La presenza cinese in Africa

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  27 March 2023
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1- La presenza cinese in Africa

La scoperta dell’Africa da parte della Cina non è un fenomeno recente. Già a partire dagli anni 60 del secolo scorso, la Repubblica Popolare Cinese aveva fornito sostegno ai movimenti di liberazione nazionale – sebbene la potenza economica di Pechino non fosse ai livelli odierni. A partire dagli anni ’90 la Cina aumenta sensibilmente la portata dei suoi investimenti nel continente africano, avviando piani di cooperazione economica e progetti che prevedono la realizzazione di infrastrutture, dalla sanità ai trasporti. Nella prospettiva cinese di intraprendere relazioni che portassero benefici sia al Dragone che al proprio partner commerciale (Win-Win Relationships), l’esponenziale crescita del colosso asiatico ha ridefinito i suoi obbiettivi di politica estera: la sempre maggiore necessità di materie prime ha dimostrato numerose ambiguità nelle relazioni con l’Africa, che hanno portato il continente intero a sviluppare modelli di crescita senza una concreta produzione di ricchezza e un ulteriore aumento delle diseguaglianze, sociali ed economiche.

1.1– Motivazioni strategiche sulla scelta dell’Africa.

Le origini dell’interesse strategico cinese verso l’Africa nascono da una volontà reciproca di cambiamento delle regole e del funzionamento del sistema interazionale: mantenendo una visione realista nella conduzione della politica estera verso l’Africa, Pechino ha giocato un ruolo fondamentale nel supporto ai movimenti antimperialisti, principalmente per ottenere un riconoscimento internazionale della propria leadership tra i paesi in via di sviluppo, per rafforzarsi nel confronto diretto con Mosca e per iniziare a delineare un modello di sviluppo che fosse alternativo alle proposte occidentali (Botha, 2006). Prima del 1990 notiamo quindi che i finanziamenti e le volontà di intervento a sostegno dei movimenti di liberazione e, successivamente, dei neonati stati indipendenti africani erano orientati a formare un blocco coeso di alleati che potesse sostenere le ambizioni internazionali della Cina: da una parte Pechino permetteva ai paesi africani di poter accedere a finanziamenti atti sviluppare la propria industria e il sistema di welfare; dall’altra la Cina sfruttava queste nuove alleanze per poter sostenere una futura cooperazione anche all’interno degli organismi internazionali, come ad esempio le Nazioni Unite e il WTO. In questo senso, l’anno chiave sarà il 1971, quando la Repubblica Popolare Cinese vedrà riconoscersi il ruolo di unica autorità rappresentante della Cina a livello internazionale, ottenendo il seggio permanente presso il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, a scapito di Taiwan.

Con la continua e vigorosa crescita economica della Cina, l’approccio all’Africa divenne sempre più pragmatico, spingendo Pechino ad incrementare le attività di estrazioni minerarie: si stima che il circa il 25% delle importazioni cinesi di petrolio provengano da Sudan, Angola, Nigeria e Ciad (Looy, 2006). Allo stesso modo, negli ultimi anni è emersa nitidamente la dinamica per cui questi interventi cinesi nel continente abbiano consolidato dinamiche di autoritarismo democratico, dove le istituzioni democratiche sono paralizzate da pochi individui al potere, e infine da una lenta, ma inesorabile espropriazione delle risorse nazionali.

1.2 – Tipologie e modalità di investimento

Nelle modalità di azione e di intervento in Africa, Pechino propone e modella una struttura di investimenti meglio nota come “Beijing Consensus” che fa da contraltare al “Washington Consensus” promosso dall’Occidente e da istituzioni come la Banca Mondiale e dal Fondo Monetario internazionale: se il secondo è più orientato alla creazione di politiche market-friendly e di liberalizzazione, il primo propone una serie di misure molto più vicine alle necessità dei paesi in via di sviluppo con una forte presenza dello stato nell’assistenza ai bisogni primari dei cittadini e nella conduzione delle scelte di politica economica. Un fattore che ha inciso fortemente nel successo del Beijing Consensus era l’assenza della “clausola di democraticità e trasparenza richiesta dalla Banca Mondiale e dal Fondo Monetario Internazionale, che prevedeva la sospensione dei prestiti erogati, qualora non venissero garantiti i diritti civili fondamentali e non fosse possibile tracciare accuratamente le spese eseguite dai governi: in molti paesi africani, la maggior parte dei governi aveva connotati fortemente autoritari e i soldi provenienti dalle istituzioni internazionali venivano investiti in armamenti piuttosto che nel potenziamento delle strutture sociali.

Il Beijing Consensus in generale valorizza il concetto di multilateralismo, consenso e coesistenza pacifica delle relazioni politiche e internazionali (Wenping, 2007). Per questo motivo, gli obbiettivi di crescita economica e politica estera guidano le decisioni commerciali e di investimento insieme all’assistenza finanziaria e tecnica “senza vincoli” (Zafar, 2007). La Cina propone offerte altamente competitive per la realizzazione di progetti di estrazione di materie prime e realizzazione di infrastrutture con prestiti che spesso vengono anticipati a interessi pari o vicini allo zero: in alcuni casi questi prestiti vengono ripagati in risorse naturali. La creazione di Zone Economiche Speciali è una componente chiave per la strategia economica cinese: tra le 19 zone approvate nel 2007 almeno cinque si trovano in Africa Sub-Sahariana. Tra queste si annoverano una zona mineraria in Zambia, una zona tessile nelle Mauritius e zone che ospitano vari settori manifatturieri in Etiopia e due stati nigeriani e sebbene i dati sull'occupazione siano provvisori, sembra che queste aziende abbiano generato una notevole occupazione, gran parte della quale locale dove sono risultati presenti 1849 dipendenti cinesi a fronte degli 11.192 dipendenti africani (PEDL, 2017); tuttavia questa situazione non sembra delinearsi al di fuori della Nigeria, dove le aziende cinesi hanno mostrato una certa resistenza all’assunzione di lavoratori locali, favorendo o preferendo l’assunzione di lavoratori cinesi.

In alcune aree dell’Africa, la scelta di favorire l’assunzione di lavoratori cinesi ha generato profonde instabilità sociali e potenziali pericoli per le industrie cinesi. Il caso più rilevante è forse quello del Sudafrica, dove la popolazione ritiene che le aziende cinesi siano i principali promotori dell’aumento del tasso di disoccupazione, favorendo parallelamente un modello di sviluppo non attento ai diritti del lavoro. Tuttavia, il governo Ramaphosa, nonostante lo scetticismo generale, ha ulteriormente potenziato le relazioni con Pechino al fine di rafforzare le prospettive di business e il rendimento generale del Sudafrica (Oxford Economics, 2022). Tuttavia, se da una parte l’accesso a prodotti cinesi si è dimostrato una valida alternativa per le fasce di popolazione a basso reddito – che quindi possono permettersi beni molto più economici rispetto a quelli di fattura occidentali -, dall’altra si crea un meccanismo vizioso dove la produzione cinese (in particolare nel settore tessile) annichilisce la competitività dei produttori locali, distruggendone l’economia. Con la progressiva erosione della produzione locale sudafricana, risulta essere sempre più concreto il rischio che le politiche di investimento cinese si trasformino in pratiche commerciali predatorie, che inevitabilmente diminuirebbero la diversificazione produttiva del paese e farebbero “terra bruciata” nei confronti di altri potenziali investitori esteri, i quali sicuramente non sarebbero attratti da un mercato dominato dai massicci investimenti cinesi.

La collaborazione sino-africana non è puramente economica, ma affronta anche il tema dell’educazione. Attraverso il FOCAC, il sistema di studi africani ha visto la creazione nel 2009 del China-Africa Joint Research and exchange Program che permette a numerosi ricercatori ed esperti di poter disporre di uno spazio dove condividere e confrontare le attività di ricerca (Funeka, 2013). Tuttavia, l’istituzione che meglio risalta il grado di cooperazione tra Cina e Africa è l’Istituto Confucio: questi, infatti, si trovano all’interno delle principali università dei paesi ospitanti e rendono lo studio della lingua cinese parte del progetto di formazione universitaria. Questi istituiti, presenti non solo in Africa, ma anche in Europa e negli Stati Uniti sono coordinati dall’Hanban, ossia l’ente del Ministero dell’Istruzione cinese e affinché essi possano risultare operativi deve essere presente una richiesta da parte dello stato/università di destinazione (King, 2014). La presenza di questi istituti, non solo nelle università, ma anche nelle scuole secondarie, ha generato pareri contrastanti: si ritiene infatti che la principale funzione di questi istituti non sia tanto quella di espandere la conoscenza della lingua e della cultura cinese, quanto più quella di uno strumento di “soft power” per poter accrescere il peso internazionale di Pechino. L’apertura degli istituti, infatti, prevede una serie di implicazioni dal punto di vista diplomatico, economico e securitario: negli Stati Uniti si richiese a tutte le facoltà conducenti studi su tecnologie all’avanguardia di esercitare grande cautela nel collaborare con aziende hi-tech cinesi, affiliate ai programmi Confucio (Stratcomcoe).

1.3 La presenza militare cinese in Africa

La cooperazione militare è fondamentale come strumento di rafforzamento per il conseguimento degli obbiettivi strategici cinesi nel continente, ma più in generale per il completamento di obbiettivi di difesa nazionale. Tra i principali obbiettivi della diplomazia militare cinese in Africa si può dedurre che in primis Pechino cerca di creare un ambiente regionale e internazionale pacifico al fine di garantire lo sviluppo e questo aspetto emerge con la grande partecipazione e sostegno da parte della Cina nelle operazioni di peacekeeping; un secondo obbiettivo è la tutela degli interessi nazionali cinesi in Africa attraverso un rafforzamento delle relazioni bilaterali, politiche ed economiche, che si traduce in un ampio sforzo nel contrastare atti terroristici contro cittadini, imprese e spedizioni cinesi nel continente africano; infine, per difendersi dalle accuse occidentali di nuove forme di colonialismo moderno, Pechino cerca di proiettare un’immagine di sé stessa come promotore responsabile della pace e dello sviluppo africano (Zhixiong, 2018).

Questi obbiettivi generano inevitabilmente una serie di sfide, tra cui in primis il sospetto e la competizione con le nazioni Occidentali, le quali temono che la presenza militare cinese sia di fatto giustificata non tanto dalla promozione della pace nel continente, quanto più da interessi strategici volti a porre Pechino in una posizione di netta superiorità nei confronti dei propri competitors, attraverso l’out sourcing di materie prime di cui l’Africa ne è ampiamente provvista.

In particolare, il ruolo della Cina in quanto fornitore di armi è stato oggetto di numerose ambiguità, se si considera che l’Africa è colpita da un flusso incontrollato di armi particolarmente forte. Tra il 2005 e il 2014, il volume delle vendite cinesi di armi convenzionali è aumentato del 143%: questo aumento deve essere interpretato alla luce di coinvolgimenti da parte di alcuni stati, come Uganda, Kenya e Ghana nelle operazioni di peacekeeping sovvenzionate dall’Unione Africana (SIPRI, 2015). L’aumento delle richieste di armi e il contemporaneo aggiornamento degli armamenti cinesi, sempre più moderni e sofisticati rendono Pechino sempre più ingaggiata negli scontri tra i governi centrali e attori non statali (come nel caso della lotta al gruppo terroristico Boko Haram), ma anche nelle guerre civili: un esempio è la spedizione da parte del colosso cinese Norinco di una fornitura di SALW (Small Arms and Light Weapons) alle truppe sud-sudanesi (Gridneff, 2014).

Pertanto, occorre sottolineare che questa massiccia iniezione di armamenti nel continente africano contribuisce indirettamente ad innescare un circolo vizioso per il quale le instabilità, anziché diminuire, si mantengono costanti o in aumento: sebbene la Cina non fornisca direttamente i propri armamenti ad attori ribelli o non-statali – in quanto consisterebbe in un illecito internazionale -, ci sono numerose evidenze che provano la scarsa trasparenza nel tracciamento delle vendite di armi da parte della Cina (Small Arms Survey, 2009). Le vulnerabilità dei depositi dove queste armi vengono immagazzinate insieme a una poco chiara e cattiva gestione logistica dei trasporti permettono ad attori non-statali di entrare in possesso delle SALW cinesi. La Cina sta ufficialmente difendendo le sue decisioni sulla base del fatto che non interferisce negli affari interni di altri stati; tuttavia, la decisione di fornire armi a un governo in cui l'autorità è molto contestata e/o le tensioni sono estremamente elevate è spesso contestata da molti altri paesi (Kirkham & Isbister, 2014).

2- Esempi di missioni e operazioni cinesi nel continente

2.1 – Operazioni di peacekeeping: il caso del Mali

L’intervento in Mali da parte della Cina segna un elemento di distacco dal passato: se infatti, prima, il contributo di Pechino alle missioni di pace prevedeva l’invio di squadre di supporto (come medici, unità di civili a supporto della popolazione, ecc.), verso la fine del governo di Hu Jintao assistiamo a un’interpretazione più flessibile della politica di non interferenza, con l’invio di circa 200 soldati (Large, 2012). Le relazioni tra Cina e Mali sono sempre state ottime, anche in passato: il Mali ha ampiamente sostenuto Pechino nell’acquisizione del seggio permanente al Consiglio di Sicurezza ONU e nella “One China Policy”. Allo stesso tempo la Cina è sempre intervenuta nel paese attraverso la costruzione di infrastrutture fondamentali come ponti e ospedali, a seguito del China Investment Development and Trade Promotion Centre in Bamako siglato nel 1996 (Mofcom, 2002).

Tuttavia, nonostante la presenza di progetti in comune e relazioni politiche ed economiche di lunga data, la scelta di intervento cinese in Mali è da interpretare in una volontà da parte di Pechino di ricoprire un ruolo più attivo all’interno dei fora internazionali, soprattutto in quello delle Nazioni Unite: questa volontà è rintracciabile nella costante e impetuosa crescita del Dragone, il quale ritiene di poter giocare un ruolo attivo nella diplomazia continentale africana e anche per difendersi da quelle accuse di neocolonialismo provenienti principalmente dall’Occidente. Infatti, il Mali, a differenza di altri scenari in cui è coinvolta attivamente la Cina, non dispone di peculiari risorse strategiche e la stessa comunità cinese presente sul territorio è di gran lunga inferiore rispetto ad altri paesi – come ad esempio il Sudafrica.

La presenza di soldati cinesi tra le fila dei caschi blu è quindi simbolica da un lato, mentre dall’altro riflette il timore che un possibile vuoto di potere prolungato in Mali possa generare un’estesa ondata di instabilità anche nelle regioni confinanti e un possibile rafforzamento del terrorismo islamico andrebbe a minacciare gli interessi continentali strategici della stessa Cina. La partecipazione cinese si inquadra pertanto negli obbiettivi dell’operazione MINUSMA (United Nations 2013) ha l’obbiettivo di salvaguardare l’integrità territoriale del Mali, contenere gli elementi separatisti ed estremisti religiosi e infine dimostrare vicinanza e solidarietà ad un paese colpito dal terrorismo.

2.2 – Protezione degli asset cinesi: il caso della Repubblica Democratica del Congo

Nel caso della Repubblica Democratica del Congo assistiamo ad una dinamica diversa da quella analizzata precedentemente. Qui, infatti, la Cina ha forti interessi strategici, legati principalmente all’estrazione mineraria del cobalto e del rame: delle diciannove zone di estrazione presenti sul territorio, quindici sono proprietà di aziende cinesi ed essendo materie prime strategiche, le banche statali finanziano le operazioni nell’ambito della Belt and Road Initiative (Watanabe, 2022).

Le operazioni cinesi avvengono in un paese fortemente frammentato e fragile: la corruzione e le interferenze politiche sono molto frequenti; l’apparato delle forze di sicurezza (polizia ed esercito) sono disfunzionali e inefficaci nella lotta contro i gruppi ribelli e la criminalità, principalmente per via dei bassi salari e delle scarse condizioni degli equipaggiamenti; le zone interne, come quelle di confine, non sono fermamente controllate dallo Stato (Ocindex Report). Queste condizioni inevitabilmente rendono necessari interventi più ampi da parte di Pechino per tutelare le aziende e la comunità cinese presente sul territorio: per questo motivo è stata stretta una collaborazione con l’esercito della RDC per fornire i mezzi e gli strumenti adatti per proteggere gli investimenti cinesi (Adf, 2022). Un fenomeno altrettanto frequente è il rapimento di cittadini cinesi da parte di gruppi ribelli; tuttavia, nonostante l’esercito congolese stesso sia incaricato di garantire la sicurezza dei cittadini, in alcune occasioni è risultato essere esecutore materiale di violazioni, privazioni e crimini contro cittadini cinesi (Bocciaga, 2022).

A lungo termine una situazione esasperata di estrema povertà e sottosviluppo potrebbe convincere le aziende e i cittadini cinesi alla sospensione delle attività, nonostante siano presenti enormi margini di profitto. Le minacce provenienti dai gruppi ribelli rendono molto difficile operare in molte zone della RDC e la mancanza da parte del governo centrale di una risposta concreta a queste sfide, porta la Cina a dover rivedere l’applicazione dei propri principi in politica estera: di fronte a stati così fragili, dove giacciono interessi fondamentali per Pechino, il principio di non interferenza si scontra con la necessità di creare e garantire un ambiente sicuro per il mantenimento e lo sviluppo degli investimenti cinesi.

Allo stesso tempo però, occorre sottolineare che le minacce non sono unicamente provenienti dal contesto sociale e politico del Congo: le aziende cinesi spesso possono mettere in atto una serie di comportamenti che portano la popolazione e il governo locale ad atteggiamenti ostili. In un recente rapporto di Amnesty International si riportano una serie di gravi violazioni dei diritti umani da parte di compagnie cinesi nella zona del Katanga, tra cui sgomberi forzati, condizioni di lavoro pericolose e forme di sfruttamento: la complicità e l’omertà da parte delle forze di protezione governative locali – frequentemente corrotte dai cinesi – di fronte a queste violazioni è ancora più grave, se si considera che questi attori cercano una giustificazione vagamente legale per la messa in atto di questi comportamenti (Amnesty International, 2013). Nonostante la scarsa popolarità e la difficoltà di integrazione nella società congolese da parte cinese (barriere linguistiche, usanze culturali completamente differenti, contatti sporadici) il governo locale continua a tacere su queste ripetute violazioni, in quanto riconosce che questo tipo di investimenti è una, se non l’unica, grande fonte di reddito del paese e pertanto non può permettersi di perderla.

3- Organizzazioni regionali e Cina

Ai già citati motivi e obbiettivi per cui la Cina interviene in Africa, tra cui la protezione dei propri interessi economici e dei propri cittadini, possiamo notare dagli eventi e sviluppi recenti che il disegno strategico di Pechino è molto più ampio. La cooperazione con l’Africa è orientata alla creazione di una maggiore influenza internazionale, mostrando la Cina come una “grande potenza responsabile” per riscrivere le “regole” del sistema internazionale. Per poter realizzare questo ambizioso progetto, gli strumenti principali adoperati da Pechino sono un rafforzamento degli apparati militari dei paesi che decidono di collaborare con il Dragone e un rafforzamento delle relazioni sino-africane in chiave strategica e di sfida all’occidente.

Per queste ragioni è fondamentale per la Cina avere non solo buone relazioni con i singoli stati, ma anche con le organizzazioni regionali che si occupano di tutelare la sicurezza continentale. L’Unione Africana in questo senso ha agito attraverso la creazione di una serie di meccanismi e comitati interni volti a tutelare la sicurezza umana ed economica: ad esempio, il Consiglio per la Pace e la Sicurezza è un organo decisionale permanente per la prevenzione, gestione e risoluzione dei conflitti, ed è anche il pilastro fondamentale dell’architettura africana per la pace e la sicurezza (APSA), che più in generale prevede una serie di misure per promuovere la pace e la prosperità del continente (Unione Africana). Nel 2010, la fondazione dell’African Standby Force (ASF) rappresenta un grandissimo step evolutivo dell’intera associazione: esso, infatti, si compone di differenti apparati che ricoprono funzioni militari e di polizia civile, suddivisi a loro volta tra le cinque principali regioni del continente. L’obbiettivo è quello di creare una forza di reazione rapida che consentisse una risposta immediata alle crisi senza gravare sui processi politici e decisionali (Unione Africana, 2019).

La Cina può potenziare le capacità di intervento militare dell’UA, sfruttando la presenza sul territorio africano di un ampio numero di truppe dell’Esercito Popolare di Liberazione. Il beneficio è sensibilmente importante se si considera che questi interventi andrebbero a rafforzare concretamente le strategie, la capacità di risposta e la prevenzione da minacce a obbiettivi sensibili per l’UA e i singoli stati africani. L’assistenza militare cinese è pianificata all’interno del piano d’azione di Pechino per la cooperazione Cina-Africa: oltre all’addestramento militare, questo piano prevede anche scambio di informazioni, vendita di armi e formazione per le forze dell’ordine (Ministry of Foreign Affairs, 2018).

Da queste informazioni, sebbene l’interesse della Cina reale sia quello di creare un ambiente sicuro per i propri investitori, assistiamo ad un sempre maggiore coinvolgimento cinese nelle piattaforme di dialogo multilaterali per sostenere attivamente le missioni a guida africana per il mantenimento e la costruzione della pace. La nuova linea di politica estera cinese quindi si allontana dal principio di non interferenza per favorire una politica di peace-building in quelle realtà africane dove la situazione economico, sociale e securitaria è precaria e dove, allo stesso tempo, risiedono importanti fonti di guadagno per Pechino.

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