Nel corso degli ultimi mesi, la protagonista di una nuova fase della guerra commerciale tra Stati Uniti e Cina è la Cambogia. Il piccolo stato del Sud-est asiatico è oggi tra gli attori centrali di un conflitto economico globale che, pur non riguardandolo direttamente, sta influenzando in modo profondo la sua economia, la sua politica estera e il suo posizionamento geopolitico. Difatti, le tariffe dell’amministrazione Trump hanno colpito soprattutto la Cambogia, arrivando al 49% su una vasta gamma di prodotti importati dal paese.
La misura, giustificata da Washington come necessaria per contrastare pratiche commerciali scorrette, è stata in realtà interpretata come una mossa strategica per colpire indirettamente la Cina, accusata di utilizzare paesi terzi — come appunto la Cambogia — per aggirare le tariffe statunitensi. Questa pratica, nota come transshipment, consiste nel deviare la produzione cinese verso stabilimenti collocati in paesi con cui gli Stati Uniti non hanno in corso guerre tariffarie, per poi esportare i beni in modo apparentemente “neutrale”, sostituendo per esempio la classica etichetta “Made in China” con “Made in Cambodia”.
Come riportato dal Wall Street Journal, l'amministrazione Trump intende “utilizzare i negoziati con più di 70 nazioni per chiedere loro di non permettere alla Cina di spedire merci attraverso i loro Paesi, di impedire alle imprese cinesi di stabilirsi nei loro territori per evitare le tariffe statunitensi e di non assorbire i prodotti industriali cinesi a basso costo nelle loro economie”.
Negli ultimi anni, infatti, la Cambogia ha attirato una crescente presenza di capitali cinesi, questi ultimi in cerca di vie alternative all’esportazione diretta. Ciò è avvenuto soprattutto nei settori tessile, elettronico e manifatturiero, a causa del basso costo del lavoro, delle agevolazioni fiscali e dalla posizione strategica. Secondo stime del think tank PressXpress, circa il 49% delle importazioni cambogiane proviene dalla Cina, tanto da essere definita come il trading partner più significativo, con materie prime che alimentano principalmente l’industria dell’abbigliamento, responsabile di oltre il 55% delle esportazioni totali del paese.
Le autorità americane, però, hanno identificato questa triangolazione commerciale come una minaccia diretta alle politiche protezionistiche di Washington e in quest’ottica, oltre alla tariffa generale del 49%, sono state imposte sanzioni mirate nel settore dell’energia verde. Il Dipartimento del Commercio statunitense ha infatti deciso, ad aprile 2025, di applicare tariffe fino al 3.500% sui pannelli solari importati da Cambogia, Vietnam, Malesia e Thailandia. Una decisione drastica, giustificata dal fatto che molti produttori non avrebbero collaborato con le indagini sul transshipment di componenti cinesi.
Per la Cambogia, queste misure rappresentano un colpo durissimo in quanto l’interdipendenza tra il forte affidamento sulle importazioni di materie prime dalla Cina e la sua necessità di esportare prodotti finiti verso gli Stati Uniti crea un equilibrio delicato. Di fatto, l’economia nazionale, ancora in fase di sviluppo, dipende in modo critico dall’export verso l’Occidente e gli Stati Uniti sono proprio uno dei principali mercati di destinazione per il tessile e l’elettronica cambogiani. L’aumento delle tariffe non solo rende i prodotti locali meno competitivi, ma minaccia direttamente l’occupazione in settori chiave.
Il governo cambogiano si trova ora di fronte a una difficile scelta diplomatica. A riguardo, il primo ministro Hun Manet ha dichiarato: “La Cambogia desidera mantenere una politica estera equidistante. Manteniamo buone relazioni con tutti i paesi, basate sul rispetto reciproco per l'indipendenza, la sovranità e gli interessi comuni... Questa è la posizione ufficiale del Governo Reale della Cambogia. Non ci allineiamo con nessun paese in particolare."
Tuttavia, le dinamiche geopolitiche suggeriscono diversamente, segnalando una crescente dipendenza dalla Cina. Difatti, in occasione della visita del presidente cinese Xi Jinping a Phnom Penh nell’aprile 2025, la Cina ha confermato il finanziamento di un ambizioso progetto infrastrutturale: il canale Funan Techo, un’opera da 1,2 miliardi di dollari che collegherà il fiume Mekong al Golfo di Thailandia. L’obiettivo è migliorare i trasporti interni, facilitare l’export e ridurre la dipendenza dalle rotte via terra che attraversano il Vietnam.
Non si tratta di un caso isolato. La Cambogia è uno dei paesi del Sud-est asiatico maggiormente coinvolti nella Belt and Road Initiative (BRI), un progetto di sviluppo economico e infrastrutturale su larga scala lanciato dalla Cina sotto il presidente Xi Jinping. L’obiettivo è creare una rete di rotte commerciali terrestri e marittime che colleghino la Cina con l'Asia, l'Europa e il resto del mondo, facendo rivivere gli antichi percorsi della Via della Seta. Per ovviare ciò, la BRI prevede investimenti significativi in infrastrutture come ferrovie, porti e progetti energetici nei Paesi partecipanti, facilitando il commercio e aumentando l'influenza economica e politica cinese. In proposito, negli ultimi dieci anni, Pechino ha investito miliardi di dollari in strade, ferrovie, dighe e porti cambogiani. Questo sostegno, se da un lato ha favorito lo sviluppo, dall’altro solleva preoccupazioni sulla crescente influenza politica ed economica della Cina sul paese.
Per adesso, la Cambogia cerca di guadagnare tempo. Il ministro del Commercio ha avviato colloqui con gli Stati Uniti nel tentativo di ottenere esenzioni parziali o un alleggerimento delle tariffe, puntando sul rafforzamento delle procedure doganali e sul tracciamento dell’origine dei beni. Ma senza un chiaro riposizionamento strategico, il paese rischia di rimanere intrappolato in un conflitto che non ha cercato, ma che potrebbe determinarne il futuro economico. Senza alcun dubbio, il caso cambogiano dimostra come i conflitti tra grandi potenze abbiano impatti reali e profondi su paesi più piccoli, costretti a scegliere tra interessi divergenti per salvaguardare la propria stabilità.
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