I problemi di infiammazione e immunità sono in cima alla lunga lista dei sospetti COVID

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  Redazione
  07 March 2023
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A cura del Dott. Pierpaolo Piras, Specialista in Otorinolaringoiatria e membro del Comitato per lo Sviluppo di Mondo Internazionale APS

Il fenomeno globale del COVID non cessa di riservare sorprese ai clinici e ricercatori. Secondo il livello attuale delle scoperte scientifiche, le componenti patologiche in cima alla lista della patogenesi della malattia sono rappresentate dal processo infiammatorio acuto e dalle complesse problematiche immunitarie allegate. Questi argomenti sono ancora più citati in riferimento alla forma clinica del cosiddetto “Covid lungo”, ovvero con decorso clinico protratto e talvolta complicato.

I centri di ricerca affermano convintamente che sta emergendo più di un fattore biologico da incolpare nella dinamica del processo infiammatorio Covid in virtù dell'ampia rappresentanza di sintomi protratti, spesso debilitanti, che potrebbero infierire per mesi e, in alcuni casi, addirittura per qualche anno.

Oggi, l’opinione scientifica più affermata attribuisce il quadro clinico del Covid ad una condizione patologica dei tessuti colpiti molto più complessa dell’ordinario processo infiammatorio, e che quest’ultimo sia da attribuire anche ad una ulteriore componente autoimmunitaria oppure, forse ancora meglio, ad una “disregolazione” immunitaria.

Emerge sempre più evidente che la malattia sia il frutto di una combinazione queste tre componenti e capace di causare effetti patologici a cascata tra i quali i sintomi soggettivi e oggettivi, prolungati anche per mesi, come la difficoltà respiratoria e l’irriducibile astenia profonda.

Secondo le ricerche validate dal National Institute of Health (NIH) una percentuale compresa nel 10-30 per cento delle persone infette da COVID-19 vanno incontro al vario perdurare dei sintomi con l’eventualità di andare incontro ad ulteriori danni ad altri organi e apparati.

Inoltre, il COVID lungo potrebbe aumentare il rischio di aggravare i problemi di salute già esistenti e di innescarne di nuovi, tra cui le malattie cardiovascolari e il diabete di tipo 2.

Non c’è una sola causa

Finora, la ricerca ha accertato che non esiste un'unica causa conosciuta, condizione o malattia che spieghi le motivazioni biologiche per le quali alcuni malati presentano una vasta gamma di sintomi ancora persistenti dopo molto tempo dall’inizio dell’infezione e dopo che, per altro, la malattia si è già risolta.

Sotto il profilo patogenetico, gli studiosi chiamano in causa sempre più convintamente il ruolo di una combinazione di processi biologici patologici grazie ai quali il virus in alcuni pazienti si localizzerebbe al di fuori dell’organo polmonare (il più colpito) , diffondendo metastaticamente il processo infiammatorio, l'autoimmunità, la formazione di piccoli coaguli di sangue e persino la riattivazione di virus “dormienti” nei tessuti come ad esempio accade anche per il virus di Epstein-Barr (responsabile della Mononucleosi Infettiva), come si adombra nei recenti studi pubblicati nella rivista Nature Reviews Microbiology.

Il virus che si aggira nei tessuti

Diverse ricerche hanno dimostrato che il virus SARS-CoV-2 o porzioni di esso possono soggiornare inattivi in molte parti del corpo, come gli organi renali, l’encefalo, il muscolo cardiaco e il sistema gastrointestinale, molto tempo dopo l'infezione primaria.

Questo riscontro fa sorgere la domanda se sia tale persistenza virale che sta guidando attivamente e in maniera occulta la disregolazione immunitaria, responsabile della perdurante sintomatologia.

Di recente, uno studio eseguito e pubblicato dall’Università di Harvard (USA) ha dimostrato che i “serbatoi” del coronavirus nell’organismo umano potrebbero persistere all’interno di certi pazienti fino a un anno dopo la prima affezione virale.

Un importante studio tedesco ha poi rivelato che i pazienti con sintomi post-“COVID-19 lungo” presentavano livelli più elevati di tre citochine (IL-1β, IL-6, and TNF ) presenti nel sangue, ovvero molecole di natura proteica che da un lato modulano l’attività del sistema immunitario umano su cosa fare e con quale intensità eseguirlo. Dall’altro sono coinvolte nella crescita e qualità dell’attività sia delle cellule del sistema immunitario che delle altre cellule del sangue.

Al momento attuale, stando agli studi sul Long-Covid, i ricercatori teorizzano che possa esistere una sorta di riprogrammazione persistente di alcune cellule immunitarie e che l'incontrollata "iper infiammazione autoalimentata" durante la prima infezione da COVID-19 possa tramutarsi in una frequente interruzione della normale attività immunitaria.

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