Mentre l’attentato fallito a Donald Trump del 14 luglio dimostra come la più vecchia democrazia al mondo non sia antiproiettile, da oltre due settimane un altro Paese s’interroga sul rapporto tra violenza e ‘governo del popolo’.
Martedì 25 giugno, a Nairobi una folla in protesta ha preso d’assalto il Parlamento. Con una parte del complesso legislativo in fiamme, alcuni manifestanti hanno fatto irruzione nella Camera dell’Assemblea Nazionale del Kenya, sinistra reminiscenza dell’attacco al Campidoglio americano del 6 gennaio 2021 da parte dei supporter trumpiani.
Eppure, una serie di elementi scava un abisso tra i due eventi. Innanzitutto, in Kenya le proteste erano cominciate pacificamente già da una settimana in 19 delle 47 contee del Paese. Insorti contro l’aumento di tasse previsto dalla legge finanziaria per il 2024-2025, i manifestanti hanno ampliato le proprie rivendicazioni domandando le dimissioni del Presidente William Ruto. Inoltre, a far notizia non sono solo le proteste in sé, ma anche e soprattutto la risposta violenta delle forze dell’ordine keniane.
Le immagini da Nairobi sono surreali: Sagome di manifestanti in fuga emergono dalla nube purpurea di un gas lacrimogeno, le urla sovrastate dalle detonazioni di armi da fuoco e flash bomb. Dal 18 giugno al primo luglio la Commissione nazionale keniana sui diritti umani ha registrato 39 vittime e oltre 350 feriti nel Paese in relazione alle proteste.
Solo una lettura del più vasto contesto in cui è inserito il Paese può illuminare il caos delle strade di Nairobi.
Oasi nel deserto
Il Kenya appartiene all’Africa Orientale, una regione situata a sud del deserto del Sahara particolarmente vulnerabile agli effetti del cambiamento climatico. Come avverte l’Ufficio per gli affari umanitari dell’ONU (OCHA), carestie e inondazioni legate al fenomeno climatico de El Niño affiancano e aggravano difficoltà economiche, conflitti e malattie, che a loro volta accentuano problematiche relative al dislocamento e alla protezione delle popolazioni locali.
In questo panorama, il Kenya rappresenta il principale hub economico, nonché il primo partner commerciale per l’Unione Europea. Luglio 2024 ha visto l’entrata in vigore dell’Economic Partnership Agreement (EPA) – accordo di partenariato economico – tra Nairobi e Bruxelles. Pietra miliare nelle relazioni strategiche UE-Kenya, l’EPA incrementerà lo scambio bilaterale di beni e i flussi d’investimento, e rappresenta l’accordo più ambizioso dell’Unione con uno Stato africano in termini di sostenibilità.
Inoltre, Nairobi costituisce un polo per la sicurezza e la stabilità regionali, nonché un affidabile asset occidentale. In un momento in cui l’Occidente – e in particolare Francia e USA – sembra ritirarsi dal continente africano a favore di altri attori internazionali come gli Africa Corps russi – eredi del Gruppo Wagner –, a fine maggio il Presidente americano Biden ha definito il Kenya un importante alleato non-NATO, facendo di Nairobi la prima e unica capitale subsahariana a fregiarsi di questo status.
Infine, il Kenya rappresenta un solido partner democratico dell’UE nella regione, nonché un attore chiave in seno alle Nazioni Unite – che hanno in Nairobi uno dei loro quattro quartier generali – e all’Unione Africana. In tal senso, non solo interessi comuni, ma anche valori e obiettivi condivisi, per esempio nel campo della sostenibilità e della transizione verde e digitale, rafforzano il partenariato tra il Paese e l’Unione Europea, facendone un modello della cosiddetta Strategia Global Gateway, il nuovo progetto ‘geopolitico’ di Bruxelles nato sotto la prima Commissione von der Leyen.
Sabbia sotto il tappeto
Ma non è tutto oro quel che luccica.
La repressione violenta da parte delle forze dell’ordine non è che l’ultima manifestazione di una patologia difficile da eradicare. Storicamente, gli ufficiali di polizia keniani hanno dato prova di corruzione, accuse e arresti pretestuosi, e persino atti brutali e omicidi nei confronti dei cittadini senza timore di incorrere in alcuna conseguenza.
“I sequestri di persona e le uccisioni mostrano quanto illiberale sia diventato lo Stato del Kenya, specialmente l’esecutivo e la polizia ad esso connessa”, ha commentato riguardo alle attuali proteste Njoki Wamai, ricercatore presso la United States International University-Africa a Nairobi.
Un altro problema annoso è l’opprimente debito pubblico keniano, arrivato a toccare 80 miliardi di dollari, ovvero quasi tre quarti del PIL del Paese. Il Kenya è quindi in linea con una tendenza continentale, secondo cui oltre la metà della popolazione africana vive in Stati costretti a pagare di più in interessi di quanto spendano in salute e educazione.
La legge finanziaria per il 2024-2025 che ha scatenato le proteste mirava proprio a tamponare il deficit di bilancio di Nairobi, raccogliendo fino a 2,7 miliardi di dollari attraverso nuove tasse.
La proposta rispondeva alla linea di austerità e alle riforme strutturali previste dall’accordo raggiunto a fine giugno tra il Kenya e il Fondo Monetario Internazionale. D’altro canto, i manifestanti hanno visto le nuove imposte su beni di prima necessità come pane, olio vegetale e zucchero come una misura che avrebbe strangolato l’economia e aumentato il costo della vita per una popolazione già in difficoltà.
La legge finanziaria è stata dunque interpretata come un affronto, specialmente considerando che l’attuale situazione economica del Paese è anche il frutto di almeno un decennio di cattiva gestione dei prestiti e di pericolosa dipendenza nei confronti del debito da parte di una classe politica affetta da casi eclatanti di corruzione.
Non a caso le proteste hanno presto allargato il proprio target dalla mera legge all’intera élite del Paese, a cominciare dal Presidente Ruto.
Proteste uniche
In questo contesto le proteste assumono una portata ancor più significativa. In particolare, tre fattori le renderebbero uniche, impedendo al governo di sedarle, come racconta la Professoressa keniana Awino Okech su The Conversation.
Il primo elemento è l’assenza di organizzazioni della società civile o di partiti politici dietro le proteste. Il secondo è l’aiuto reciproco per ottenere risorse economiche attraverso il crowdsourcing, con cui sostenere le spese ospedaliere e funerarie per feriti e vittime. Infine, la mancata fiducia tra società e governo scava un solco apparentemente incolmabile tra i manifestanti e il Presidente Ruto.
Di fronte agli scontri del 25 giugno, quest’ultimo aveva definito le proteste come “sovversive”, denunciando come il dibattito sulla legge finanziaria fosse stato “sabotato da gente pericolosa” e distinguendo una libera espressione democratica da “criminali che fingono d’essere manifestanti pacifici”. Salvo poi fare un passo indietro e ritirare la legge dopo aver constato l’estensione della sollevazione popolare.
Non essendo riuscito a screditare le proteste, Ruto ha cambiato tattica. Dapprima ha intavolato un confronto virtuale su X con furiosi manifestanti. Quindi, in accordo col leader dell’opposizione Raila Odinga, ha convocato un ‘forum multisettoriale’ di sei giorni a partire da lunedì 15 luglio per istaurare un dialogo sulle questioni più urgenti del Kenya tra gli stakeholder dell’intero spettro politico e della società civile.
La partecipazione di Odinga sembra strizzare l’occhio a un approccio da unità nazionale, una direzione confermata dal licenziamento da parte di Ruto del suo intero gabinetto con l’eccezione del ministro degli esteri e del vicepresidente. D’altro canto, l’invito alla cosiddetta ‘Gen Z’ – i giovani nati tra i tardi anni Novanta e i primi anni Dieci del 2000 – rimane problematico per quanto auspicabile. I giovani rappresentano infatti la spina dorsale delle attuali proteste: Un gruppo disilluso ma impegnato, senza leader e ideologie ma con una voce coordinata, capace al contempo di riunirsi senza gerarchie sul web e di mobilitarsi in strada.
Un gruppo amorfo ma compatto, e quindi difficile da corrompere, minacciare o balcanizzare.
I giovani di una giovane democrazia
“Questo segna un movimento sismico in una nazione dove i giovani sono stati accusati di apatia”, ha commentato lo scrittore keniano Carey Baraka sul New York Times. “Durante le elezioni generali del 2022, la maggior parte dei giovani keniani non si era neanche registrata per votare. Ora, […] i giovani del Paese sono una parte critica di un movimento in cui le persone stanno rischiando la propria vita per le conquiste democratiche che sono state promesse loro”.
In uno Stato dove oltre l’80% della popolazione ha meno di 36 anni, sul piano politico i giovani keniani potenzialmente godono di un peso specifico che i loro coetanei europei possono solo immaginare. Allo stesso tempo, è difficile comparare le sfide della Gen Z a Nairobi con quelle del suo corrispettivo a Bruxelles, a cominciare dalla brutalità delle forze dell’ordine e dall’autoreferenzialità della classe dirigente.
In tal senso, le attuali proteste possono catalizzare una presa di coscienza da parte dei giovani del Kenya sul ruolo centrale che possono svolgere nella traiettoria politica dello Stato, alle urne come in strada.
Se quindi in un certo contesto l’assalto al Parlamento rappresenta l’ora più buia di una democrazia, in un altro può invece essere sintomo di sete di democrazia, nonché di una vitalità pronta a scardinare il potere costituito da cui si sente tradita.
In un’epoca in cui il diritto al dissenso e alla protesta, cardine di ogni sano ordinamento democratico, è sotto attacco persino nel nostro Bel Paese e nel Vecchio Continente – dove aumentano la stigmatizzazione, criminalizzazione e repressione delle proteste pacifiche, come rivela un report di Amnesty International –, la sollevazione della gioventù keniana lancia un messaggio che travalica l’Africa Orientale: La democrazia non è una condizione assodata, ma una valore faticosamente conquistato e da difendere.
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L'Autore
Matteo Gabutti
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Matteo Gabutti è uno studente classe 2000 originario della provincia di Torino. Nel capoluogo piemontese ha frequentato il Liceo classico Massimo D'Azeglio, per poi conseguire anche il diploma di scuola superiore statunitense presso la prestigiosa Phillips Academy di Andover (Massachusetts). Dopo aver conseguito la laurea in International Relations and Diplomatic Affairs presso l'Università di Bologna, al momento sta conseguendo il master in International Governance and Diplomacy offerto alla Paris School of International Affairs di SciencesPo. All'interno di Mondo Internazionale ricopre il ruolo di autore per l'area tematica Legge e Società, oltre a contribuire frequentemente alla stesura di articoli per il periodico geopolitico Kosmos.
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Matteo Gabutti is a graduate student born in 2000 in the province of Turin. In the Piedmont capital he has attended Liceo Massimo D'Azeglio, a secondary school specializing in classical studies, after which he also graduated from Phillips Academy Andover (MA), one of the most prestigious preparatory schools in the U.S. After his bachelor's in International Relations and Diplomatic Affairs at the University of Bologna, he is currently pursuing a master's in International Governance and Diplomacy at SciencesPo's Paris School of International Affairs. He works with Mondo Internazionale as an author for the thematic area of Law and Society, and he is a frequent contributor for the geopolitical journal Kosmos.
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