNFPA, vi è un’alta probabilità che il numero accresca ulteriormente entro la fine del 2030.

Le MFG sono comunemente divise in quattro categorie, a seconda che vi sia la rimozione o l’asportazione del clitoride o delle piccole labbra o se venga attuata l’infibulazione o altre pratiche dannose come forare, incidere, raschiare e cauterizzare l'area genitale.

Tale pratica ha, nella maggior parte dei casi, delle ripercussioni piuttosto gravi sul corpo delle bambine e delle ragazze che la subiscono, quali, ad esempio, difficoltà ad avere normali rapporti sessuali, emorragie, infezioni, anemia, malnutrizione, forti dolori durante il periodo mestruale, specialmente nel caso dell’infibulazione, oltre che un tasso elevato di complicazioni durante il parto e di annessa mortalità infantile.

Il più delle volte, la cerimonia non viene annunciata alle bambine della comunità, le quali non possono prepararsi mentalmente a ciò a cui verranno sottoposte; questo provoca di frequente anche problemi psicologici derivati dalla traumaticità dell'evento e dall'atroce dolore provato durante l'operazione.

La mutilazione genitale femminile rappresenta una violazione dei diritti umani riconosciuti dalla comunità internazionale, quali, ad esempio, il diritto alla non discriminazione, il diritto alla libertà ed alla sicurezza della propria persona, il diritto all’integrità di donne e bambine e il diritto alla salute.

Ma la difficoltà ad osteggiare propriamente le MGF è la percezione della pratica nelle comunità. Per alcune di esse, per esempio, si ritiene che la procedura apporti benefici igienici ed estetici e che promuova la fertilità delle ragazze, preservando la loro reputazione: chi non è stata mutilata, infatti, viene allontanata dalla comunità in quanto impura.

Per altre comunità, come ad esempio quella Masai, la MGF è motivata dalla necessità di definire il sesso biologico d’appartenenza della persona, in quanto si ritiene che il clitoride ricordi un pene e che rimuoverlo sia l’unico rimedio per eliminare ogni traccia di ambiguità sessuale.

In Egitto, Sudan e Somalia la circoncisione femminile è considerata come un modo per garantire la verginità della donna e, con essa, l'onore del clan o della famiglia.

Ma i filoni conduttori che si intrecciano in quasi tutte le culture sono due: il considerare la mutilazione come una dinamica di controllo della sessualità femminile, assopendo, secondo credenza popolare, il desiderio sessuale della donna e rendendo più semplice la sua subordinazione all’uomo, e il vedere la pratica di mutilazione come un rito di passaggio che apre le porte dell’età adulta alle ragazze della comunità e che rappresenta un’accettazione dei valori comunitari. Questa tradizione assume, quindi, il ruolo di pratica di conservazione e di legittimità dell’identità etnica della comunità, la quale, attraverso il riconoscimento sociale pone in essere la propria rivendicazione identitaria rispetto alla cultura di maggioranza.

È chiaro dunque che, alla luce del concetto di rito di passaggio e di riconoscimento e appartenenza alla comunità che viene attribuito a questa pratica, pensare di sradicarla attraverso la politica del rifiuto può portare a conseguenze ancora più disastrose.

Un tentativo di via intermedia che cerchi di conciliare, almeno provvisoriamente, il principio del rispetto dei diritti individuali con quello del rispetto della cultura di appartenenza è dato dal concetto di rito simbolico.

Lo scopo del rito simbolico è quello di eradicare la pratica della mutilazione femminile con un’azione graduale, senza imposizioni proibizionistiche, volta ad eliminare il dolore e gli effetti invasivi ed estremamente dannosi per l’integrità e la salute delle minori e delle donne mantenendo, però, la carica simbolica dell’atto in sè, molto importante anche per le donne stesse della comunità.

Attualmente, le proposte di attuazione di questo tipo di rito sono state diverse, come ad esempio il praticare una puntura simbolica sul clitoride previa anestesia, al preleverare un piccolo lembo della gamba delle bambine e delle ragazze, fino ad arrivare ad un’iniziativa portata avanti in Kenya da due organizzazioni, rispettivamente We World e Amref Health Africa, riguardo la “circoncisione attraverso le parole”, la quale prevede una sensibilizzazione delle ragazze della comunità sui temi della salute riproduttiva, dell’igiene, dell’anatomia e un giorno di celebrazioni collettive con tutta la comunità di riferimento.

La proposta alternativa del rito simbolico ha ricevuto molte critiche, poiché praticarlo sembrerebbe non risolvere il problema della subordinazione femminile, ma possiamo di certo affermare che rappresenti l’inizio di un dialogo con la comunità, attraverso il quale è possibile installare processi di cambiamento che provengono dall’interno delle singole culture, affrontando, in questo modo, con successo, il superamento di questa pratica discriminatoria ed oppressiva e rispettando, allo stesso tempo, il diritto di identità proprio di ogni comunità.

A cura di Ludovica Raiola

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Ludovica Raiola

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Diritti Umani

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