Air - La Storia del Grande Salto

“Non c’è bisogno di multiverso, salti quantici o altro, c’è la realtà che - riportata con una maestria fuori dal comune - ci fa ancora oggi emozionare”.

Sarò auto citazionista ma questa frase è stata quasi una profezia, nel mio ultimo articolo avevo parlato di “non necessità dello straordinario” ma di “volerlo ritrovare nel normale”.

“Air - la storia del grande salto” lo ha fatto.

Atmosfera anni ottanta creata con un oculato utilizzo di immagini di repertorio, colorazioni e filigrana tipica dell’epoca. Citazionismo sconfinato a miti televisivi come A-Team, Supercar e a moltissimi fenomeni di massa dell’epoca che purtroppo la mia generazione ha vissuto solo marginalmente.

Una Nike che deve combattere l'agguerrita concorrenza di Adidas e Converse per strappare il primato di vendita delle sneakers ed entrare in quello delle calzature per il basket. Ben Affleck regista e attore affiancato da compagni del calibro di Matt Damon, Jason Bateman, Chris Messina e Chris Tucker ripercorrono questa magnifica storia di scommesse e fiato sospeso.

Fiato sospeso che ha dell’incredibile perché a pochi centimetri da me, durante la visione, l’epilogo era sotto i miei occhi, Air Jordan ai piedi di chiunque. Che sia proprio questa la forza del film? In fin dei conti, negli ultimi anni, questo racconto, grazie a podcast di grande spessore, alla sempre maggiore popolarità delle sneakers e all’esponenziale crescita della visibilità del basket stesso è stato sulla bocca di tutti.

La linearità con cui viene presentata la storia a livello temporale e la scelta del regista di non sfruttare la figura di Jordan mediaticamente, per portare persone al cinema, rendono il film quello che dovrebbe essere, il racconto di come la Nike ha creduto nella figura di un giovane cestista e di come abbia creato, per la prima volta, una scarpa su misura. Scelta che permette a tutti di seguire la proiezione senza preconoscenze di sneakers, marketing o basket. Il centro è l'intuizione di Sonny Vaccaro, interpretato da un magistrale Matt Damon, che si scontra con tutti persino il suo capo, Phil Knight, cantato da un Ben Affleck sopra le righe, che si sente insultato da agenti di spicco che cadranno in rovina, che deve essere all’altezza di uno dei manager sportivi migliori di tutti, Deloris Jordan. Quest'ultimo deve convincere un giovane testardo a firmare un contratto per una società inferiore alla concorrenza e poco popolare tra quelli della sua età, e deve esprimere dal profondo del suo cuore cosa significherebbe entrare a far parte di quella “famiglia”. Brividi, con quel discorso ho avuto i brividi. Che lascia a Peter Moore l’onore e il fardello di disegnare la scarpa che salverà o farà fallire la società.

Nel ritorno dal cinema ho capito che il film aveva vinto. Quattro persone su quattro si sono messe a confrontare le proprie opinioni sulle Jordan che oggi contano 36 modelli senza contare le variazioni di colore, le edizioni limitate e le custom, ovviamente. Ah e sì, riapre in modo inevitabile la discussione sul GOAT, Jordan? LeBron? Kobe? Shaq? Stockton? Iverson? Potremmo continuare all’infinito.

Non posso aggiungere altro se non consigliarvi questo film che mi ha davvero stupito sotto ogni punto di vista, anche registicamente parlando.

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