Houthi vs The US/UK

Parte II

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  Matteo Gabutti
  04 febbraio 2024
  11 minuti, 59 secondi

Domenica 28 gennaio, un attacco aereo senza pilota si è abbattuto su una base statunitense in Giordania, causando più di quaranta feriti e reclamando la vita di tre soldati, le prime vittime da fuoco nemico per l’esercito americano dal 7 ottobre. Il Pentagono lo ha attribuito ad una milizia supportata dalla Guardia Rivoluzionaria Iraniana, sebbene Teheran abbia negato ogni coinvolgimento.

Il Presidente Biden ha promesso che “faremo rendere conto a tutti quelli responsabili”.

Di fronte all’inadeguatezza della mera diplomazia, la strada per una risposta statunitense più muscolare sembra ormai tracciata. Intanto, nuovi focolai rischiano di divampare al di fuori della Striscia di Gaza, soprattutto lungo quello che l’Iran chiama il proprio “asse di resistenza”.

Uno dei punti nodali è la porzione di Yemen controllata dagli Houhti che USA e UK hanno bersagliato a partire dall’11 gennaio, in autodifesa agli attacchi che i ribelli lanciano da novembre sulle navi transitanti per il Mar Rosso ed il Golfo di Aden.

Come analizzato nel precedente articolo, la risposta angloamericana è stata formulata e contestata nei termini del diritto internazionale. La vicenda, infatti, resiste ogni interpretazione univoca a causa di un mosaico di criticità che continueremo a cesellare nelle prossime righe.



La sfida moscovita

Dinanzi al Consiglio di Sicurezza dell’ONU, la Russia ha condannato USA e UK asserendo che il diritto all’autodifesa non si applica per le navi commerciali, e mettendo in dubbio che Washington e Londra possano farvi ricorso visto che si trovano a migliaia di miglia dal Golfo di Aden.

La critica di Mosca evidenzia due quesiti distinti.

Innanzitutto, se Stati Uniti e Regno Unito possano esercitare il diritto all’autodifesa in risposta ad un attacco armato come previsto dall’Art. 51 dello Statuto dell’ONU sebbene il loro territorio ne sia rimasto indenne. James Kraska, professore di diritto internazionale marittimo, risponde di sì.

Il Professore cita la definizione di aggressione adottata dall’Assemblea Generale dell’ONU nel 1974 con la Risoluzione 3314 (XXIX). L’Art. 3(d) specifica come ammonti ad aggressione un attacco “alle forze di terra, mare o aria, o alle flotte marittime o aeree di un altro Stato”. Se si considera un’aggressione – descritta nella Risoluzione come “la più grave e pericolosa forma dell’uso illegale della forza” – come sovrapponibile al concetto di attacco armato, dunque, USA e UK avrebbero diritto ad autodifendersi, visto che gli Houthi hanno preso di mira le loro forze di mare.

In effetti, Downing Street e la Casa Bianca hanno rispettivamente sottolineato come il 9 gennaio i ribelli sciiti abbiano lanciato “un attacco contro [il cacciatorpediniere britannico] HMS Diamond” e puntato “direttamente navi americane”.



Militari e civili

Allo stesso tempo, Londra e Washington hanno descritto un contesto più ampio, dove, nelle parole del Presidente Biden, “più di 50 nazioni sono state coinvolte in 27 attacchi contro spedizioni commerciali marittime internazionali” da parte degli Houthi.

A tal riguardo, il Prof. Martin Fink, s’interroga sul secondo quesito della critica russa, ovvero se l’episodio possa porre un precedente in cui il diritto all’autodifesa viene innescato da un attacco armato a navi civili.

La precisazione “flotte marittime o aeree” dell’Art. 3(d) della Risoluzione sembrerebbe voler distinguere una flotta commerciale dalle forze marittime statali. D’altro canto, allargare il diritto all’autodifesa anche a navi civili che non rappresentano direttamente lo Stato è certamente problematico, dal momento che trasformerebbe ogni imbarcazione in un potenziale grilletto per rispondere con la forza sotto l’egida dell’Art. 51.

In ogni caso, l’insistenza di USA e UK nel collegare la propria risposta agli attacchi subiti dalle proprie navi militari oscura il riferimento alle navi civili. Quest’ultimo servirebbe al più a dipingere il caso come sufficientemente grave per una replica necessaria e proporzionata. Quindi, le azioni angloamericane lascerebbero irrisolto il secondo quesito, forti del fatto che una risposta affermativa al primo basterebbe a giustificarle.

Ma siamo sicuri che basti?



Stati e ribelli

A intricare ulteriormente la trama, infatti, ci pensano i protagonisti.

La presenza di attori non statali pone una serie di problemi all’appello dell’Art. 51, e in generale all’applicazione dello ius ad bellum – l’insieme di norme che regolano il ricorso alla forza armata. In tal senso è illuminante un articolo del Prof. Marko Milanovic sul conflitto tra Israele e Hamas, le cui considerazioni possono estendersi verosimilmente agli scontri tra angloamericani e Houthi.

Nello scorso pezzo, abbiamo detto che l’Art. 51 rappresenta un’eccezione all’Art. 2(4) dello Statuto dell’ONU, secondo cui:

I Membri devono astenersi nelle loro relazioni internazionali dalla minaccia o dall’uso della forza, sia contro l’integrità̀ territoriale o l’indipendenza politica di qualsiasi Stato, sia in qualunque altra maniera incompatibile con i fini delle Nazioni Unite.


- Statuto delle Nazioni Unite, Art. 2(4)

Dai termini evidenziati si evince che la proibizione all’uso della forza si applichi alle relazioni interstatali. Quindi, tale proibizione non varrebbe per attori non statali quali Hamas o i ribelli Houthi, e senza proibizione non ci sarebbe neanche un’eccezione. Israele e USA/UK dovrebbero perciò ricorrere all’Art. 51 non per aver usato la forza contro i loro dichiarati avversari. Piuttosto, l’Art. 51 entrerebbe in gioco solo se, usando la forza contro tali avversari, Israele e USA/UK utilizzassero indirettamente la forza contro Stati soggetti all’Art. 2(4).

Il che, tuttavia, scoperchia un altro vaso di Pandora, ovvero la questione se Palestina e Yemen possano essere considerati come Stati ai fini del diritto internazionale – diversa dal chiedersi se i popoli palestinesi e yemeniti abbiano diritto a uno Stato.

Lo Yemen è considerato uno “Stato fallito”, dal momento che il governo internazionalmente riconosciuto non esercita alcuna autorità sul territorio in mano ai ribelli Houthi.

Ciononostante, anche assumendo di trovarci inequivocabilmente di fronte a uno Stato sovrano, rimarrebbe un altro dilemma, ovvero se l’attacco armato possa essere attribuito a un attore non statale o se anche l’Art. 51 si riferisca a relazioni puramente interstatali come l’Art. 2(4).



Espansionisti e restrittivisti

Stati Uniti e Regno Unito figurano nel campo “espansionista” che propende per la prima opzione. Pertanto, il diritto all’autodifesa giustificherebbe l’uso della forza contro gli Houthi senza bisogno di attribuire le loro azioni allo Stato dello Yemen, ma semplicemente considerando quest’ultimo come riluttante o incapace di fermarle.

Questa lettura corrisponderebbe alla controversa dottrina unwilling and unable, adoperata dagli USA in Afghanistan contro i Talebani dopo l’11 settembre. Secondo tale dottrina, uno Stato vittima di una minaccia situata in un altro Stato può intervenire contro la minaccia nel territorio dello Stato ospite se questo non vuole o non può agire da sé.

Secondo una prospettiva “restrittivista”, invece, invocare l’Art. 51 contro gli Houthi prevedrebbe l’implicito riconoscimento della loro sovranità sul territorio che di fatto controllano, che diverrebbe così uno Stato soggetto alla proibizione all’uso della forza dell’Art. 2(4).

Alternativamente, implicherebbe l’attribuzione delle loro azioni a uno Stato sovrano, che ne sarebbe così responsabile. Primo indiziato sarebbe l’Iran sostenitore dei miliziani sciiti. Tuttavia, tale attribuzione imporrebbe a USA e UK l’arduo compito di provare che i ribelli agiscano sotto le istruzioni o l’effettivo controllo di Teheran. E quella tra Houthi e Iran, nelle parole della ricercatrice ISPI Eleonora Ardemagni, non si delinea come la classica relazione clientelare da conflitto per procura, ma piuttosto come un “matrimonio di convenienza in tempo di guerra” che lascia ai ribelli una certa autonomia.

Anche da questo fronte, ahinoi, poche certezze.



Fine (?)

Lo scorso articolo si concludeva con la constatazione della centralità del diritto internazionale, adoperato da tutti gli schieramenti come un immancabile asset nel proprio arsenale. Che tale centralità sia utile o incoraggiante è tutto da dimostrare.

Di fronte alla crisi umanitaria della striscia di Gaza, il Prof. Milanovic conclude che “questo è uno di quei casi in cui, […] l’etica fornisce una risposta più chiara del diritto”.

Dinanzi allo scontro con gli Houthi e alla sempre più probabile regionalizzazione del conflitto iniziato il 7 ottobre, elucubrazioni meramente legali potrebbero suonare non solo insufficienti ma anche ingiustificate.

Eppure, nonostante la politicizzazione e le complessità cervellotiche, il diritto internazionale continua a offrire un punto d’osservazione privilegiato.

Come un vino pregiato, richiede una certa dimestichezza per riuscire appetibile al palato, e possibilmente una presentazione che gli renda giustizia. Altrimenti, rischiamo solo di ubriacarcene. A questo giro offre la casa.

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L'Autore

Matteo Gabutti

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Matteo Gabutti è uno studente classe 2000 originario della provincia di Torino. Nel capoluogo piemontese ha frequentato il Liceo classico Massimo D'Azeglio, per poi conseguire anche il diploma di scuola superiore statunitense presso la prestigiosa Phillips Academy di Andover (Massachusetts). Dopo aver conseguito la laurea in International Relations and Diplomatic Affairs presso l'Università di Bologna, al momento sta conseguendo il master in International Governance and Diplomacy offerto alla Paris School of International Affairs di SciencesPo. All'interno di Mondo Internazionale ricopre il ruolo di autore per l'area tematica Legge e Società, oltre a contribuire frequentemente alla stesura di articoli per il periodico geopolitico Kosmos.

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Matteo Gabutti is a graduate student born in 2000 in the province of Turin. In the Piedmont capital he has attended Liceo Massimo D'Azeglio, a secondary school specializing in classical studies, after which he also graduated from Phillips Academy Andover (MA), one of the most prestigious preparatory schools in the U.S. After his bachelor's in International Relations and Diplomatic Affairs at the University of Bologna, he is currently pursuing a master's in International Governance and Diplomacy at SciencesPo's Paris School of International Affairs. He works with Mondo Internazionale as an author for the thematic area of Law and Society, and he is a frequent contributor for the geopolitical journal Kosmos.

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