“Sciences Po, Sciences Po, you can’t hide, you’re supporting genocide!”
L’eco delle proteste dei campus americani ha raggiunto il Vecchio Continente, dove da mesi gli studenti domandano alle proprie università di invocare un cessate il fuoco nella Striscia di Gaza e di rendere noti rapporti e partenariati con gli istituti israeliani.
Non ha fatto eccezione Sciences Po, eccellenza europea e mondiale per gli studi politici e fucina della classe dirigente francese. Nel cuore di Parigi, alla mobilitazione studentesca hanno risposto un intervento muscolare delle forze dell’ordine e la sospensione dei fondi regionali decisa da Valérie Pécresse, Presidente del Consiglio della regione dell’Île-de-France, membro del partito di centro-destra Les Républicains (LR).
Dalle petizioni ai cori di denuncia per l’opacità dell’amministrazione universitaria, la parola “genocidio” riecheggia negli androni di 27 Rue Saint-Guillaume, dove kefiah e bandiere palestinesi hanno colorato per settimane l’ecosistema di Sciences Po. Insieme alle camionette delle squadre antisommossa, appostate quasi in pianta stabile all’angolo con Boulevard Saint-Germain e Rue de Grenelle.
Quello universitario non è l’unico milieu ad aver accostato il “crimine dei crimini” all’attuale operazione militare condotta dalle Israeli Defense Forces (IDF) nella Striscia di Gaza.
Al tramonto del 2023, il Sudafrica aveva portato Israele di fronte al massimo tribunale dell’ONU, la Corte internazionale di giustizia (ICJ), denunciando la campagna bellica del governo Netanyahu come genocida.
Dura lex, sed (quae) lex?
Secondo l’Art. II della Convenzione sul genocidio
del 1948, atti genocidi contro un gruppo nazionale, etnico, razziale o religioso includono: uccisione, gravi lesioni fisiche e mentali, imposizione di condizioni di vita atte a distruggere il gruppo, misure per impedire le nascite e il trasferimento forzato di bambini.
L’Art. III specifica inoltre come costituisca un crimine non solo l’atto di genocidio, ma anche l’intesa, l’incitamento, il tentativo, e la complicità nel commetterlo. I netti termini formali, tuttavia, collidono con una realtà più opaca, come spiegato dal Prof. William Schabas in una conferenza tenutasi a febbraio a Sciences Po.
“La definizione di genocidio richiede l’intenzione di distruggere un gruppo uccidendone i membri e causando gravi danni fisici e mentali”, afferma il Professore. “Il danno [a Gaza] è piuttosto evidente, ma la vera sfida è l’intenzione”.
Processo alle intenzioni
I dati riportati dall’Ufficio ONU per gli affari umanitari (OCHA) sull’impatto del conflitto a Gaza a partire dal 7 ottobre sono impietosi. Oltre 70'000 unità abitative distrutte, quasi 80'000 feriti e oltre 35'000 vittime. Di queste, il 52% sarebbe costituito da donne e bambini.
Ad aggravare il peso specifico delle cifre vi sono le dimensioni della Striscia. Lunga poco più di Genova, Gaza costituisce una delle zone più densamente popolati del pianeta, con oltre due milioni di abitanti stretti in un fazzoletto di terra pari a un terzo di Roma Capitale. Di questi due milioni, 1,7 sarebbero sfollati secondo le stime delle Nazioni Unite.
Quanto alle intenzioni genocide, Francesca Albanese, attuale Relatore speciale ONU sulla situazione dei diritti umani nei territori palestinesi occupati dal 1967, vi ha dedicato un’intera sezione nel report intitolato Anatomia di un genocidio. In esso si denuncia come una “retorica genocida al vetriolo [abbia] dipinto l’intera popolazione [palestinese] come il nemico da eliminare e rimuovere con la forza”. Esempi includono discorsi deumanizzanti da parte delle alte cariche di Tel Aviv, dal Primo ministro Netanyahu al ministro della difesa Gallant, della società civile e dell’esercito israeliani.
Inoltre, una delle conclusioni più rilevanti riguarda l’uso strategico del linguaggio del diritto internazionale da parte di Israele come “‘camouflage umanitario’ per legittimare la sua violenza genocida a Gaza”. Infine, il report inquadra l’attuale campagna bellica nella “logica genocida integrale al progetto di colonizzazione [di Tel Aviv] in Palestina” antecedente al 7 ottobre.
A metà maggio, un gruppo indipendente di esperti di diritto internazionale ha pubblicato il proprio documento sull’argomento. Nelle oltre cento pagine si elencano prove delle intenzioni genocide di Israele tramite parole – in particolare, il riferimento biblico allo sterminio degli Amaleciti –, atti – dall’uccisione indiscriminata ed en masse di civili palestinesi alla creazione di fosse comuni e alla profanazione di cimiteri nella Striscia – e un contesto politico che “rafforza la supremazia ebrea e previene la possibilità di una soluzione a due Stati”.
Le prove, sostengono gli esperti, indicherebbero che Israele non solo stia commettendo un genocidio, ma lo stia anche direttamente incitando.
Plausibilità
A ciò si aggiunge la stessa ICJ che, nelle misure provvisionali (provisional measures) nel caso Sudafrica v. Israele, ha ritenuto che “almeno alcuni dei diritti invocati dal Sudafrica e per i quali [Pretoria] sta cercando protezione sono plausibili”. Trattandosi di genocidio, le parole della Corte assumono una gravità ancora maggiore.
Ciò detto, le provisional measures non equivalgono a una condanna nei confronti di Israele. Anzi, l’allora Presidente dell’ICJ Joan Donoghue ha rimarcato un distinguo fondamentale spesso trascurato dai media.
“La Corte ha deciso che i Palestinesi avevano il diritto plausibile di essere protetti da genocidio”, ha detto Joan Donoghue ai microfoni della BBC. “[La Corte] ha poi considerato anche i fatti, ma […] non ha deciso che l’accusa di genocidio fosse plausibile”.
Il concetto di ‘plausibilità dei diritti’, introdotto dall’ICJ nel caso Belgio v. Senegal, non ha mai ricevuto una spiegazione chiara e comprensiva. Analizzando la giurisprudenza della Corte, il Dr. Roy Schöndorf, impiegato presso lo studio legale israeliano Herzog, associa al concetto due elementi. Primo, la connessione tra i diritti e il trattato invocati dal Paese richiedente – in questo caso, il diritto dei Palestinesi alla protezione da genocidio e la Convenzione del 1948 invocata dal Sudafrica – deve essere plausibile in abstracto, ovvero indipendentemente dai fatti. Secondo, il Paese richiedente deve presentare dei fatti per supportare l’accusa, indipendentemente dalla loro veridicità, su cui la Corte non è tenuta ad esprimersi per emettere le misure provvisionali. Dunque, la soglia della ‘plausibilità dei diritti’ sarebbe molto bassa.
Tuttavia, come denuncia il Prof. Marko Milanovic, la confusione che offusca il distinguo evidenziato da Joan Donoghue si deve innanzitutto alla Corte stessa. Infatti, pur concentrandosi sulla ‘plausibilità dei diritti’, il Tribunale dell’Aia spesso si concede ad un’analisi fattuale che strizza l’occhio alla ‘plausibilità dell’accusa’.
In questo senso, Sudafrica v. Israele non fa eccezione. Nell’Ordine delle provisional measures, infatti, la Corte cita espressamente ufficiali e agenzie dell’ONU nel descrivere la “situazione umanitaria catastrofica nella Striscia di Gaza”. Inoltre, riporta una serie di affermazioni incriminanti di alti funzionari israeliani, considerando l’allarme di relatori speciali, esperti indipendenti e del Consiglio per i diritti umani riguardo a “‘una retorica chiaramente genocida e deumanizzante’” di Tel Aviv.
L’unica conclusione ragionevole
Alla soglia bassa seppur opaca della plausibilità si oppone quella molto elevata per l’intenzione genocida.
Nel caso Croazia v. Serbia, l’ICJ affermò che l’intenzione si può dedurre indirettamente da prove circostanziali, posto che “è necessario e sufficiente che [l’intenzione] sia l’unica conclusione che possa essere tratta ragionevolmente dagli atti in questione”. Di conseguenza, avverte l’Assistant Prof. Rana Moustafa Essawy, si è imposto uno standard per cui la Corte rigetta ogni deduzione di intenzione genocida se le prove suggeriscono un qualsiasi altro movente.
Logicamente, più moventi possono coesistere senza escludersi a vicenda, come l’intenzione genocida con il desiderio di ottenere benefici economici o politici personali, o con il conseguimento di obiettivi militari.
A questo proposito, a novembre 2023, Canada, Paesi Bassi, Regno Unito, Germania, Francia e Danimarca sono intervenuti nel caso Gambia v. Myanmar, denunciando l’attuale soglia dell’intenzione genocida come pressoché irraggiungibile. Una soluzione consisterebbe nell’utilizzare lo standard dell’unica conclusione ragionevole non in modo assoluto, ma solo per confrontare “spiegazioni alternative”, e quindi incompatibili.
Con questo approccio, sostiene Moustafa Essawy, l’obiettivo di distruggere Hamas addotto dalle IDF non impedirebbe di dedurre anche un’intenzione genocida da parte di Israele.
Quo vadis?
Ciononostante, visto lo standard attuale, il Prof. Milanovic si dice praticamente certo che la Corte non condannerà Israele per genocidio. Anzi, avverte che il focus sul “crimine dei crimini” porterà a svalutare le altre violazioni del diritto umanitario imputabili a Tel Aviv su cui la Corte non ha giurisdizione. Una mancata condanna rischierebbe così di essere venduta da Israele come una completa assoluzione e interpretata dai Palestinesi come un fallimento della giustizia internazionale.
Ovviamente, l’ICJ non è l’unica voce autorevole. Karim A.A. Khan, prosecutor del Tribunale penale internazionale (ICC), ha di recente chiesto dei mandati d’arresto per crimini di guerra e crimini contro l’umanità nei confronti di Netanyahu e Gallant, oltre che di tre leader di Hamas. Tuttavia, l’assenza di forze dell’ordine che eseguano le sentenze dell’ICC e il mancato riconoscimento della giurisdizione del Tribunale da parte di USA, Russia, Cina e Israele rischiano di ridurre gli eventuali mandati a meri simboli senza conseguenze concrete.
Il periodo d’oro dei Tribunali penali internazionali per l’ex Jugoslavia (ICTY) e per il Ruanda (ICTR) appartiene al passato. Lo scorso aprile proprio l’ICTR ha dichiarato conclusa la missione quasi trentennale di fare giustizia sul genocidio ruandese del 1994, avendo accertato la morte degli ultimi due fuggitivi.
Eppure, le varie corti possono comunque esercitare pressione su Israele e sui suoi sostenitori, anche solo sul piano reputazionale. Altrettanta pressione può emergere da una società civile informata ed impegnata, senza attendere anni per pronunciare un verdetto.
A prescindere dal giudizio dell’ICJ, il richiamo al genocidio da parte di gruppi studenteschi diventa strumentale per richiamare l’attenzione sulla situazione drammaticamente eccezionale di Gaza.
Uno slogan, uno striscione o un coro non hanno la pretesa di rivaleggiare con una sentenza giuridica che, nonostante il rigore ‘scientifico’ della legge, non può estirpare la radice politica che si cela dietro le diverse interpretazioni del diritto internazionale.
Similmente, una manifestazione non è una conferenza. Il cambiamento può passare da slogan e dal dialogo, tanto più quanto questi operino in simbiosi. A Sciences Po ho visto gli studenti dare vita ad entrambi.
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L'Autore
Matteo Gabutti
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Matteo Gabutti è uno studente classe 2000 originario della provincia di Torino. Nel capoluogo piemontese ha frequentato il Liceo classico Massimo D'Azeglio, per poi conseguire anche il diploma di scuola superiore statunitense presso la prestigiosa Phillips Academy di Andover (Massachusetts). Dopo aver conseguito la laurea in International Relations and Diplomatic Affairs presso l'Università di Bologna, al momento sta conseguendo il master in International Governance and Diplomacy offerto alla Paris School of International Affairs di SciencesPo. All'interno di Mondo Internazionale ricopre il ruolo di autore per l'area tematica Legge e Società, oltre a contribuire frequentemente alla stesura di articoli per il periodico geopolitico Kosmos.
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Matteo Gabutti is a graduate student born in 2000 in the province of Turin. In the Piedmont capital he has attended Liceo Massimo D'Azeglio, a secondary school specializing in classical studies, after which he also graduated from Phillips Academy Andover (MA), one of the most prestigious preparatory schools in the U.S. After his bachelor's in International Relations and Diplomatic Affairs at the University of Bologna, he is currently pursuing a master's in International Governance and Diplomacy at SciencesPo's Paris School of International Affairs. He works with Mondo Internazionale as an author for the thematic area of Law and Society, and he is a frequent contributor for the geopolitical journal Kosmos.
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