Il razzismo americano senza fine

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  Redazione
  17 settembre 2020
  9 minuti, 3 secondi

A cura di Sofia Abourachid

È un periodo molto particolare per gli Stati Uniti d'America. Razzismo, violenze e manifestazioni sono ormai all’ordine del giorno, e il continente dei sogni, dell’emancipazione e del “Yes, I can” si è rivelato tutt’altro che capace e solidale.
Le proteste e la brutalità della polizia sono emerse a partire dalla morte di George Floyd, non da intendere come un evento limitato. Gli americani di colore, difatti, vivono questo capitolo come una storia che si ripete. Le lotte per l’emancipazione e per la conquista dell’uguaglianza continuano oggi, come ieri, ma i risultati sembrano non andare a favore di chi ancora viene visto come ‘il diverso’.

Martin Luther King il 28 agosto 1963 pronunciava quello che è ricordato come il discorso “I Have A Dream”, ed ora, a molti anni di distanza da un passato di violenze, di discriminazioni di ogni tipo e di uccisioni di uomini di colore pacifici, Martin Luther King si rende attuale forse ancor più di prima.

Ma quindi ci si chiede: cos’è cambiato dai tempi di Martin Luther King e cosa non è cambiato?”.

A primo impatto c’è chi risponde come Sofia Perinetti: “nel dopoguerra il razzismo aveva delle leggi e delle regole che lo rendevano istituzionalizzato, soprattutto in America; ora ci sono leggi che lo contrastano, ma il razzismo è ancora presente”.

Il pensiero di Matteo Frigoli spiega a fondo la questione. “La discriminazione è un fenomeno che permane nonostante i cambiamenti a livello legislativo che garantiscono eguaglianza, questo fa capire come il problema sia un problema sociale. Un problema che è sempre rimasto latente e che è esploso recentemente”. Si può dire quindi che i tempi sono cambiati, ma quel che c’era ieri permane anche oggi sebbene in una natura diversa.

Fabio Di Gioia fa un interessante ragionamento sulla questione dei cambiamenti. Sostiene difatti che, in riferimento alla questione razziale, “i grandi cambiamenti che per noi sono diventati fortunatamente la norma, sono scoppiati tra gli anni '60 e '70, quali ad esempio le proteste di Martin Luther King e le leggi volte a eliminare le discriminazioni razziali in pubblico o nel diritto di voto”. Come questo ragionamento fa emergere, “se parliamo di cambiamenti sociali, questi non risultano visibili fin da subito, ma si sviluppano nei decenni e si possono scoprire, magari, solo nella generazione successiva”, motivo per cui del progresso non si giova fin da subito.

La certezza che l’umanità evolva verso il meglio, non a caso, non è data. Siamo difatti nel 21° secolo e ci ritroviamo ad assistere a rivolte strettamente collegate alle diseguaglianze razziali. Oltre a dover fronteggiare un’emergenza sanitaria senza precedenti, gli afroamericani di oggi si ritrovano ad essere oggetto di razzismo e violenze non paragonabili agli episodi di violenza di cui sono vittime i bianchi.

Si tratta di una vera e propria storia di ingiustizie razziali quella degli Stati Uniti d’America; una storia che ancora non volge al termine. L’origine si potrebbe imputare al capitolo della schiavitù americana; a seguire, il tempo e la società hanno avuto la predisposizione a ritenere i neri non alla pari dei bianchi. "Meno evoluti, meno capaci, meno umani?" Tutti stereotipi e presunzioni erronee, ma pane per l’ideologia della così detta ‘supremazia bianca’.

Soffermandoci particolarmente sul comportamento delle forze dell’ordine, porta sconcerto il fatto che nonostante i bianchi commettano reati al pari delle persone di colore, quest’ultime soffrano di discriminazione anche in queste circostanze. A tal proposito Marwa Fichera afferma che “gli oppositori del problema razziale nelle forze dell’ordine usano dati statistici per contestare i trend sulla ‘police brutality’. Come è stato anche affermato dal presidente Trump, i dati mostrano che la polizia americana uccide più bianchi americani che afroamericani. Malgrado questo sia vero, le uccisioni dei bianchi sono in relazione ad un gruppo quasi 5 volte più grande rispetto alla popolazione afroamericana”.

I dati, come la stessa sociologa evidenzia, confermano come “negli USA, i ‘white Americans’ – il gruppo di origine caucasica – formano il 63% della popolazione, ovvero 197 milioni. Dal 2015, sono state riportate intorno alle 2540 uccisioni di white Americans da parte della polizia. Sempre dal 2015, per quanto riguarda la popolazione afroamericana, che viene stimata a 42 milioni, sono state riportate all’incirca 1330 uccisioni”. Basterebbe quindi fare due conti per comprendere che la sproporzione c'è, eccome.

I dati e le immagini violente dei giorni d’oggi fanno pensare ad una sorta di ‘razzismo sistemico’, fenomeno che la sociologa Marwa ci aiuta a comprendere meglio. “Assieme alle discriminazioni di genere, il sistema più vasto è il razzismo istituzionale che si trova nella politica, nel sistema giudiziario, nei media, nell’educazione scolastica e nell’assistenza sanitaria. Il razzismo istituzionale comprende le ideologie di supremazia razziale dei bianchi e la subordinazione della razza nera e di altre etnie. Queste ideologie vengono tramutate nelle varie istituzioni elencate in precedenza, dove dominano le discriminazioni razziali”.

Marwa inoltre ribadisce: “gli esperti della sociologia teorizzano che, quando le etnie di minoranza nei paesi occidentali acquisiscono gli stessi diritti e opportunità dei gruppi di maggioranza, il potere delle ideologie del razzismo istituzionale viene minacciato”, motivo per cui i fenomeni a cui assistiamo si potrebbero intendere come pratiche per “tenere a bada” le etnie e le minoranze. Sofia Perinetti reputa che “quando ci sono dei problemi in uno Stato, trovare un capro espiatorio rende omogenea la popolazione contro un gruppo”. Ma che si tratti di pratiche per “tenere buoni” i neri, o che si tratti di strategie per avere un capro espiatorio da incolpare, le popolazioni di colore continuano a soffrire senza comprenderne le colpe.

A non comprendere questo odio si rivelano esserci anche gli stessi autori del razzismo. Esistono difatti coloro che sono a favore del sistema razzista ma non intenzionalmente razzisti. Discutendone, emerge come il pregiudizio razzista inconscio sia molto diffuso. Matteo Frigoli ci aiuta riflettendo sul fatto che “le persone attratte dalle recenti proteste sono esposte ad una mole di disinformazione e di informazioni complesse non comprese”. Spesso nascono scontri tra individui “senza che essi abbiano una vera ragione per odiarsi reciprocamente, con il conseguente rischio di una rottura del patto sociale che le lega”. Per molti di questi casi si potrebbe parlare di una sorta di 'razzismo senza razzisti'.

Tutte queste sono considerazioni su quanto è accaduto e tutt’ora accade negli USA, ma oltre ad analizzare i fattori del diffondersi delle discriminazioni, è interessante fare un confronto tra il continente americano e quello europeo. L’avvocatessa Simona Destro si sofferma sulla “fondamentale differenza di tradizioni storico-giuridiche che intercorre tra i Paesi Europei e il Nuovo Mondo”. Afferma che: “le due guerre mondiali e il genocidio nazista sicuramente hanno comportato un netto rifiuto da parte delle istituzioni e della popolazione in generale, di qualsivoglia tipo di violenza o discriminazione a sfondo razziale, che appare, quindi, meno radicata rispetto a quanto non accade, invece, negli Stati Uniti”.

E a tal proposito viene da chiedersi “come mai gli Stati Uniti si definiscono i difensori dei diritti umani quando sono i primi a non garantirli?”

Simona risponde: “gli Stati Uniti, sebbene si autodefiniscano come uno degli Stati più democratici al mondo, detentori dello stato di diritto e dell’idea stessa di giustizia, appaiono, ad oggi, un Paese fondamentalmente razzista, nonostante la Costituzione americana contempli il divieto di discriminazione razziale (art. XV in materia di diritto di voto)”.

L’ondata di ribellione in risposta agli episodi di razzismo ha fatto emergere un’immagine cruda delle forze dell’ordine e dell’amministrazione attuale. E quindi ci si chiede come le forze di polizia statunitensi, non curanti delle conseguenze, si ostinino a perpetrare atti violenti e crudeli a danno dei cittadini afro-americani. La risposta alla quale Simona Destro giunge è questa: “probabilmente, è complice la consapevolezza da parte degli agenti della quasi totale impunità di tali atti; ricordiamo, infatti, che gli Stati Uniti non hanno accettato la giurisdizione della Corte Penale Internazionale, non ratificando lo Statuto di Roma (1998), e nemmeno quella della Corte Interamericana dei Diritti Umani, sottraendosi, così, a qualsivoglia sindacato superiore ed esterno circa episodi di gravi violazioni di diritti umani.”

Sottrarsi alla ratifica di Trattati Internazionali in materia di diritti umani è un fatto ormai risaputo nel caso degli Stati Uniti, ma nulla di ciò dovrebbe giustificare una società di svantaggi, ingiustizie e violenze. Quest’ultime, fenomeni da ritenersi il culmine delle discriminazioni, sono state al centro di immagini e video che in quest’ultimi mesi hanno fatto il giro del mondo. A sommarsi alle prime immagini shock del soffocamento di George Floyd vi sono quelle degli spari a Jacob Blake e tanti altri ancora.

Molto crude e di recente diffusione sono state le immagini del video di cui protagonista è stato Daniel Prude. L’uomo, cittadino di New York, affetto da problematiche di salute mentale, mentre girovagava nudo per la strada, è stato ammanettato dalla polizia e incappucciato per morire asfissiato poco dopo.

Come Francesca Oggiano ribadisce più volte, i social media ed i social network permettono alla società di oggi di raggiungere materiali e persone che prima non si potevano raggiungere. “Forse è questo quel che è cambiato rispetto ad anni fa”, dice Francesca. Ebbene sì, effettivamente i mezzi di comunicazione attuali fanno la differenza, ma oltre a diffondere consapevolezza, dovrebbero servire nel contrasto ai fenomeni.

Le reazioni del Team di TrattaMIBene in merito alle sconvolgenti immagini degli ultimi attimi di vita di Daniel Prude possono essere ben rappresentate dalle parole di Valeriana Savino. “Sono stata veramente colpita dalla brutalità dell’azione e al contempo della ‘quasi normalità’ nel registrare la scena. Il colore della pelle di Prude o la sua salute mentale non possono essere motivo di uccisione. Nessuno deve essere vittima di questo tipo di violenze. Ciò che più mi rende esterrefatta è che quasi sempre le vittime delle forze di polizia non sono pericolosi criminali, ma persone che spesso muoiono per futili motivi o per motivi inesistenti e al massimo potrebbero essere incriminati per piccoli reati”.

Valeriana prosegue inoltre con una riflessione condivisa: “mi chiedo dove stiamo andando a finire? La situazione è molto delicata: la popolazione afroamericana negli Stati Uniti non ha ancora raggiunto i pieni diritti e ciò è sintomo che deve essere fatto ancora molto. Inoltre tutto questo è alimentato dal contesto politico americano dove il presidente Trump non ha mai cercato di sanare le fratture razziali e non ha mai dato un messaggio di conciliazione e di riconoscimento delle ragioni della protesta”.

Proprio a proposito del contesto politico facciamo le ultime considerazioni. L’intero Team concorda sul fatto che un cambio di presidenza possa aiutare; tuttavia sarebbe un’utopia pensare che un nuovo Presidente degli Stati Uniti possa bastare a combattere un problema ben più profondo. Sarebbe necessario acquisire una forma mentis diversa fatta di inclusione, così come di rispetto di sé e dell'altro.

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