Ripensare il progetto politico della sinistra europea

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  Redazione
  24 settembre 2024
  8 minuti, 1 secondo

A cura del Dott. Pierpaolo Piras, studioso di Geopolitica e componente del Comitato per lo Sviluppo di Mondo Internazionale APS

L’attuale sfiducia istituzionale che emerge progressivamente e in diversa misura negli Stati europei può essere spiegata dal fatto che molte istituzioni pubbliche sono state snaturate rispetto alla loro funzione iniziale.

Non solo, lo Stato stesso sembra aver perso una parte della propria legittimità mostrandosi concretamente impotente nel rispondere alle questioni e alle richieste sociali ed economiche - comprese alcune tra le più elementari - messe in luce sia dalla crisi contingenziale odierna che dalla mediocrità media vigente nelle classi dirigenti, venutasi a creare negli ultimi 15-20 anni.

Non in ultimo, sembra inadeguata nel reagire e rispondere in modo soddisfacente anche verso la questione climatica.

Il quadro europeo unitamente al fenomeno della globalizzazione, che sottopongono l’economia europea ad una concorrenza tra alleati senza che si crei una vera e positiva regolamentazione politica, hanno spinto i governi degli Stati più agiati e popolosi a perseguire politiche basate primariamente su misure di attrattività a beneficio del capitale e a scapito delle classi medie e lavoratrici.

Il sentimento di sfiducia di gran parte della popolazione e il crescente disinteresse nei confronti del funzionamento della democrazia sono la logica conseguenza di queste politiche che per i loro effetti sembrano essere condotte contro il popolo e non a suo favore.

Dobbiamo però anche riconoscere che la raccolta della rabbia non è sufficiente per realizzare un vero progetto di sinistra. Non possiamo difendere e legittimare tutti i movimenti che si oppongono al neoliberismo con il pretesto di costruire una “catena di equivalenza”. Anche un progetto di sinistra è chiamato a fare delle scelte cruciali. E queste scelte devono basarsi sulla ragione e realizzabilità piuttosto che sugli affetti politici.

Per fare questo gli europei devono tornare a ripensare alle proprie origini e ammettere nuovamente che la necessaria strutturazione politica di una società si basa in primo luogo sull’armonia da stabilirsi nelle relazioni sociali con lo Stato, tenendo conto che queste stesse relazioni sociali fanno parte obbligatoria ed essenziale anche di ogni relazione economica. Insomma, l’alta politica non può ridursi a sterili e superficiali conflitti “culturali” e slogan privi di risvolti concreti e produttivi.

Deve innanzitutto pensare ai vincoli e proporre una visione coerente e realistica che vive il cittadino comune invece di legittimare anzitempo le richieste dei vari gruppi di interesse minoritario ma esclusivo i quali pretendono di opporsi, quasi sempre con scarso successo, al neoliberismo. Tanto meno quelle di segno opposto, ovvero corporativo.

Costruisci un progetto sociale

Sviluppare questo pensiero e promuovere una visione coerente richiede la rinuncia alla promozione di temi che servono solo a rafforzare le identità politiche, a creare il “mi piace” (Facebook…!) con individui che neanche si conoscono direttamente ma solamente configurati nei social network e/o a riunire attivisti radicalizzati del proprio campo.

Queste pratiche possono far parte di una strategia elettorale efficace nell’arte di creare consensi informatici , ma non sono sufficienti per sviluppare e promuovere un concreto progetto politico a favore della comunità. Sarà quindi necessario passare attraverso la gerarchia dei conflitti, che presuppone la rinuncia ad alcuni obiettivi per favorirne altri, in nome della ragione e non in nome degli interessi di alcuni contro gli interessi di altri.

Non ha torto chi afferma che la politica è un importante terreno di confronto (democratico) degli antagonismi. Tuttavia, ha ragione pure a diffidare della comoda illusione del consenso, dato puntualmente per scontato, nella quale una certa sinistra, più manageriale e meno ideologica, ha talvolta commesso errori profondi e grossolani. Nell’Europa di oggi, occorre dare senso e spessore alla politica riaffermando con forza l'esistenza di divisioni economico-sociali fondanti all'interno della società.

Resta il fatto che una visione politica non può fare a meno di un progetto sociale capace di integrare gli avversari di turno in un nuovo spazio stavolta collettivo da costruire sinergicamente. Infine, la sinistra deve riaffermare che il suo obiettivo primario è quello di costruire nuove ed innovative istituzioni e stabilire un rapporto di fiducia reciproca tra queste istituzioni e gli individui.

Deve difendere la democrazia rappresentativa e non diffondere una visione del mondo sempre più spesso apocalittica in cui prevarrebbe l’immancabile propaganda della guerra di tutti contro tutti. Un quadro del genere non può che suscitare sentimenti di paura nella popolazione e rafforzare secondariamente il bisogno di autorità più forti e le visioni paranoiche che di contro sono al centro del discorso seguito dall’estrema destra.

La decrescita è una nuova immaginazione?

Ai teorici (e menagrami) della decrescita piace demistificare il prodotto interno lordo (PIL) come indicatore. Tuttavia, si comprende che la riduzione del PIL non è certo l’obiettivo principale. Invece no, l’azione politica più importante sembra essere quella di ridurre le attività inquinanti, indipendentemente dal rispetto dei criteri economici e dal fatto che siano incluse o meno nel PIL

Di questi tempi, gli economisti e analisti si chiedono: come raggiungere questi complessi e difficili obiettivi? Che cosa dovremmo ridurre o rimodulare in tali priorità, la spesa per consumi delle famiglie e la produzione di servizi pubblici e associazioni di beneficenza? E che dire degli investimenti e di quanto eventualmente dovremmo ridurre il PIL nazionale?

Tra le proposte più stimate e ambiziose emerge quella di perseguire un graduale reindirizzamento dell’economia europea, democraticamente pianificato, nel quale una parte delle risorse interne, del nostri tempi di lavoro, della nostra produzione di energia e dei nostri materiali e prodotti industriali cesserà di essere mobilitata per produrre determinati beni (con particolare riferimento a quelli che inquinano e che contribuiscono non poco al benessere generale) e potrebbero poi essere parzialmente riconvertiti a beneficio della società.

Gli esperti aggiungono che sarebbe possibile ridurre il PIL aumentando al tempo stesso il valore aggiunto dei beni nazionali raggiunto in campo sia sociale che ecologico.

Uno dei maggiori problemi è che se è necessario davvero ridurre la dimensione dell’economia cosiddetta antropologica, significa che obbligatoriamente che siamo anche condannati a ridurre alcuni bisogni personali. Secondo le valutazioni degli esperti, l’economia antropologica corrisponde a tutte le attività umane che permettono di soddisfare in tempi rapidi un bisogno e/o un desiderio umano, indipendentemente dal fatto che tale attività sia inclusa o meno nel PIL.

Può trattarsi di mutuo soccorso o di altre azioni che non danno necessariamente luogo a transazioni monetarie. Allora come possiamo farlo in modo democratico e pianificato? Chi e con quale consenso finale dovrebbe individuare quali bisogni non vale la pena soddisfare? I sostenitori della decrescita – che i più ideologicizzati chiamano eufemisticamente come “felice” - ritengono che una riduzione dell’attività economica potrebbe essere accettata in cambio di un aumento del tempo libero.

Il problema è che se aumentiamo il tempo libero, è possibile che attività prima prodotte solo nell’ambito della gestione monetaria (quasi tutte) verrebbero ora generate nell’economia antropologica. In questo caso, la dimensione complessiva dell’economia non diminuirebbe in termini reali e non ci sono prove concrete capaci di suggerire che i vincoli ecologici siano in una fase di riduzione.

Vale il ben noto esempio che se scegli di accompagnare il tuo amico alla stazione piuttosto che acquistare i servizi di un taxi, non ridurrai l'impronta di carbonio del viaggio. Insomma, non c’è alcuna prova e quindi garanzia che sottraendo una parte delle nostre attività dal PIL e dal mercato saremo più rispettosi dell’ambiente.

Se l'umanità emette CO2 non è per il piacere di arrecare danno, ma perché queste emissioni ci permettono di soddisfare un bisogno.

Tuttavia, è difficile prevedere l’evoluzione dei nostri bisogni e vietare alle famiglie di produrre ciò di cui credono di aver bisogno. L’argomento democratico non è sufficiente da solo per convincere. In una democrazia, infatti, la maggioranza deve rispettare i diritti della minoranza e consentirle di soddisfare liberamente i bisogni che ritiene legittimi. Il problema è semmai come limitare in modo arbitrario – o addirittura autoritario – la capacità di una parte della popolazione di soddisfare parte dei propri bisogni quando ne ha la possibilità materiale.

Insomma, come si può conciliare economia con l’ecologia?

I teorici della decrescita hanno indubbiamente ragione su un punto: il declino del PIL, in ogni caso la fine del suo aumento ad libitum, forse sarà necessario, a lungo termine, per rimanere al di sotto del tetto ecologico, cioè di quello che la biosfera può e potrà supportare. Mettiamo le cose in modo più realistico: il rischio di collasso ecologico porterà senza dubbio l'umanità a riorganizzare radicalmente la propria economia per raggiungere una qualche forma di post-crescita.

Quantitativamente, quale sarà allora il livello del PIL in una economia siffatta ? Possiamo limitare, ad esempio, la sua riduzione del 25% del suo conto economico e capacità produttiva?

Nessuno possiede gli elementi per asserirlo con certezza. Anzi, si ipotizza che se il tetto ecologico richiedesse il dimezzamento del PIL, dovremmo eliminare tutta la produzione del mercato vigente e organizzare sistematicamente una forma di collettivizzazione di molti mezzi di produzione per garantire che tutti possano vivere nel minimo comfort nonostante i fortissimi vincoli che peseranno necessariamente sui consumi?

Dovremmo limitare l’accesso a determinate risorse per impedire irrazionalmente agli individui di continuare a produrre e ad approfondire la propria impronta ecologica nel tempo libero?

Queste domande concrete e cruciali per avere un futuro senza sconquassi sarebbero poste scontatamente. Oggi sfortunatamente non lo sono, o non lo sono in misura sufficiente, secondo i teorici della decrescita.

È una problematica che rimane attualmente apertissima ma non eludibile neanche a breve.

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