Il PE riconosce l'Ungheria come autocrazia elettorale

Alle origini della risoluzione del 15 settembre

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  Irene Boggio
  28 settembre 2022
  6 minuti, 4 secondi

“L’Unione si fonda sui valori del rispetto della dignità umana, della libertà, della democrazia, dell'uguaglianza, dello Stato di diritto e del rispetto dei diritti umani, compresi i diritti delle persone appartenenti a minoranze. Questi valori sono comuni agli Stati membri in una società caratterizzata dal pluralismo, dalla non discriminazione, dalla tolleranza, dalla giustizia, dalla solidarietà e dalla parità tra donne e uomini”.

È questo il dettato dell’articolo 2 del Trattato sull’Unione Europea (TUE), che enuncia i valori fondamentali su cui poggia la costruzione europea, il cui rispetto costituisce condizione imprescindibile per divenire membri dell’Unione (art. 49 TUE). È ormai noto, tuttavia, come proprio di questi valori e principi fondamentali si osservino da anni evidenti violazioni nell’Ungheria del governo illiberale di Orbán (primo ministro dal 2010), come recentemente denunciato dal Parlamento Europeo attraverso la risoluzione adottata il 15 settembre, con 433 voti favorevoli, 123 voti contrari e 28 astensioni. Ad opporsi alla risoluzione sono stati
i membri del gruppo parlamentare Identità e Democrazia e del Gruppo dei Conservatori e Riformisti Europei – cui afferiscono, rispettivamente, i deputati eletti tra i ranghi della Lega e di Fratelli d’Italia – e i 12 rappresentanti ungheresi di Fidesz, partito di governo ungherese presieduto dal primo ministro Viktor Orbán.

L’art. 7 del TUE dota le istituzioni europee degli strumenti necessari a contrastare e, quando necessario, a sanzionare simili violazioni dei valori cui gli Stati membri hanno liberamente scelto di aderire, sottoscrivendo i Trattati e divenendone parti contraenti. L’articolo, infatti, riconosce al Parlamento Europeo, alla Commissione o a un terzo degli Stati membri (ovvero a un terzo dei loro rappresentanti riuniti nel Consiglio dell’Unione) la facoltà di sollecitare il medesimo Consiglio ad adottare una decisione che riconosca l’esistenza “di un evidente rischio di violazione grave da parte di uno Stato membro dei valori di cui all'articolo 2”, previa approvazione del Parlamento (art. 7.1). Tale decisione si considera approvata se ottiene il voto favorevole di almeno 4/5 dei membri del Consiglio. Prima di deliberare il Consiglio è tenuto ad ascoltare lo Stato membro interessato e può scegliere di rivolgergli alcune raccomandazioni.

Nel caso in cui il rischio di gravi violazioni dei principi fondamentali di cui all’art. 2 lasci il posto a effettive e constatate violazioni, gravi e persistenti, l’art. 7 (par. 2) attribuisce al Consiglio Europeo la facoltà di riconoscerne l’esistenza – deliberando all’unanimità su proposta della Commissione o di un terzo degli Stati membri e previa approvazione del Parlamento Europeo – dopo aver invitato lo Stato membro interessato a presentare osservazioni. Constatata la sussistenza di violazioni gravi e persistenti, quindi, esiste la possibilità di sospendere “alcuni dei diritti derivanti allo Stato membro in questione dall'applicazione dei trattati, compresi i diritti di voto del rappresentante del governo di tale Stato membro in seno al Consiglio” (art. 7.3). Non è richiesta, a questo scopo, l’unanimità dei capi di stato e di governo riuniti all’interno del Consiglio Europeo, ma una maggioranza qualificata di voti favorevoli.

Era il 12 settembre 2018 quando il Parlamento Europeo si avviava a innescare la procedura descritta all’interno dell’art. 7.1, adottando una risoluzione che sollecitava il Consiglio a riconoscere l’esistenza di un evidente rischio di violazione grave da parte del governo ungherese dei valori e principi indicati dall’art. 2 come costituenti le fondamenta dell’architettura europea. La risoluzione evidenziava numerose criticità, rispetto al funzionamento del sistema costituzionale ed elettorale ungherese, all’indipendenza della magistratura, alla diffusione della corruzione e del conflitto d’interesse tra i rappresentanti politici e alle violazioni del diritto alla privacy, oltre a portare all’attenzione del Consiglio gli evidenti rischi di violazione dei principi inscritti nel secondo articolo del Trattato sull’Unione Europea sul piano della libertà d’espressione, di associazione, accademica e religiosa, così come le diffuse discriminazioni subite dalle persone appartenenti a minoranze etniche o religiose – come Rom ed ebrei – e da migranti, richiedenti asilo e rifugiati.

Dal 2018 il processo di democratic backsliding in atto in Ungheria non ha fatto che accelerare, come attestato dallo stesso Parlamento Europeo nelle successive risoluzioni approvate sul tema, del 10 giugno e dell’8 luglio 2021, oltre che dal Alto commissariato per i diritti umani delle Nazioni Unite, dal Consiglio d’Europa, dall’OSCE e da ricercatori e organizzazioni della società civile. Eppure, la procedura avviata dal Parlamento Europeo non ha conosciuto sviluppi: il Consiglio non ha adottato alcuna decisione attestante l’esistenza di un rischio di gravi violazioni dei principi di cui all’art. 2 TUE da parte dell’Ungheria, limitandosi a organizzare audizioni – a cadenza irregolare e di scarsa efficacia – cui non sono seguite neppure le raccomandazioni formali pure previste dal TUE all’art. 7.1.

È in questo contesto che si inserisce la risoluzione approvata lo scorso 15 settembre: un contesto di sostanziale inazione da parte delle istituzioni europee rispetto alle violazioni dei diritti fondamentali e dei principi dello Stato di diritto subite dai cittadini ungheresi, che – così si legge all’interno della risoluzione – “ha contribuito al crollo della democrazia, dello Stato di diritto e dei diritti fondamentali in Ungheria, trasformando il paese in un regime ibrido di autocrazia elettorale, secondo gli indicatori pertinenti”. Nella sua risoluzione il PE ha quindi espresso la propria deplorazione per “l'incapacità del Consiglio di compiere progressi significativi nell'ambito della procedura in corso di cui all'articolo 7, paragrafo 1, TUE” e lo ha esortato ad adottare una decisione che riconosca l’esistenza di un chiaro rischio di gravi violazioni, o quanto meno a rivolgere raccomandazioni concrete all’Ungheria – aggiungendo, con grande assertività, che “ulteriori ritardi di una tale azione equivarrebbero a una violazione del principio dello Stato di diritto da parte dello stesso Consiglio”.

L’appello a intervenire a difesa dello Stato di diritto e dei diritti fondamentali è poi stato esteso anche alla Commissione, che è stata invitata ad applicare le disposizioni contenute nel Regolamento sulla condizionalità legata al rispetto dello Stato di diritto, in vigore dal gennaio 2021, e “ad astenersi dall'approvazione del piano dell'Ungheria (il piano nazionale di ripresa e resilienza ungherese – ndr) fino a quando questa non avrà pienamente rispettato tutte le raccomandazioni specifiche per paese del semestre europeo in materia di Stato di diritto e finché non avrà eseguito tutte le sentenze della Corte di Giustizia dell’UE e della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo”. Quanto ai fondi strutturali e di investimento europei, strumenti della politica di coesione, il Parlamento ha detto di auspicare che prima di approvare gli accordi di partenariato e i programmi regionali o nazionali la Commissione escluda qualsiasi rischio che essi contribuiscano all'uso improprio dei fondi europei o a violazioni dello Stato di diritto.

Almeno su questo fronte, la risposta non si è fatta attendere: il 18 settembre, infatti, la Commissione von der Leyen ha trasmesso al Consiglio una proposta di sospensione del 65% dei fondi destinati al Paese nel contesto della programmazione 2021-2027 della politica di coesione, pari a 7,5 miliardi di euro.

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Irene Boggio

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