Djibouti. Una nuova Dubai? Cause e Limiti dell’Ascesa Djiboutina

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  10 January 2023
  20 minutes, 40 seconds

Djibouti. Una nuova Dubai? Cause e Limiti dell’Ascesa Djiboutina

di Pietro Acerbis, Junior Researcher G.E.O. Area Economia

0. Abstract

Djibouti è una Repubblica semi-presidenziale che si estende a ferro di cavallo intorno al Golfo di Tadjoura, insenatura profonda che si sviluppa a sua volta dal Golfo di Aden. Anticamera della porta del lamento, unicum geopolitico mondiale in quanto ospitante sul proprio territorio americani e cinesi e hub logistico primario del mercato dell’area del Corno d’Africa, Djibouti è, ad oggi, una delle realtà in più rapida crescita dell’intero panorama africano. Nelle righe seguenti verranno analizzati i motivi che hanno portato allo sviluppo djiboutino tramite un approccio multi-disciplinare che spazia dalla storia alla geografia, dalla geopolitica all’economia.

1.Introduzione

La Repubblica di Djibouti è uno stato dell’Africa Orientale retto da un governo autoritario e incastonato tra Eritrea (Nord), Etiopia (Ovest) e Somalia (Sud). Ex colonia francese, indipendente dal 1977, questo minuscolo stato del Corno d’Africa vanta una posizione di assoluto rilievo strategico, collocandosi a ridosso del chokepoint che collega Mar Rosso e Golfo di Aden, i.e. lo stretto di Bab al-Mandab. La popolazione, peraltro in rapida crescita e collocata prevalentemente nell’area della capitale, ammonta a circa 900.000 anime suddivise etnicamente tra etiopi nel Nord (Afar) e somali nel Sud (Issa).

Modello di stabilità all’interno di un’area segnata dalle lotte tribali e religiose, Djibouti non possiede né le risorse naturali né il capitale umano necessari al proprio sviluppo nazionale. Ad assicurarne la crescita economica è piuttosto lo sfruttamento da parte degli attori internazionali della sua collocazione geografica privilegiata situata lungo una delle arterie principali del commercio internazionale che collega il ricco mercato europeo al sistema dell’Indo-Pacifico.

2. Storia

Il territorio che oggi conosciamo come Djibouti non è mai esistito come entità politica autonoma, almeno fino alla colonizzazione francese. Dal XVI secolo è entrato come parte integrante dell’Impero Ottomano all’interno della provincia dell’Eyalet d’Egitto. Nella seconda metà del XIX secolo la Francia del Secondo Impero intravide nella prospettata apertura del Canale di Suez la possibilità di stabilire un avamposto nella regione per tutelare i propri interessi commerciali e soprattutto controbilanciare la presenza britannica ad Aden. Nel 1888 i francesi posero le fondamenta del porto dell’odierna Djibouti (city) e diedero il via alla formazione della Somalia francese, sbocco marittimo fondamentale per l’economia dell’Impero Etiope.

Alla fine della WWII si verificarono le prime dimostrazioni da parte dell’etnia degli Issa che rivendicavano una riunificazione delle terre somale e la conseguente cacciata dei colonizzatori. In questa occasione gli Afar appoggiarono i francesi, che li favorirono affidandogli l’amministrazione del territorio. Al referendum del 1967 il 60% della popolazione si espresse ancora a favore del governo francese, risultato ottenuto mediante l’espulsione di massa dei somali dal Sud del paese e l’arresto dei leader dell’opposizione. Tuttavia, i tumulti scatenatisi nella capitale costrinsero le autorità coloniali a intervenire modificando il nome da Somalia francese in Territorio francese degli Afar e degli Issa, concedendo autonomie e favorendo la formazione di governi di coalizione.

Dopo l’indipendenza della Somalia, avvenuta nel 1960, le istanze anti-coloniali presero sempre più forza. I dimostranti, riuniti nella Ligue Populaire Africaine pour l’Indipendance e guidati dal futuro Presidente Hassan Gouled Aptidon ottennero nel 1977 l’istituzione di un nuovo referendum che garantì l’indipendenza alla neonata Repubblica dopo un secolo di dominazione francese. Tuttavia, la convivenza tra Issa, divenuti il gruppo dominante, e Afar non fu per nulla pacifica e priva di ostacoli.

Nel 1991, dopo una serie di attentati terroristici, gli Afar, desiderosi di un ritorno al pluralismo politico, insorsero e presero rapidamente il controllo delle regioni nel Nord del paese. Solo la riforma costituzionale e le forti pressioni francesi per una risoluzione delle lotte inter-etniche tramite negoziato permisero il cessate il fuoco definitivo nel 1994. Il 1999, dopo l’annuncio da parte di Gouled di ritirarsi a vita privata, vide l’ascesa politica di Ismail Omar Guelleh, tutt’ora Presidente della Repubblica di Djibouti.

I primi anni di governo di Guelleh furono caratterizzati da crescenti tensioni sociali, derivanti soprattutto dagli strascichi della guerra civile e conseguente reinserimento dei reduci di guerra nella società e dall’enorme numero di rifugiati presenti sul territorio djiboutino. In questo contesto, di fondamentale importanza furono gli aiuti internazionali assicurati da Francia e Unione Europea. Nel 2011 lo scoppio delle Primavere Arabe intaccò in minima parte il tessuto sociale del paese, in quanto dal 2003 Djibouti rappresenta una base logistica e operativa nella lotta all’integralismo islamico da parte delle potenze occidentali.

3. Geo-strategia

Se Djibouti ha rappresentato, a partire dai primi anni 2000, la meta privilegiata per le potenze mondiali alla ricerca di un posto al sole nel Continente Nero, ciò lo si deve alla sua contiguità col lembo di mare più pericoloso al mondo, il sopracitato stretto di Bab al-Mandab, in arabo “la porta del lamento”. Questo collo di bottiglia, ampio soli 27 km nel suo tratto più angusto, separa il continente asiatico da quello africano e funge da epicentro della vasta regione marittima che connette l’Oceano Indiano al Mar Mediterraneo passando per il Mar Rosso. Bab al-Mandab è insomma uno snodo fondamentale posto lungo una delle vie marittime più trafficate del pianeta, in grado di incanalare ogni anno circa il 20% del commercio globale[1], costituendo inoltre transito obbligato per le forniture energetiche mediorientali dirette in Europa. Ma facciamo un passo indietro.

Nel 1857 il completamento del canale di Suez ha di fatto ridisegnato le rotte del commercio su scala globale e in funzione di esse le priorità strategiche delle grandi potenze. L’antico itinerario che prevedeva il doppiaggio del Capo di Buona Speranza era stato sostituito e surclassato dalla nuova e più efficiente rotta passante per il Mar Rosso. Immediata conseguenza fu l’elevazione del Corno d’Africa da area periferica dello scacchiere globale a teatro geopolitico di primaria importanza da dove gestire e monitorare i flussi commerciali che collegavano l’Europa e le colonie nell’Indo-Pacifico.

Oggi, il connettore di Bab al-Mandab è circondato da un’area tra le più instabili del globo, segnata da livelli di crescita molto contrastanti. Se in Medio Oriente la scoperta degli immensi giacimenti di petrolio ha favorito lo sviluppo delle economie della penisola arabica, in Africa Orientale a dominare la scena sono le organizzazioni terroristiche di matrice islamica che impediscono di fatto uno sviluppo orientato al progresso, nel senso occidentale del termine. Infine, il conflitto civile yemenita ha avuto e sta avendo conseguenze devastanti per la stabilità della regione, compromettendo la libera navigazione lungo lo stretto.

La necessità di tutelare e mettere in sicurezza un passaggio cruciale degli scambi tra Occidente e Oriente ha comportato, soprattutto nell’ultimo decennio, un imponente afflusso di uomini e mezzi da parte di attori occidentali, mediorientali, ed asiatici. Come anticipato, a privilegiare maggiormente di questa complicata situazione geo-strategica è stata la giovane Repubblica di Djibouti, forte della stabilità che il Presidente Guelleh è riuscito a garantire negli ultimi anni. L’apertura del piccolo paese africano ai copiosi investimenti provenenti dall’estero ha permesso la presenza in pianta stabile dei militari di Usa, Francia, Cina, Italia, Giappone, Germania, Spagna, EAU ed Arabia Saudita.

3.1 Interessi americani

Nella percezione statunitense, la rotta passante per la porta del lamento ha certamente una valenza energetico-commerciale, ma soprattutto rappresenta per gli apparati d’Oltreoceano la chiave di volta per il dominio informale su tutta l’area del Golfo Persico, oltre che del Corno d’Africa. Da Bab al-Mandab passa infatti la quota maggioritaria della logistica e degli approvvigionamenti delle truppe dislocate in Medio Oriente, per questa ragione controllare lo stretto significa permettere il presidio di un’area geografica che va dal Sahel orientale fino alle foci del Tigri e dell’Eufrate, passando per l’Arabia. Oltre che, naturalmente, assicurare la continuità delle linee marittime che connettono il Mediterraneo all’Indo-Pacifico, seguendo la rotta Suez-Malacca. Dominando l’elemento marittimo in funzione di quello tellurico, siamo davanti a uno dei capisaldi della dottrina strategica a stelle e strisce, Mahan docet. Se il Corno d’Africa probabilmente non sarà il teatro dello scontro risolutivo della sfida Tucididea tra Stati Uniti e Repubblica Popolare, attualmente è a Djibouti che le truppe delle due potenze si fronteggiano più da vicino. Camp Lemonnier è il risultato dell’ampliamento e ammodernamento di un’ex installazione militare della Legione Straniera Francese, rilevata dal Pentagono nel 2002. All’indomani dell’11/09, infatti, la struttura ha costituito un hub strategico per condurre le operazioni anti-terrorismo soprattutto in Yemen e Somalia. Ad oggi la base ospita circa 4mila militari[2] (oltre metà del contingente schierato in Africa) e negli anni si è evoluto in centro logistico e operativo delle missioni a guida statunitense in tutto il continente. Di straordinaria rilevanza è anche l’aeroporto di Chabelley, la più imponente base di droni americana in territorio straniero. La base, non disponendo di accessi diretti al mare, dipende per il supporto logistico dal Doraleh Container Terminal. Nel 2018, la nazionalizzazione del porto commerciale da parte del governo Guelleh ha fatto scattare il campanello d’allarme nei laboratori strategici della Superpotenza, in quanto si stima che Pechino detenga circa l’80% del debito pubblico djiboutino. La cosiddetta trappola del debito in cui Djibouti corre il rischio di infilarsi potrebbe garantire il controllo cinese del porto e, di conseguenza, compromettere la postura militare americana in Africa orientale.

3.2 Interessi cinesi

Gli interessi strategici cinesi per la Repubblica di Djibouti sono speculari rispetto a quelli statunitensi. Il paese occupa infatti una posizione di rilievo lungo la direttiva meridionale del circuito marittimo delle Nuove Vie della Seta (BRI), il progetto di contro-globalizzazione lanciato da Xi Jinping che nell’ottica cinese consacrerà la Repubblica Popolare nell’Olimpo delle grandi potenze. Con ciò non si intende che, ad oggi, il Dragone non si annoveri nell’albo degli attori in grado di dettare l’agenda strategica globale. Tuttavia, la potenza revanscista per eccellenza ancora non riesce a tramutare la propria forza economica in arma geopolitica da utilizzare per riscrivere i rapporti di forza internazionali in vista di una transizione multipolare.

Per la RPC, Djibouti rappresenta la prima tappa del percorso di sovvertimento dell’ordine internazionale, tassello indelebile nel progressivo processo di espansione militare e diplomatica all’estero. Da questo assunto ne è derivata l’esigenza di dotarsi di un avamposto strategico intermedio dal quale vigilare la rotta che connette il Mar Cinese Meridionale agli stati rivieraschi del Mar Mediterraneo, i.e lo sbocco naturale per le esportazioni manifatturiere cinesi. Le diramazioni terrestri lungo la massa continentale eurasiatica della Belt and Road Initiative, infatti, non potranno garantire il pieno funzionamento del progetto senza lo sfruttamento della via marittima passante per Malacca-Bab al-Mandab-Suez. La base militare, inaugurata nel 2017, costituisce l’ultimo atto di una lunga lista di investimenti di Pechino nell’ex colonia francese, fra cui spiccano la costruzione del palazzo presidenziale, la linea ferroviaria Addis Abeba-Djibouti e il nuovo terminal all’interno del porto commerciale, il Doraleh Multipurpose Port, tramite il quale la Cina si è garantita la facoltà di disporre in esclusiva di un molo riservato in grado di accogliere le unità navali della Marina dell’Esercito Popolare di Liberazione. Classico esempio di come i cinesi tendano ad integrare iniziative di natura infrastrutturale (spesso dual use) e militare per adempiere alle proprie esigenze strategiche.

Se le fortemente militarizzate isole artificiali nel Mar Cinese Meridionale e la vociferata costruzione di un porto dual use in Guinea Equatoriale potrebbero indurre un osservatore poco attento a notare (e temere?) l’assertività cinese nell’ultimo lustro, la realtà dei fatti ci racconta come attualmente l’esperienza djiboutina resti un unicum nella strategia cinese di ampliamento dei propri orizzonti logistici e strategici. A riprova del fatto che il revanscismo di Pechino rimanga lungi dal realizzarsi, almeno nel breve periodo.

3.3 Interessi italiani

Nel 1936 la campagna coloniale più imponente della storia, che ha visto fronteggiarsi il Regno d’Italia declinato in senso fascista e il secolare Impero Etiope, terminava con la creazione dell’Africa Orientale Italiana. Questo per affermare che, se Djibouti oggi ospita anche una base italiana, ciò lo si deve al fatto che il Corno d’Africa costituisca storicamente un’area di tradizionale interesse strategico per il Belpaese. L’industria manifatturiera italiana ha infatti la necessità di acquisire dall’esterno le materie prime e le risorse energetiche che ne alimentano lo sforzo produttivo. Ha inoltre bisogno di mercati potenzialmente illimitati che ne assorbano la produzione, mercati che vengono prevalentemente raggiunti via mare. Proprio la rotta passante per Bab al-Mandab permette all’Italia di scambiare con tre dei suoi primi cinque partner commerciali via mare, ossia Cina, Arabia Saudita e India[3]. A tal proposito e dunque a tutela dei nostri interessi energetici e commerciali fu pensata la creazione della base italiana a Djibouti, operativa dal 2013, dalla quale presidiare i traffici marittimi e fornire assistenza alle truppe dispiegate tra Somalia ed Etiopia, con funzioni di stabilizzazione. La struttura, a connotazione interforze, offre supporto logistico alle unità navali impiegate tra Oceano Indiano e Golfo di Aden con compiti di anti-pirateria, anche in ambito comunitario.

4. Stato di diritto

Djibouti è una Repubblica semi-presidenziale. Il capo del governo è apparentemente il Primo Ministro, tuttavia il ruolo del Presidente è centrale. Secondo la Costituzione il potere legislativo è condiviso tra il governo e l’Assemblèe National, mentre l’esecutivo resta in mano al governo. L’assemblea nazionale è unicamerale e composta da 65 membri eletti direttamente tramite sistema proporzionale con mandato di cinque anni. Nonostante l’illusoria separazione dei poteri, non esiste un effettivo sistema di check & balance che limiti il potere del Presidente, che è il principale decisore del paese, soprattutto nel campo della politica estera. Il processo elettorale, l’effimero ruolo dei partiti d’opposizione e il carattere autoritario della coalizione governativa alterano il funzionamento delle istituzioni democratiche. Ne consegue che la capacità dei ministri di prendere decisioni autonome è praticamente nulla, le stesse nomine governative sono condizionate da alleanze personali con la famiglia del Presidente, che ha la libertà di eleggere anche i giudici della Corte Suprema. Sia il ramo esecutivo che quello legislativo esercitano una forte influenza sulla magistratura. Per ultimo, ma non per importanza, forze di polizia e apparato militare sono saldamente sotto il controllo presidenziale. Corruzione dilagante e appropriazione indebita di fondi pubblici sono i due principali problemi del sistema istituzionale djiboutino, in quanto tangenti pagate ad ufficiali governativi sono riscontrabili a tutti i livelli dell’amministrazione. Infine, il bilancio statale non è pubblico.

5.Governance

Dall’avvento al potere del Presidente Guelleh, Djibouti ha vissuto una fase di espansione demografica che ha portato la popolazione a crescere dai 700.000 del 1999 ai circa un milione del 2019[4], dei quali circa il 70% vive nella capitale. Tuttavia, a causa della mancanza di una sviluppata economia industriale e manifatturiera, le opportunità di lavoro per il giovane popolo djiboutino sono assai limitate. Inoltre, le precarie condizioni climatiche contribuiscono a rallentare la crescita socio-economica del paese. Siccità e catastrofi naturali, infatti, influenzano l’efficienza del settore primario e limitano la produzione domestica di beni di prima necessità. Infine, l’elevato livello di salinità della maggior parte delle fonti idriche rende impraticabile l’irrigazione su larga scala. In questo contesto non idilliaco, esacerbato dall’impatto delle restrizioni dovute alla pandemia di Covid-19, la lotta alla povertà resta la questione primaria per la governance della Repubblica.

A tal proposito, nel 2014 il governo ha lanciato Vision 2035, la prima strategia di sviluppo a lungo termine del paese, pietra miliare nella storia djiboutina. Il progetto si fonda su cinque pilastri: pace e unità nazionale, buona governance, diversificazione dell’economia, investimenti crescenti nel capitale umano e la promozione dell’integrazione regionale per aumentare gli scambi con i partner commerciali. Purtroppo, i due anni di pandemia e le relative limitazioni alla circolazione di persone e merci hanno fortemente condizionato l’effettiva capacità del governo di implementare gli obiettivi a breve termine. Nonostante ciò, importanti progetti sono stati lanciati in linea col la Road Map del 2014. Tra essi spiccano per prestigio la costruzione della linea ferroviaria che connette Addis Abeba alla capitale, l’acquedotto che drena le acque del Nilo verso il paese e l’istituzione dell’East Africa International Business Zone, area di integrazione economica connessa strettamente con la riqualificazione del porto di Djibouti.

Nazione povera di risorse, Djibouti ha individuato proprio nella sua collocazione geografica il volano tramite il quale lanciare la propria economia. Gli investimenti in infrastrutture all’avanguardia, unito a un buon contesto securitario e una moneta piuttosto stabile ha permesso negli ultimi anni di attrarre investitori e creare nuove fonti d’entrata. Oltre a ciò, i canoni di locazione delle basi militari presenti sul territorio e le tasse per l’utilizzo dei servizi portuali costituiscono le fonti principali di accumulo di valuta estera. Tuttavia, il bilancio annuale e le informazioni sui proventi dell’affitto delle basi sono accessibili solo a un numero ristretto di ministri vicini al presidente. Ciò condiziona fortemente la capacità del paese di perseguire una politica di investimenti in settori come salute, educazione e servizi alla popolazione.

6. Economia

L’economia di Djibouti è dominata dalla presenza di imprese statali operanti principalmente nei settori agro-industriale, minerario, alberghiero, dei servizi finanziari, telecomunicazioni, trasporti e dei servizi di stoccaggio. La moneta ufficiale è il Franco djiboutino, vincolato al dollaro mediante un sistema di cambi fissi. L’assenza di restrizioni agli scambi rendono Djibouti un mercato particolarmente attraente per investitori esteri, specialmente per le aziende etiopi che soffrono la mancanza di capitale straniero. Infatti, nonostante la produzione sia diminuita nel 2020-2021 rispetto al biennio precedente[5], Djibouti riveste comunque una posizione di assoluto rispetto nella regione, grazie soprattutto ai proventi del porto e le attività ad esso connesse.

Il porto djiboutino è, come anticipato, lo snodo logistico primario per tutta l’area del Corno d’Africa, in grado da solo di trainare l’intera economia del paese. Consapevole di quanto appena detto, il governo Guelleh nell’ultimo decennio ha aumentato considerevolmente il proprio debito pubblico (circa 50% del PIL nel 2018[6]) investendo fortemente nello sviluppo di infrastrutture all’avanguardia (in primis la linea ferroviaria Djibouti-Addis Abeba) che servissero l’impianto portuale. Inoltre, per facilitare e accrescere il volume degli scambi passanti per il paese, Djibouti è membro del Common Market for Eastern and Southern Africa (COMESA).

Malgrado ciò, i ricavi delle attività portuali non vengono condivisi da ampie fasce della popolazione, che vivono in situazioni di povertà assoluta. Djibouti si classifica infatti 171esimo su 189 nello UN Human Development Report del 2019[7] e, considerando il flusso continuo di rifugiati provenienti dal vicino Yemen e le conseguenze della pandemia, le condizioni di vita per il popolo djiboutino non sono migliorate nell’ultimo triennio. Solo il 57% delle famiglie della capitale hanno accesso all’elettricità, percentuale che si abbassa all’1% per la popolazione rurale. Infine circa il 30% della popolazione, compresa la quota maggioritaria dei rifugiati, vive situazioni di insicurezza alimentare[8]. Il governo, nonostante l’innata predisposizione a investire nella crescita economica di Djibouti piuttosto che a livellarne le disuguaglianze sociali, ha comunque provveduto con una serie di investimenti ad ammortizzare i terribili effetti della pandemia di Covid-19 sulla popolazione. Il programma, lanciato nel 2020, mira innanzitutto a rinforzare il sistema sanitario nazionale e a facilitare l’accesso alle cure mediche per le famiglie in difficoltà.

6.1 Investire a Djibouti

La drastica contrazione del volume degli scambi a livello globale dovuta all’impatto della pandemia ha colpito in maniera netta sia l’economia portuale djiboutina che la logistica ad essa collegata. Difatti, un ritorno della crescita su cifre pre-pandemiche (+7,5% nel 2019) sarà saldamente collegata e determinata da una ripresa del commercio su scala globale, che porterà nuovamente investitori di tutto il mondo a guardare al piccolo stato africano come la Singapore d’Africa. In particolare, la ripresa degli scambi con l’Etiopia, che ammontano a circa l’80% delle attività portuali[9], sarà essenziale in questo senso.

Spostando la lente dal breve periodo alla congiuntura, nel senso braudeliano del termine, emerge che dal 2014 Djibouti migliora la propria posizione nel World Bank’s Doing Business Index[10]. Ciò riflette la ferma volontà del governo di fare di Djibouti un traguardo privilegiato per gli investitori internazionali. Sebbene su scala mondiale si attesti ancora sotto la media, Djibouti a livello regionale resta un’ottima soluzione d’investimento a rischio contenuto, almeno rispetto alla media dell’Africa sub-Sahariana, grazie soprattutto alla stabilità istituzionale garantita dall’autoritarismo di Guelleh. Tuttavia, esistono ancora diversi fattori che fungono da deterrente per possibili affari e in generale limitano lo sviluppo socio-economico complessivo, come ad esempio gli alti costi dell’elettricità e una forza lavoro non qualificata sproporzionalmente elevata.

Il settore maggiormente aperto all’immissione di capitali esteri resta quello dei servizi pubblici, nel quale gli investitori stranieri godono degli stessi privilegi giuridici e fiscali dei locali. In generale, il processo di concessione ed autorizzazione per nuovi investimenti non è interamente trasparente. Circostanza che potrebbe scoraggiare determinati investitori ed attirarne altri. Infatti, molti aspetti delle operazioni sono negoziabili direttamente con ufficiali governativi a condizioni fiscali molto favorevoli.

7. Conclusioni

La visione a lungo termine di Djibouti e le sue traiettorie di sviluppo e cambiamento nel futuro prossimo potrebbero essere condizionate, limitate e addirittura bloccate da tre incognite evidenti, analizzate di seguito in ordine di rilevanza.

7.1 Stabilità regionale

Innanzitutto, la stabilità della regione. Saranno da monitorare con attenzione il conflitto attualmente in corso nel Nord dell’Etiopia tra i separatisti del Tigray e il governo etiope, le dispute territoriali tra Addis Abeba, il Cairo e Khartum, nonché la minaccia rappresentata dalla ramificazione africana dello Stato Islamico, al-Shabaab, operante soprattutto in Somalia. È noto come Djibouti dipenda dalle importazioni di elettricità e di acqua potabile dal vicino etiope. Di più, i legami logistico-commerciali con Addis Abeba rendono l’economia djiboutina direttamente dipendente dalle condizioni securitarie in Etiopia e, viste le controversie con i vicini Sudan ed Egitto, in tutta l’Africa Orientale.

A questo riguardo, con l’ascesa nel 2018 del riformista Abiy Ahmed come Primo Ministro etiope, le relazioni regionali hanno fatto un deciso salto di qualità. In primis, la riapertura dei canali diplomatici con Asmara, senza dimenticare la rapida messa in funzione delle strutture portuali a Berbera in Somalia. Proprio i due stati rivieraschi potrebbero mettere in discussione, in futuro, la postura strategica djiboutina come porta d’accesso principale al mercato orientale africano. Per contro, la potenziale espansione del porto di Berbera e la conseguente costruzione di nuove infrastrutture inter-regionali potrebbero consolidare il ruolo di Djibouti come perno della logistica marittima e dei trasporti del Corno d’Africa. Stabilità politica e sicurezza operazionale saranno fondamentali nel determinare l’orientamento degli investimenti nell’area, il che ci porta dritti alla seconda incognita.

7.2 Stabilità istituzionale

A partire dal 1999, il governo ha intrapreso una serie di iniziative volte a preservare la pace sociale in una regione, quella del Corno d’Africa, altamente volatile. La politica autoritaria messa in atto dal Presidente Guelleh e dal suo entourage, forti dell’appoggio di attori internazionali e caratterizzata da arresti arbitrari di oppositori politici e controllo assoluto sui media, se da un lato ha permesso due decenni di sviluppo economico, dall’altro ha annullato la libertà politica dei cittadini. Un malcontento crescente si sta insinuando tra le fasce più povere della popolazione, che non hanno beneficiato della crescita di Djibouti. Inoltre, è improbabile che Guelleh si ricandidi per la sesta volta nel 2026, data la sua età. Un emendamento alla costituzione che preveda la reintroduzione del limite di due mandati presidenziali consecutivi potrebbe essere un importante segnale dato sia ai cittadini che agli oppositori politici, in vista di una transizione liberale e democratica. In questo senso, gli ultimi anni di presidenza di Guelleh saranno fondamentali per evitare la possibilità di una rivoluzione popolare che complicherebbe oltremodo i partenariati strategici e securitari con le potenze straniere. Per di più, un pacifico trasferimento di poteri sarà essenziale per implementare gli obiettivi sanciti da Vision 2035.

7.3 La rotta artica

Infine, il cambiamento climatico in corso avrà sicuramente conseguenze devastanti per l’intera Africa sub-Sahariana, Djibouti compreso. Si è già accennato all’insicurezza idrica ed alimentare che affligge il piccolo stato africano, costretto a drenare le acque dal Nilo e ad importare gli alimenti per sfamare la propria popolazione. Insicurezza che potrà essere solo aggravata dall’innalzamento delle temperature a livello globale, ma non è su questo punto che si vuole insistere in questa sede. Come nel XIX secolo la realizzazione del canale di Suez ridisegnò la mappa mondiale del commercio tra stati, cosi lo scioglimento del ghiaccio artico nei prossimi decenni potrebbe sconvolgere nuovamente le rotte del trasporto marittimo su scala internazionale, relegando il Corno d’Africa ad area secondaria dell’arena globale, con conseguente ri-orientamento degli investimenti delle grandi potenze verso teatri strategici più appetibili. Permangono tuttavia dei dubbi sull’effettiva capacità delle nuove vie marittime settentrionali di ribaltare l’odierna gerarchia dei trasporti via mare.

Bibliografia e sitografia

https://www.britannica.com/place/Djibouti (A1)

https://www.afdb.org/en/countries-east-africa-djibouti/djibouti-economic-outlook (A2)

https://bti-project.org/en/reports/country-dashboard/DJI (A1)

https://documents1.worldbank.org/curated/fr/870641468246040913/pdf/916950WP0DJIBO0x385342B00300PUBLIC0.pdf (A1)

https://geopoliticalfutures.com/us-military-african-front/ (B2)

Alberto de Sanctis, Gibuti/Bab al-Mandab, Magnete per le potenze in Limes, Rivista Italiana di Geopolitica, 7/2019 (B2)

Emanuela C. del Re, Che cosa fa l'Italia nel piccolo grande Gibuti, in Limes, Rivista Italiana di Geopolitica, 7/2019 (B2)

[1]https://on-shore.mschoa.org/about-mschoa (2/B)

[2]https://militarybases.com/overseas/djibouti/lemonnier/ (2/B)

[3]https://www.infomercatiesteri.it/public/osservatorio/interscambio-commerciale-mondo/Preleva%20tutto%20l'aggiornamento_1668715269.pdf (1/B)

[4]https://data.worldbank.org/country/DJ (1/A)

[5]https://data.worldbank.org/indicator/NY.GDP.MKTP.CD?locations=DJ (1/A)

[6]https://www.fxempire.it/macro/djibouti/government-debt-to-gdp (2/B)

[7]https://hdr.undp.org/system/files/documents//hdr2019overview-englishpdf.pdf (1/B)

[8]https://smartdatafinance.org/storage/2021-10-19/gMp6URftuoK9dwu.pdf (1/A)

[9]https://oec.world/en/profile/bilateral-country/eth/partner/dji (1/A)

[10]https://data.worldbank.org/indicator/IC.BUS.EASE.XQ?locations=DJ (1/A)

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