Israele e USA

Scomporre il binomio

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  Matteo Gabutti
  04 aprile 2024
  13 minuti, 6 secondi

Ci sono voluti oltre cinque mesi e più di 30.000 vittime palestinesi agli Stati Uniti per ritirare il veto e permettere al Consiglio di Sicurezza dell’ONU d’imporre un cessate il fuoco immediato nella Striscia di Gaza.

Tra i sanguinosi danni collaterali dell’attuale conflitto figura la scomposizione del binomio USA-Israele. La campagna bellica di Netanyahu ha infatti dato nuovo vigore ai critici del sostegno incondizionato e incrollabile di Washington a Tel Aviv.

Personaggi politici del calibro del Senatore ebreo Chuck Schumer sono arrivati persino ad invocare l’allontanamento del primo ministro israeliano, avventurandosi su un terreno scivoloso e anfibio. Un terreno che rende difficile distinguere i confini tra antisemitismo, antisionismo e mere critiche al governo israeliano, soprattutto nella nebbia della guerra.

Un terreno inevitabile per contestare l’appoggio americano a Israele.

Ne sono ben consapevoli Stephen Walt e John Mearsheimer, due dei più eminenti autori neorealisti nel campo delle relazioni internazionali.



La ‘Lobby’

Tale consapevolezza emerge nell’introduzione di un controverso articolo co-scritto nel 2006 per il sito London Review of Books, dove i due accademici prendono le distanze da ogni forma di antisemitismo. Una prudenza necessaria ma insufficiente, vista la mole di critiche e accuse che accolse la pubblicazione.

Difficile immaginare un esito diverso vista la loro tesi, secondo cui “la spinta della politica statunitense nella regione [del Medio Oriente] deriva quasi interamente dalla politica domestica, e in particolare dalle attività della ‘Lobby d’Israele’”.

Quest’ultima espressione abbraccia un conglomerato di individui e organizzazioni, accomunati non da un’unica leadership, agenda o scala valoriale, ma piuttosto dall’impegno attivo ad indirizzare Washington a favore di Tel Aviv. Pertanto, Walt e Mearsheimer negano che la Lobby includa tutti i cittadini statunitense di origine ebraica – stimati a 7,5 milioni nel 2020, ovvero il 2,4% dell’intera popolazione. Soprattutto, rigettano l’idea di un’entità monolitica che agisce col favore delle tenebre, oscura reminiscenza del falso storico novecentesco dei ‘Protocolli dei Savi di Sion’.

Ciò detto, cuore pulsante della Lobby sarebbe l’AIPAC, un gruppo di pressione bipartisan da circa tre milioni d’iscritti con l’intento dichiarato di rafforzare ed espandere le relazioni tra USA e Israele. L’American Israel Public Affairs Committee ricoprirebbe un ruolo centrale nei due obiettivi della Lobby, ovvero garantire a Tel Aviv il supporto del Congresso e dell’esecutivo americani, e edulcorare l’immagine pubblica d’Israele attraverso think tanks, i media e le università.

Come risultato, Washington fornirebbe a Tel Aviv un appoggio costante per quanto costoso sul piano economico e reputazionale, esponendosi all’ostilità del mondo arabo e al terrorismo di matrice islamica. L’influenza della Lobby lederebbe così gli interessi nazionali americani, come dimostrerebbe il suo ruolo critico, seppur non esclusivo, nella sventurata decisione del Presidente Bush Jr. d’invadere l’Iraq nel 2003, o nel deterioramento dei rapporti statunitensi con l’Iran.



Criticità

Al di là della tesi controversa, l’articolo non è immune da critiche metodologiche.

Walt e Mearsheimer adducono esempi in forma quasi aneddotica, citando stralci d’interviste e rifacendosi spesso a fonti giornalistiche, tradendo una carenza di rigore accademico e di profondità di ricerca. Di certo non aiutò l’assenza di note a piè pagina, presenti invece su una versione dell’articolo pubblicata per l’Harvard Kennedy School – dove Walt è Professore di Affari Internazionali – e nel libro best seller che ne seguì.

Inoltre, nonostante le prudenti precisazioni, la coesa Lobby tratteggiata nell’articolo rischia di appiattire eccessivamente l’eterogeneità della popolazione ebraica statunitense.

È vero, l’AIPAC rimane per distacco la prima lobby pro-Israele negli States. Secondo OpenSecrets – organizzazione no-profit che monitora i flussi di denaro nella politica americana –, con oltre $7ml versati nel solo 2024, l’American Israel Public Affairs Committee sarebbe la 27° organizzazione su quasi 30'000 per offerte a candidati Democratici e Repubblicani.

Ciononostante, il suo non è un monopolio. Escludendo i gruppi non-sionisti o antisionisti, il Professore di studi israeliani Dov Waxman distingue almeno tre lobby pro-Israele: una di centro, capeggiata da AIPAC e focalizzata nel presentare un fronte unito a sostegno del governo israeliano del momento, e due più politicamente ideologizzate, rispettivamente a destra e a sinistra, e dunque più pronte a criticare Tel Aviv quando quest’ultima si discosti dai loro ideali.

Per di più, Waxman critica Mearsheimer e Walt per aver mescolato nel medesimo calderone lobby formali come AIPAC con think tank, individui della comunità ebraica statunitense, sionisti cristiano-evangelici e neoconservatori. Soprattutto questi ultimi non sono interamente sovrapponibili all’AIPAC, pur traendone spesso simili conclusioni – come riguardo all’intervento in Iraq – e pur avendo simpatie pro-Israele, dal momento che la loro prima preoccupazione sono gli Stati Uniti.

La tesi della ‘Lobby’ pecca di semplificazioni che verosimilmente ne riducono la portata esplicativa, pur non confutandola. Altri elementi sono dunque necessari per ricostruire il caso del sodalizio tra Washington e Tel Aviv.



Guerra Fredda

La vulgata fa risalire questa salda relazione al riconoscimento da parte del Presidente Truman dello Stato di Israele, arrivata pochi minuti dopo la sua proclamazione, il 14 maggio 1948. Uno sguardo più storico più ampio, tuttavia, rivela sia un precedente interessamento statunitense alla causa sionista sia un supporto meno fermo e costante di quanto traspaia dall’articolo di Walt e Mearsheimer.

La “relazione speciale” tra i due Paesi, così come definita dal Presidente Kennedy, sarebbe sbocciata nel terreno della Guerra Fredda per ragioni prettamente geo-strategiche. Il Medio Oriente divenne infatti uno dei teatri privilegiati nel confronto tra USA e USSR, visto che le superpotenze condividevano interessi nella regione e nelle sue risorse, prontezza d’intervento e la tendenza a sfruttare differenze etnico-religiose a proprio vantaggio.

In questo scenario, mentre l’Unione Sovietica predilesse i regimi arabi di Egitto e Siria, Israele divenne l’alleato naturale per gli Stati Uniti, costruendo un legame che è sopravvissuto alla caduta del muro di Berlino e delle logiche da Guerra Fredda.

In tal senso, l’attuale appoggio statunitense a Israele potrebbe rappresentare una forma di path dependence, ovvero la tendenza a seguire un certo percorso sotto l’influenza di eventi o decisioni passate, che finiscono così per risultare vincolanti. Sebbene non incompatibile con la tesi della ‘Lobby d’Israele’, l’eredità della Guerra Fredda aggiunge un’ulteriore sfumatura a un quadro policromatico.



Quo vadis?

Anche se non impeccabile o esaustivo, l’articolo di Walt e Mearsheimer ha certamente avuto il merito di aprire un dibattito sull’influenza pro-Israele in seno al governo statunitense, nonché sulla bontà della “relazione speciale” tra Washington a Tel Aviv.

L’operato del governo Netanyahu nella Striscia di Gaza, e il prezzo reputazionale e morale che comporta il suo sostegno, ha rimesso queste questioni sotto i riflettori. Come osservato in un precedente articolo, la stessa Amministrazione Biden, che all’indomani dell’attacco di Hamas del 7 ottobre ha promesso e mantenuto un supporto “solido come la roccia e incrollabile” ad Israele, sta mostrando timidi sintomi di frustrazione.

Nonostante qualche segno di logoramento, il laccio che lega i due Paesi rimane saldo e aggrovigliato.

Come sottolineato dallo stesso Walt, inoltre, l’influenza che gli Stati Uniti possono esercitare sul proprio cliente e alleato è spesso sopravvalutata. Sebbene Israele dipenda ancora fortemente dall’aiuto economico e militare americano, infatti, a Biden non basta una telefonata arrabbiata per imporre un cambio di strategia a Netanyahu – che si è detto pronto a calpestare la “linea rossa” posta dalla Casa Bianca sull’invasione di Rafah.

Proprio i due leader politici complicano ulteriormente la situazione, a riprova della centralità di analisi focalizzate sul livello individuale. La tendenza del presidente americano a investire politicamente sui rapporti personali e il carattere recalcitrante del primo ministro israeliano non sono mere curiosità, ma variabili imprescindibili all’interno di un’equazione che si dipana dapprima dell’esistenza dello Stato di Israele.

L’attuale conflitto ha esasperato le contraddizioni e le tensioni interne alla “relazione speciale”. Che finisca per risolverle per romperle rimane da vedere.

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L'Autore

Matteo Gabutti

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Matteo Gabutti è uno studente classe 2000 originario della provincia di Torino. Nel capoluogo piemontese ha frequentato il Liceo classico Massimo D'Azeglio, per poi conseguire anche il diploma di scuola superiore statunitense presso la prestigiosa Phillips Academy di Andover (Massachusetts). Dopo aver conseguito la laurea in International Relations and Diplomatic Affairs presso l'Università di Bologna, al momento sta conseguendo il master in International Governance and Diplomacy offerto alla Paris School of International Affairs di SciencesPo. All'interno di Mondo Internazionale ricopre il ruolo di autore per l'area tematica Legge e Società, oltre a contribuire frequentemente alla stesura di articoli per il periodico geopolitico Kosmos.

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Matteo Gabutti is a graduate student born in 2000 in the province of Turin. In the Piedmont capital he has attended Liceo Massimo D'Azeglio, a secondary school specializing in classical studies, after which he also graduated from Phillips Academy Andover (MA), one of the most prestigious preparatory schools in the U.S. After his bachelor's in International Relations and Diplomatic Affairs at the University of Bologna, he is currently pursuing a master's in International Governance and Diplomacy at SciencesPo's Paris School of International Affairs. He works with Mondo Internazionale as an author for the thematic area of Law and Society, and he is a frequent contributor for the geopolitical journal Kosmos.

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