Trump ha vinto.
Le elezioni presidenziali americane del 2024 si sono concluse, sancendo il secondo mandato del candidato repubblicano, Donald Trump.
Prima ancora che venisse ufficializzata la vittoria, anche se a scrutini per la maggiore già controllati e quindi con un risultato sostanzialmente certificato, Trump, dal suo resort di Maralago in West Palm Beach, in Florida, ha festeggiato la sua seconda elezione a Presidente degli Stati Uniti d’America con un discorso di ringraziamento dedicato a tutti gli elettori americani che gli hanno dato fiducia e alle personalità che l’hanno aiutato durante la campagna elettorale, dai membri del partito repubblicano, come il suo vice J.D. Vance, al multimiliardario Elon Musk, arrivando a ringraziare Dio per averlo salvato dai due attentati di cui è stato vittima in questi ultimi mesi.
Ma la vittoria di Trump non si limita alle presidenziali: i cittadini americani hanno votato anche per il Congresso e i risultati hanno visto i repubblicani conquistare anche il Senato, in precedenza sotto il controllo democratico, e la Camera dei Rappresentanti, già repubblicana dalle elezioni di metà mandato del 2022. Contando infine che la Corte Suprema è a maggioranza conservatrice, attualmente con sei giudici su nove, queste elezioni hanno sancito un controllo totale dei repubblicani sulla macchina politica americana e hanno conferito al loro candidato più potere di qualunque altro Presidente americano dall’epoca di Roosevelt.
Per gli analisti, la vittoria schiacciante di Trump arriva però come una grande sorpresa: certo l’eventualità era stata ampiamente presa in considerazione, soprattutto vista la proclamata natura combattuta di queste presidenziali, da combattersi su pochi grandi elettori, ma difficilmente ci si sarebbe potuti aspettare questo gran numero di stati storicamente tinti di blu democratico cambiare colore così repentinamente, soprattutto alla luce degli atteggiamenti di Trump durante la campagna elettorale, che si sono fatti via via più estremisti man mano che ci si avvicinava a novembre.
Bisogna quindi analizzare il perché Kamala Harris abbia ricevuto una sconfitta così cocente. In uno stadio in cui i risultati sono ancora freschi è indubbiamente difficile comprendere appieno quali possano essere state le cause della debacle democratica e le motivazioni che hanno portato molti swing states a dondolare verso i repubblicani. In molti accusano Harris di non aver preso le giuste distanze da Biden, un’amministrazione molto criticata per questioni come la crisi in Medio Oriente e l’inflazione, ma d’altronde sarebbe stato complesso per Harris dissociarsi completamente dal governo per il quale ha lavorato per quattro anni come vice-presidente. C’è chi lamenta una difesa troppo debole alle accuse sull’inflazione e i problemi economici che hanno colpito l’economia americana dal 2020, anche se l’amministrazione Biden si vedette obbligata a cercare di afferrare le redini imbizzarrite di un’economia a pezzi dopo la stop globale che aveva rappresentato la pandemia di Covid-19. Altri accusano Joe Biden e il suo ritiro ritardatario, che non avrebbe dato che pochi mesi di tempo a Harris per preparare al meglio la sua campagna elettorale, facendola partire da una posizione di netto svantaggio.
Ma quali che siano le vere ragioni dietro la sconfitta di Harris, che ha però fatto sapere di non avere alcuna intenzione di smettere di lottare, da gennaio Trump avrà la possibilità di guidare il paese che ha dichiarato di voler portare in una “nuova età dell’oro”. Ma nonostante la promessa di nuovi sfarzi, alcuni gruppi della popolazione americana tremano alla possibilità che il nuovo Presidente americano possa mantenere tutte le promesse fatte in campagna elettorale, come quella di organizzare un piano di deportazione di massa degli immigrati irregolari, politica che comprenderebbe circa 11 milioni di persone che ormai hanno consolidato la loro vita negli States e che, in molti casi, hanno creato famiglia, con figli nati in suolo americano e quindi cittadini americani.
Disparate sono state anche le reazioni degli principali attori della comunità internazionale, da Viktor Orbàn, Primo Ministro ungherese, che dopo aver detto che il mondo sta andando nella direzione che ha preso perché quando c’era Trump la Russia “aveva paura di lui”, come Cina e Corea del Nord, non ha potuto che fare i più sentiti complimenti al nuovo Presidente americano, al Presidente ucraino Volodymyr Zelensky, che già nel post su X di congratulazioni ha mosso i primi passi verso quello che si prospetta un rapporto complesso. Per la guerra in Ucraina l’elezione del candidato repubblicano rischia infatti di rappresentare la fine, o comunque il ridimensionamento, degli aiuti economici americani, primo finanziatore dell’Ucraina dall’inizio del conflitto, perché Trump non ha mai nascosto la volontà di porre fine alla guerra per abbassare le spese dell’amministrazione americana. Per questo motivo Zelensky, nel suo post sulla piattaforma di Musk, ha ricordato l’incontro avvenuto tra i due a New York questo settembre e ha citato e lodato l’idea di Trump “peace through strength”, cioè il raggiungimento della pace attraverso l’uso della forza.
In Medio Oriente il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha subito invocato la grande alleanza tra Israele e gli Stati Uniti d’America, mentre diversi esperti considerano ormai irrealizzabile la soluzione dei due stati per risolvere la guerra nella Striscia di Gaza, dato che Trump non ne ha mai dichiaratamente appoggiato l’applicabilità, a differenza di quanto fatto da Biden e Harris.
In Asia tornano i timori per la guerra commerciale alla Cina che aveva caratterizzato la prima amministrazione Trump. Dovesse riprendere questa politica protezionistica, e Trump ne ha già promesso una nuova applicazione, potrebbero soffrirne le conseguenze anche altri paesi dell’area Pacifica, oltre al colosso commerciale di Xi Jinping, come il Giappone, alleato fidato degli Stati Uniti, o altri paesi export-oriented come Tailandia e Vietnam. Anche la Corea del Sud accuserebbe il colpo, come quello di un’eventuale allontanamento americano dalla questione ucraina, dato che, in risposta al supporto della Corea del Nord ai militari russi in campo ucraino, anche il governo di Seul aveva cominciato a sostenere la causa di Zelensky.
Anche l’America Latina è stata divisa tra scoppi di entusiasmo e mal di pancia, con da un lato il Presidente dell’Argentina Javier Milei e l’ex Presidente brasiliano Jair Bolsonaro, che non hanno nascosto la grande contentezza per il risultato delle presidenziali del vicino americano, e dall’altro stati come il Messico e Cuba, spaventati dalle eventualità di un nuovo protezionismo americano e dalla chiusura ancora più netta del confine meridionale con gli States.
Infine, tra le congratulazioni arrivate dai capi di stato europei, grava il timore che la presenza americana nel continente possa farsi gradualmente più lieve: a spaventare ci sarebbe la visione che Trump ha della NATO, già attaccata al tempo del primo mandato per la scarsa partecipazione al budget militare dei paesi europei. L’isolazionismo potrebbe prendere anche la forma di dazi doganali, apportati per proteggere il mercato nazionale americano, che rischierebbero di danneggiare i paesi esportatori del continente europeo, come ad esempio l’Italia, che vede gli Stati Uniti d’America tra i partner commerciali più importanti, anche e nonostante i buoni rapporti tra Trump e Meloni.
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L'Autore
Lorenzo Graziani
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