Lo stretto di Malacca: i tentativi di Pechino di porre fine allo storico “dilemma”

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  Davide Shahhosseini
  30 marzo 2023
  7 minuti, 7 secondi


Estendendosi per più di 800 km lungo un braccio di mare compreso tra i Paesi rivieraschi di Indonesia, Malesia e Singapore, lo stretto di Malacca costituisce un canale naturale tra il mare delle Andamane e il mar Cinese Meridionale. Fungendo da via di collegamento più breve tra il Golfo persico e l’Indo Pacifico, questo choke point ha assunto una valenza strategica fondamentale in chiave di sicurezza energetica per l’intera regione.

Difatti, a partire dal 2011, si osserva un graduale ma costante incremento del transito di combustibili fossili attraverso lo stretto di Malacca: questi sono diretti a soddisfare l’esigente oil supply chain delle economie emergenti del Sud-est asiatico e dei giganti economici dell’Asia orientale. Numeri che hanno reso il canale il secondo snodo commerciale marittimo globale - dopo lo stretto di Hormuz - per volumi di petrolio e derivati trasportati: circa un terzo del petrolio mondiale passa da quelle acque.

Le peculiarità geografiche, tipiche di un choke point, e la rilevanza geopolitica determinata dalla natura dei flussi che lo attraversano, fanno si che, in ottica cinese, lo stretto di Malacca rappresenti storicamente una sorta di “dilemma” - termine coniato nel 2003 dall’allora segretario del Partito Comunista Cinese (PCC) Hu Jintao -. Per Pechino, il canale funge da unica alternativa strategica marittima al teatro orientale, laddove lo stretto di Luzon assieme alle Curili e all’arcipelago filippino costituiscono una linea di contenimento naturale alla sua proiezione marittima - la cosiddetta prima catena di isole -. Negli ultimi decenni, il ruolo di Malacca, tanto in chiave geopolitica quanto in materia di sicurezza energetica, è divenuto sempre più emblematico per la Repubblica Popolare (RPC).

L’imponente crescita che ha investito la Cina negli ultimi decenni, si lega a doppio filo ai flussi di idrocarburi che transitano dallo stretto di Malacca. Ciò ha contribuito ad incrementare la sua dipendenza energetica da quest’ultimo, dove, ad oggi, circa l’80% del volume complessivo di petrolio che Pechino importa da Africa e Medio Oriente passa attraverso quelle acque.

Dunque, per il primo Paese al mondo per numero di barili importati (fonte Trademap 2021) e con le previsioni per il 2023 (Report AIE) che vedono la RPC guidare la metà della crescita della domanda globale di petrolio, lo stretto di Malacca costituisce un punto di estrema vulnerabilità geopolitica. Alla luce della centralità dell’interscambio commerciale nel quadro dei rapporti verso l’esterno, un contenimento marittimo che coinvolga Malacca, disposto da forze avversarie, rappresenterebbe un duro colpo per la struttura del soft power di Pechino.

La risposta della Repubblica Popolare per ovviare alla crescente dipendenza da Malacca, si inquadra in un approccio dualistico, dove ad una postura assertiva e revisionista, la quale tutt’oggi costituisce terreno di scontro con gli altri Stati litoranei della regione, la RPC ha alternato delle strategie di soft power. Lo stesso progetto infrastrutturale della Nuova via della seta - Belt and Road Initiative (BRI) - rientra in questa cornice.

I corridoi della BRI, su tutti quello sino-pakistano (CPEC), delineano il tentativo cinese di realizzare, sul piano logistico e infrastrutturale, delle rotte commerciali che possano bypassare Malacca. Tuttavia, l’inizio delle ostilità in Ucraina, dove le sanzioni occidentali nei confronti di Mosca hanno compromesso il corridoio principale “transiberiano”, e i problemi emersi con Islamabad, sia sul piano della gestione dei finanziamenti da parte delle autorità locali sia in ottica geopolitica - su tutti le crescenti tensioni con l’India - hanno profondamente ridimensionato le ambizioni cinesi di connettere, via terra, il proprio sistema economico e commerciale con quello medio-orientale ed europeo.

L’attuale fase di stallo della “Via della seta” ha inevitabilmente riportato il dossier di Malacca al centro delle preoccupazioni di Pechino, con quest’ultima che è ritornata a prediligere un approccio revisionista dello status quo del mar Cinese Meridionale, fomentando gli attriti con Washington e i Paesi rivieraschi dell’Indo Pacifico.

Alla base delle rivendicazioni marittime cinesi, oltre a ragioni di carattere politico - il dossier relativo al ricongiungimento di Taipei e l’applicazione della dottrina "Nine-dash line" - dove quest’ultima fa appello a una serie di storici diritti, per lo più velleitari- per la Repubblica Popolare le stesse hanno come obiettivo strategico quello di ridurre la dipendenza energetica dall’esterno. Uno studio condotto dalla U.S. Geological Survey (USGS) e pubblicato dalla EIA (United States Energy Information Administration) stima nelle aree marittime contese, uno stock di idrocarburi compreso tra i 5 e i 22 miliardi di barili di petrolio e tra i 70 e i 290 miliardi di piedi cubi di gas. Tale indagine, che risale al 2013 e i cui dati sono periodicamente aggiornati in relazione alla scoperta di nuovi giacimenti, tiene conto sia delle aree le cui riserve sono già state accertate, sia di quelle non ancora esplorate. Una tale disponibilità di risorse farebbe del mar Cinese Meridionale il terzo hub per depositi di idrocarburi a livello globale, dopo Venezuela e Arabia Saudita.

In aggiunta alle potenzialità di natura economica e commerciale, il revisionismo cinese presenta delle implicazioni di matrice geopolitica e militare. La strategia di “Anti-Access/Area Denial” (A2/AD), che ha visto la Cina avviare un processo di militarizzazione nelle aree contese, anche attraverso la realizzazione di isolotti artificiali nell’arcipelago Spratly, ha come obiettivo quello di espandere la propria proiezione marittima, estendendo il perimetro difensivo oltre il primo arco strategico di difesa costiera - ossia lo spazio che va dallo Stretto di Mikayo fino alla Malesia.

Sebbene la Marina dell’Esercito Popolare di Liberazione sia stata interessata, negli ultimi anni, da considerevoli investimenti da parte del PCC, arrivando ad un aumento del 400% del corpo dei marines - da 20.000 a più di 100.000 unità - e alla realizzazione della più grande nave d’assalto anfibio nella storia della Marina cinese - classe Yushen - nonché di una terza portaerei - Fujian Type 003 - ad oggi Pechino presenta dei limiti strutturali ed operativi che le impediscono di competere a pieno nella corsa all’egemonia sull’Indo Pacifico. Difatti, ad un imponente e rapida espansione numerica del naviglio militare, non è implicita una pari crescita in termini di capacità di utilizzo delle nuove tecnologie. Inoltre, se nel mar Cinese Meridionale la RPC è riuscita ad allargare, anche in violazione al diritto internazionale, il proprio spazio strategico di manovra a spese degli attori limitrofi, lo stesso non vale per il mar Cinese Orientale, dove la politica di contenimento e la sicurezza dell’Indo Pacifico a trazione americana, sono tornati ad essere una priorità strategica con l’amministrazione Biden. Il viaggio di Nancy Pelosi a Taipei nell’agosto scorso, nonché la decisione bipartisan del Senato di aumentare il sostegno militare all’isola, lasciano presupporre che, se gli Stati Uniti possono tollerare un’ estensione della proiezione cinese nell’area meridionale, ciò non potrebbe avvenire per il teatro orientale, laddove un’aggressione a Taiwan compromettesse la stabilità dell’area, intaccando gli interessi vitali americani.

In ultimo, a determinare gli equilibri nella competizione marittima sino-americana a vantaggio di Washington, oltre alle criticità operative e alle questioni di natura geopolitica, vi è un inettitudine da parte cinese tanto nell’influenzare, facendo ricorso all’hard power, gli altri attori regionali, quanto nel costruire dei sistemi di sinergia multilaterali che possano controbilanciare la supremazia operativa degli Stati Uniti. Sebbene la flotta cinese sia la prima al mondo in termini quantitativi, la difficoltà di Pechino ad ergersi a riferimento politico-militare a livello regionale, fa sì che la capacità di cooptazione americana nell’area, che si traduce, attraverso la creazione di meccanismi di interrelazione, in una maggiore proiezione di potenza, ridimensioni la superiorità della flotta cinese ad un vantaggio meramente numerico, e non in definitiva qualitativo.

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