IPEF: la strategia statunitense dell’Indo-Pacifico

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  01 July 2022
  14 minutes, 50 seconds

IPEF: la strategia statunitense dell’Indo-Pacifico

Abstract

Nel Sud-Est Asiatico è presente un’associazione di nazioni chiamata ASEAN che non solo rappresenta il 40% del PIL mondiale, ma che è anche al centro dell’attuale competizione tra Cina e Stati Uniti. La prima rappresenta un alleato commerciale fondamentale, ma anche cruciale per quanto riguarda le questioni territoriali, mentre il secondo un’alternativa con grandi potenzialità ma tutt’ora economicamente meno influente.

Questa analisi mira a esaminare tale situazione in bilico tra due superpotenze, spiegando cos’è questa associazione, da quali stati essa è composta e perché gli Stati membri non scelgono da che parte stare. Continuerà, poi, con una sintesi della strategia statunitense a partire dall’amministrazione Obama, fino ad arrivare ai giorni nostri e alla strategia del presidente Biden. Gli Stati Uniti intendono porsi come valida alternativa agli investimenti che arrivano da Pechino attraverso un accordo commerciale chiamato IPEF, che, sebbene prometta grandi investimenti, ha dimostrato di essere in realtà ancora poco chiaro ed economicamente inferiore alle iniziative cinesi. Questo è ciò che emerso dai recenti vertici: prima tra i leader dell’ASEAN e Stati Uniti e, successivamente, del Quad, un’alleanza dell’Indo-Pacifico.

1. ASEAN: cos’è, i suoi obiettivi e i suoi (in)successi economici

“Una visione, un’identità, una comunità” è il motto ASEAN, l’associazione di Nazioni del Sud-Est Asiatico fondata nel 1967 e, al momento, composta da Indonesia, Malesia, Filippine, Singapore, Thailandia, Brunei, Vietnam, Laos, Myanmar e Cambogia. I Paesi fondatori lavorarono insieme per limitare l’espansione del comunismo, in particolare come reazione al tentativo di esportazione da parte della Cina della sua ideologia. Alla fine della Guerra Fredda il Trattato di Amicizia e Cooperazione, che fu firmato dagli Stati membri, ne rivelò la forte identità post coloniale. Al centro dei valori che caratterizzano quest’unione c’è, infatti, oltre al rispetto dell’indipendenza, sovranità e identità dei membri, il principio di non interferenza negli affari interni, caro anche alla vicina Cina. Oggi giorno l’ASEAN rappresenta una forte volontà da parte dell’area non solo di pace, ma anche di collaborazione in termini economici. Nel 2015, venne realizzata la Comunità Economica dell’associazione, avendo come obiettivo un mercato singolo e un flusso libero di beni, servizi, investimenti, capitali e lavoratori. Con una popolazione totale che supera i seicento milioni di abitanti, l’ASEAN rappresenta un importante svincolo commerciale a livello globale, come riportato dai dati di import ed export forniti dallo United Nations Commodity Trade Statistics Database. Nel 2020, il valore delle esportazioni della regione ammontava a 1.395.000.000.000 di dollari e le destinazioni principali erano Cina e Stati Uniti. Per quanto riguarda le importazioni, si è giunti a 1.272.000.000.000. È da notare che, nel secondo caso, i beni siano arrivati principalmente dalla Cina, con un distacco notevole dagli Stati Uniti. Nonostante questi dati siano promettenti, l’ulteriore obiettivo a cui la Comunità Economica punta, ovvero a opportunità di sviluppo e prosperità eque, si dimostra difficile da raggiungere quando si osserva alle diversità culturali dei membri, ai diversi livelli di economia, sviluppo e alle prospettive strategiche e affiliazioni esterne. Dal grafico sotto riportato si può notare la grande differenza nelle esportazioni nette degli Stati dell’area, con Singapore e Malesia in testa – intorno ai quarantacinque milioni di dollari ciascuno – e Myanmar, Cambogia e Filippine in coda – caratterizzate invece da un valore negativo –.

Questa disparità è una conseguenza della difficoltà di integrazione dei membri dell’ASEAN e spiega anche la grande necessità di investimenti. Lo sviluppo economico, infatti, è sempre stato uno dei motivi principali alla base della creazione di questo regionalismo, la quale stabilità e crescita rafforzerebbero lo Stato, minando i movimenti sovversivi interni. Come è sostenuto nel libro Routledge Handbook of Asian Regionalism, ciò proteggerebbe la regione dall'intervento di grandi potenze esterne, poiché queste non avrebbero l'opportunità di sfruttare l'instabilità interna (Jetschke Anja, 2012). Tuttavia, i membri non si sono mossi verso una cooperazione o integrazione significativamente più profonda, sebbene la cooperazione economica sia stata nell'agenda dell'ASEAN sin dall'istituzione dell'organizzazione. I modelli commerciali della regione, con il commercio estero chiaramente dominante sul commercio intraregionale, hanno determinato le discrepanti dinamiche economiche regionali e la mancanza, rispetto ad altre aree, di istituzioni economiche.

2. Da Obama a Biden: la strategia dell’Indo-Pacifico

Negli ultimi anni questi Stati hanno dovuto far fronte ad una maggiore rivalità tra Stati Uniti e Cina. A partire dal trattato Trans-Pacific Partnership, firmato nel 2015 – riguardante il libero scambio fra dodici paesi, inclusi Brunei, Malesia, Singapore, Vietnam e gli Stati Uniti – l’interesse americano di porsi come alternativa alla crescente economia cinese è diventato sempre più visibile. Fu proprio con Obama che venne convocato il primo summit Usa-ASEAN, nel quale si iniziò ad estendere la discussione riguardo la cosiddetta strategia dell’Indo-Pacifico. Con l’amministrazione Trump, questa competizione si è resa ulteriormente evidente e le politiche di contrasto contro l’influenza cinese sono divenute più dirette, in particolar modo per quanto riguarda la sicurezza marittima. Quest’ultimo è uno dei motivi principali per cui i paesi dell’Indo-Pacifico hanno accettato di buon grado il maggior interesse nell’area da parte degli Stati Uniti, seppur volendo mantenere una situazione di non allineamento per paura di rimanere intrappolati in una situazione che potrebbe danneggiarne la crescente economia. Lo scambio di merci con la Cina rappresenta un introito non trascurabile. Se, da una parte, è conveniente accettare gli investimenti e la protezione statunitensi, dall’altra è bene tenere in considerazione l’opinione (e l’umore) cinese.

Verrebbe naturale pensare alla strategia di Biden come ad una continuazione di quella di Obama, essendo stato il suo vicepresidente dal 2009 al 2017, ma in realtà non è così dissimile da quella trumpiana (Michael Kugelman, 2021). Ciò è sicuramente una conseguenza della crescente importanza del conflitto Usa-Cina all’interno del dibattito pubblico. Della precedente amministrazione rimangono i dazi e le sanzioni a diverse compagnie cinesi. Trentuno società identificate come collegate ai piani militari cinesi sono state sanzionate, sotto il presidente Trump, in modo da vietare a tutti i cittadini statunitensi di investire in esse. L’anno scorso, con Biden, questa lista di sanzioni non solo non è stata eliminata, bensì ampliata arrivando attualmente a sessantotto compagnie. La maggior parte sono conglomerati statali controllati direttamente da Pechino. La maggior parte sono legati all’ingegneria militare, alla navigazione, allo spazio, all’aviazione e alle tecnologie missilistiche e satellitari. Van Jackson, accademico di relazioni internazionali alla Victoria University of Wellington, ha dichiarato che l’unica differenza tra Biden e Trump, quando si parla di Cina, è che sotto Biden gli Stati Uniti sono più moderati e leggermente più competenti (Vox, 2022). Anche Pechino vede una somiglianza tra le due amministrazioni, come affermato da Wenran Jiang – direttore del Forum sull'energia e l'ambiente Canada-Cina –, a cui ha ulteriormente aggiunto che non è l’ostilità verso la Cina ad essere cambiata, quanto le tattiche del confronto.

Questi rapporti sono definiti come “competizione strategica” da Washington. Da una parte, il presidente Biden sostiene di dover vincere questa competizione economicamente e militarmente altrimenti la Cina “mangerà il nostro pranzo”. Dall’altra, la prospettiva di Xi Jinping è totalmente diversa. Dal suo punto di vista, l'amministrazione Biden sta schierando nazioni in Asia e in tutto il mondo a prendere di mira ingiustamente la Cina e a prevenirne lo sviluppo e l'ascesa. Da qui non solo l’importanza di ciò che sta avvenendo nei Paesi dell’ASEAN, ma anche della volatilità della situazione.

Il presidente Xi ha spesso sottolineato come non sia interessato a dominare l’area, affermando che la pace sia il più grande interesse comune di tutti. Questo è un punto su cui la Cina si è sempre voluta distinguere dagli Stati Uniti, visti come un potere egemone che esercita l’uso della forza. Queste dichiarazioni, tuttavia, potrebbero avere un profilo contraddittorio rispetto alle dispute territoriali nel Mar Cinese Meridionale con Brunei, Indonesia, Malesia, Filippine e Vietnam e ai metodi di rivendicazione di Pechino. Sono infatti state ampliate delle isole già esistenti o create delle nuove, costruiti dei porti, installazioni militari e piste di atterraggio, schierando caccia, missili da crociera e un sistema radar. La tattica comune utilizzata dai paesi del Sud-Est Asiatico nei confronti della Cina è quella di "scollegare" le controversie sulla sicurezza al commercio. Il Vietnam, ad esempio, commercia molto con la Cina nonostante i suoi problemi nel Mar Cinese Meridionale. Un'altra tattica consiste nel continuare a utilizzare una strategia basata sui principi di non interferenza e centralità dell'ASEAN, quest'ultima importante in quanto crea un cuscinetto di multilateralismo per proteggersi dall'influenza delle grandi potenze.

Questa dipendenza economica dalla Cina pone un limite all’influenza americana, che ha quindi recentemente risposto con l’IPEF, abbreviazione di Indo-Pacific Economic Framework.

3. Le potenzialità e i limiti dell’IPEF

L’IPEF rappresenta un accordo commerciale flessibile lanciato nell’ottobre 2021, avente lo scopo di rinnovare la credibilità degli Stati Uniti nell’economia regionale. Esso comprende, oltre alla maggioranza dei Paesi ASEAN, Australia, India, Giappone, Corea del Sud e Nuova Zelanda. Successivamente si sono unite anche le Isole Fiji. Questo accordo si basa su quattro pilastri: commercio, resilienza delle filiere, energia pulita e decarbonizzazione, tasse e anticorruzione. Per quanto riguarda il commercio, traspare un impegno verso standard elevati, inclusivi, liberi ed equi a vantaggio sia dei lavoratori che dei consumatori. Si parla anche di commercio digitale, che comprende sia l’acquisto e la vendita di beni online, sia un flusso di dati funzionale a servizi, piattaforme e applicazioni globali. Vi è quindi la volontà di migliorare l’elaborazione e l’analisi di dati, insieme alla sicurezza informatica. Il secondo pilastro, invece, ambisce a garantire l’accesso a materie prime, ai semiconduttori, ai minerali e alle tecnologie necessarie a produrre energia pulita. Quest’ultime si collegano al prossimo punto dell’accordo, che prevede assistenza tecnica e finanziamenti agevolati per lo sviluppo di infrastrutture sostenibili e l’adozione di energie rinnovabili. Infine, si nota l’obiettivo di applicare politiche antiriciclaggio e anticorruzione, in linea con accordi multilaterali già esistenti, attraverso regimi fiscali più efficaci.

La flessibilità dell’accordo deriva dal fatto che i Paesi possono scegliere a quali dei quattro pilastri vogliono aderire. Questo, insieme al fatto che l’amministrazione Biden prevede di implementare l’IPEF attraverso una misura esecutiva, piuttosto che come un tradizionale accordo commerciale con l’approvazione del Congresso, rappresenta un ostacolo. Questa linea d’azione, infatti, se da una parte aiuta a superare certi ostacoli politici, dall’altra impedisce di offrire un maggiore accesso al mercato statunitense e di conseguenza cala l’interesse delle nazioni coinvolte.

4. Summit Usa-ASEAN e riunione del Quad

La strategia statunitense è rimasta poco chiara (e poco specifica) riguardo questo accordo economico ed è per questo che c’è stato grande interesse per il summit Usa-ASEAN convocato da Biden il 13 maggio. La vice-presidente Kamala Harris, a riguardo, ha parlato di una visione comune per la regione e di come insieme proteggeranno le norme internazionali dalle minacce, facendo riferimento implicito alla Cina. Inoltre, la Casa Bianca ha promesso circa centocinquanta milioni di dollari, di cui quaranta milioni in supporto alle iniziative per l’energia pulita e sessanta milioni alla sicurezza marittima, mentre circa sei milioni saranno destinati all’accelerazione dello sviluppo digitale della regione. Questi investimenti sono stati inevitabilmente paragonati ad un altro pacchetto annunciato la settimana prima: quaranta miliardi di dollari destinati all’Ucraina e la lotta contro la Russia. La somma risulta quindi modesta non solo rispetto agli investimenti cinesi, con scambi commerciali che già nel 2019 ammontavano al 18% del totale, ma anche ad aiuti promossi nello stesso momento in altre aree del mondo.

Biden ha poi intrapreso un viaggio il 20 maggio in Corea del Sud e Giappone, partendo da Seul e da una fabbrica di microchip della Samsung. Come riportato da Giulia Pompili, giornalista per Il Foglio, infatti, “mettere in sicurezza la catena di approvvigionamento tech è un’altra priorità dell’amministrazione”. A Tokyo, invece, si è tenuta la riunione del Quad, la partnership tra Stati Uniti, Australia, Giappone e India. La dichiarazione congiunta dei quattro leader ha riaffermato l’importanza della libertà, dello stato di diritto, dei valori democratici, di sovranità e integrità territoriale. Hanno inoltre riaffermato il loro supporto all’unità e centralità dell’ASEAN, insieme alla volontà di rafforzare la cooperazione con le isole del Pacifico per migliorare il loro benessere dal punto di vista economico, delle infrastrutture sanitarie, della sicurezza marittima e infine per fornire i mezzi per combattere il cambiamento climatico. Si è discusso anche degli sforzi per rispondere alla pandemia, dichiarando che sono stati promessi cinque miliardi e duecento milioni di dollari all’iniziativa COVAX per inviare dosi di vaccino a Paesi che non se le possono permettere. Cercheranno, inoltre, di stanziare più di cinquanta miliardi di dollari nei prossimi cinque anni per investimenti pubblici e privati, con particolare riguardo per le infrastrutture, nell’Indo-Pacifico per superare le differenze tra le nazioni dell’area.

L’incontro del Quad ha sottolineato una continua crescita e un rafforzamento, almeno in superficie, della cooperazione, ma le questioni di sicurezza e di sviluppo nell’Indo-Pacifico risultano ancora una volta come linee guida ricche di buoni propositi ma carenti di una strategia efficace.

Conclusione

Sebbene gli incontri avvenuti rappresentino la centralità dell’Asia, in particolare dell’Indo-Pacifico, nella strategia americana, quello che emerge è un interesse nel contenere l’espansione cinese. Da qui nasce il continuo richiamo alla sicurezza marittima e il tentativo di porsi come un’alternativa in termini di investimenti, ma in assenza di uno specifico accordo economico che lo permetta effettivamente. L’assenza di un maggior accesso al mercato statunitense sul tavolo delle discussioni riguardanti l’IPEF, implica un minore interesse da parte dei membri ASEAN di cooperare su tutti i pilastri. Alle spese necessarie per raggiungere gli obiettivi, non si affianca un guadagno attraverso le esportazioni, le quali sono invece più cospicue verso la Cina e rappresentano il maggior interesse economico e politico nel breve termine. Le differenze all’interno dell’associazione non fanno che rendere questo punto più problematico. Per questo, per quanto l’IPEF abbia degli obiettivi assolutamente condivisibili, incontra difficoltà nel porsi come reale alternativa agli investimenti cinesi. Rimane comunque rilevante per la sicurezza marittima, motivo per cui i membri ASEAN sono particolarmente interessati a mantenere le discussioni aperte.

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Bibliografia

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